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Psicoterapia: lavorare con i rifugiati siriani in Giordania

Nella clinica di Salt si applica l' EMDR ad alcune pazienti siriane, il protocollo però non risulta utile qui: il livello di traumatizzazione è troppo alto

Di Cristina Angelini, Guest

Pubblicato il 14 Dic. 2015

Aggiornato il 06 Ott. 2023 12:18

Cristina Angelini, Edoardo Pera

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria. Piange per lei tutti i giorni. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto. La psicologa inizia il protocollo EMDR ma è in grande difficoltà: il protocollo standard qui non risulta molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto. 

Siam ha gli occhi grandi e 3 anni. Viene con la mamma, molto giovane e molto bella, in un gruppo di donne rifugiate siriane in Giordania. Siam è nata a Damasco, Sham in arabo, ma è scappata con la famiglia. Ora vive a Salt, ai genitori non è permesso lavorare, come a tutti i circa 2 milioni di siriani che vivono in Giordania: più della metà dentro campi di accoglienza, spesso enormi e sovraffollati, gli altri sparsi nel paese. Quelli che sono nei campi con un pasto e una tenda garantiti, quelli fuori senza niente di certo, ma liberi di muoversi.

L’UNHCR dovrebbe prendersi cura di loro ma è al collasso, senza più i grossi finanziamenti dei singoli paesi, e così molti dei rifugiati che stazionano in Giordania sperando di rientrare presto in Siria alla fine se ne vanno. Tentano di entrare illegalmente in Europa, la terra promessa.

Siam ha gli occhi sbarrati. La giovane mamma viene a un incontro organizzato dalla clinica di Salt, una delle tre aperte da un progetto di AIDOS-Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo- sul modello dei nostri consultori, finanziato dall’Unione Europea. Oggi sarà una di noi (C. A.), insieme a una collega psicoterapeuta italiana, Paola Castelli Gattinara supervisore EMDR, a condurre il gruppo con la collega giordana che ci traduce. La mamma di Siam viene con le due cognate. Sono tristi gli occhi della mamma di Siam, e anche quelli delle altre donne.

Quando ci presentiamo dico che ho lavorato a Damasco (ma la chiamo Sham come la chiamano loro) per 5 anni, in un altro consultorio di AIDOS, subito fuori del suq Al-Hamidie. Gli occhi della mamma di Siam s’illuminano a sentirlo nominare. E Siam si gira a guardarla. Alcune donne vengono da Damasco, molte da Homs e Hama. Faremo degli esercizi che hanno lo scopo di aiutarle a trovare un loro luogo interno sicuro, di pace, un luogo cui riconnettersi in questa difficile fase della loro vita.

Siam è immobile, le porgo un dolcetto, lei lo guarda e poi getta uno sguardo alla mamma, come in cerca di un cenno di assenso, ma la mamma sembra così lontana e Siam si gira rassegnata, e rimane immobile e seria col dolcetto in mano.

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe, preferirebbe fosse morto, e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria, non è riuscita ad entrare in Giordania. Piange per lei tutti i giorni e prega perché sopravviva. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto.

La psicologa giordana aveva iniziato già il protocollo EMDR di gruppo con loro ma è in grande difficoltà. Gli operatori hanno fatto il primo livello EMDR ma il protocollo standard qui non è risultato molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto e durante il protocollo le persone spesso dissociavano o non riuscivano ad accedere alle memorie traumatiche. Inoltre non è possibile lavorare sulle esperienze traumatiche con persone che si trovano tuttora in una condizione di forte insicurezza. Il rischio è quello di ritraumatizzarle. Bisogna aiutarle a mantenere i loro stati d’animo entro la cosiddetta finestra di tolleranza attraverso strumenti cognitivi, immaginativi e corporei che permettano loro di regolare ciò che provano.

Per questo in precedenti missioni un altro di noi (E.P.), psicoterapeuta corporeo didatta della SIAR- Società Italiana di Analisi Reichiana, e istruttore di Mindfulness, ha fatto dei training su alcune tecniche di regolazione: il grounding, per radicarsi e sentire le proprie radici e il proprio corpo, alcune tecniche di Mindfulness per essere connessi al presente e sviluppare la capacità di ritornare al qui ed ora. L’elaborazione dei traumi con l’EMDR è l’ultima cosa e verrà valutata caso per caso, eventualmente utilizzando il protocollo sugli eventi recenti e intercettando frammenti dell’esperienza da rielaborare.

Intanto ci occupiamo del posto sicuro, che molte, quasi tutte le donne, vorrebbero fosse in Siria, a casa loro. Ma la Siria non è più un posto sicuro, facciamo notare. Troppi dolori e brutte esperienze sono avvenute lì. Chiediamo loro di pensare a un’esperienza buona. Una donna dice che questo gruppo per lei è un luogo sicuro. Qui può parlare, essere ascoltata, anche piangere, e sente il calore delle altre donne, disperate come lei ma vicine. Anche le altre annuiscono.

La donna che ha il figlio senza gambe dice che lei aspetta solo di morire. Il suo posto sicuro è in paradiso. Noi rispondiamo che questo accadrà di sicuro, è solo un fatto di tempo per noi tutte (e indichiamo l’orologio), vediamo come possiamo impiegare bene il tempo che abbiamo nel frattempo. A questo punto ridono tutte e la tensione si spezza.

Dopo l’esercizio dei quattro elementi (esercizio di stabilizzazione emozionale) e quello del posto sicuro chiediamo loro di intercettare un pezzetto buono di esperienza, una loro risorsa a cui riconnettersi: una situazione vissuta di efficacia personale (risorsa di mastery) oppure una persona che conoscono che ha la capacità di fronteggiare bene la loro difficoltà (risorsa relazionale) da immaginare accanto a loro, oppure un simbolo, religioso o altro, che dia energia e a cui accedere (risorsa simbolica). Alla fine condividiamo: il grounding è andato bene per tutte, sentirsi connesse alla terra aiuta sempre.

La respirazione è sempre un po’ più complicata: aiuta alcune persone, ma ad altre muove emozioni potenti. Il blocco del diaframma è una delle prime reazioni difensive e la respirazione profonda, che può sbloccarlo, porta anche l’emersione delle emozioni connesse. Nel programma corporeo che abbiamo elaborato negli ultimi anni di lavoro in situazioni di emergenza (Gaza, Siria, Kurdistan Iracheno, Giordania e Nepal) la proponiamo più tardi e con cautela rispetto ad altre tecniche corporee: prima introduciamo un lavoro sulla presenza oculare, per ridare alla persona il controllo sulla sua realtà, poi esercizi di presenza corporea, di consapevolezza dei propri confini, sulla giusta distanza sé-altro etc. Abbiamo imparato che per chi è stato soggetto a violenze e ha sperimentato la perdita di controllo, come molte donne che sono state violentate durante il conflitto in Siria (e si vergognano tantissimo a parlarne) rilassarsi e respirare è la cosa che funziona meno e che fa più paura.

Siam alla fine del gruppo ha iniziato finalmente a sbocconcellare il dolcetto. Ha intercettato il momento in cui la madre ha sorriso. Non a lei ma era pur sempre un sorriso. E poi la mamma sembrava più rilassata, più presente, ascoltava e annuiva, anche se non ha mai parlato.

Con le altre donne la salutiamo, e diciamo che forse ci rincontreremo un’altra volta tra qualche mese, intanto loro andranno avanti con la collega giordana e decidiamo che il gruppo andrà oltre gli otto incontri decisi all’inizio. Poi la mamma di Siam dice: “E magari prima o poi ci potremo rincontrare nel suq Al-Hamidie, alla gelateria che faceva il gelato coi pistacchi”. La speranza si è riattivata.

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