Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. I soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici.
Federico Lorenzo Gabellotti, Maddalena Ischia, Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano
Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: introduzione
Il riconoscimento, l’autoconsapevolezza e l’accettazione del proprio corpo è un aspetto apparentemente banale del sé ma che è comunque essenziale per avere successo nell’interazione con il mondo esterno e le persone (Giummarra et al., 2008).
L’esperienza corporea è un’esperienza complessa, per lo più inconscia e che dipende dall’integrazione di informazioni multisensoriali relative al corpo nello spazio. Questa complessa integrazione avviene tra i processi automatici, sensoriali e bottom-up (legati allo schema corporeo) con quelli di ordine superiore, percettivi e top-down (legati all’immagine corporea) (Gurfinkel e Levick, 1991; Kammers et al., 2006 ).
L’importante distinzione a livello concettuale tra schema corporeo e immagine corporea non dovrebbe implicare a livello comportamentale una separazione tra i due aspetti, in quanto questi possono interagire e influenzarsi a vicenda: ad esempio, strumenti come le protesi possono essere incorporati sia nell’immagine corporea (a livello del movimento e di una sua proiezione cosciente) che nello schema corporeo (a livello di approccio automatico con il mondo esterno) (Gallagher e Cole, 1995).
Lo schema corporeo è una rappresentazione plastica e dinamica delle proprietà spaziali e biomeccaniche del corpo che deriva da input sensoriali multipli che interagiscono con i sistemi motori (Kammers et al., 2006; Schwoebel e Coslett, 2005). Lo schema corporeo comprende uno schema motorio e posturale automatico su cui si basano i nostri movimenti non consapevoli, anche se può influenzare e sostenere l’attività intenzionale (Gallagher, 1986; Gallagher e Cole, 1995; Paillard,1991). Inoltre, questo schema può incorporare al suo interno anche parti significative dell’ambiente esterno (come possono essere le protesi per i soggetti amputati) (Gallagher, 1986). Quindi, lo schema corporeo è formato da rappresentazioni innate del corpo che forniscono un repertorio di funzioni motorie necessarie per la sopravvivenza e una piattaforma neurale attraverso la quale comprendiamo e interagiamo con gli altri nel corso della nostra vita (Brugger et al., 2000).
L’immagine corporea, invece, è una rappresentazione cosciente del corpo che è definita da aspetti lessicali e semantici, all’interno dei quali troviamo i nomi e le funzioni delle parti del corpo e le relazioni tra parti del corpo e gli oggetti esterni (Schwoebel e Coslett, 2005). Gallagher e Cole (1995) individuano tre aspetti importanti all’interno dell’immagine corporea:
- L’esperienza percettiva del soggetto del proprio corpo (cioè il rendersi conto del proprio corpo, in termini di presa di coscienza della posizione degli arti, del movimento o della postura);
- La conoscenza concettuale (compresi i miti o le nozioni scientifiche) che il soggetto ha circa il corpo in generale;
- L’atteggiamento emotivo del soggetto verso il proprio corpo.
Nei casi in cui lo schema corporeo risulti essere compromesso, ad esempio a seguito di deafferentazione corticale, l’immagine corporea e quindi l’attivazione consapevole di rappresentazioni alternative del corpo, permettono di compensare la perdita del controllo innato sulla postura e sui movimenti (Gallagher e Cole, 1995).
Esistono molti disturbi legati ad una percezione erronea del proprio corpo e della sua rappresentazione, che il più delle volte sono associati a danni a livello della corteccia premotoria, parietale o dei sistemi che coinvolgono queste aree. Tra questi disturbi troviamo il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Body Integrity Identity Disorder, BIID).
Che cos’è il disturbo dell’identità dell’Integrità corporea
Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. Sebbene venga studiata raramente, è possibile affermare che i soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici (Blom, Hennekam e Denys, 2012).
Risulta importante sottolineare che, in questi individui, l’arto bersaglio o target dell’amputazione non è affetto da handicap sensoriali, come ad esempio un grave dolore (McGeoch et al, 2011). Tutti questi soggetti, infatti, condividono la necessità di danneggiare definitivamente un corpo apparentemente integro (Sedda, 2011). I pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea esperiscono, quindi, una disparità tra il proprio corpo e quello che immaginano giusto o adeguato per loro (First, 2005; Ramachandran e McGeoch, 2007).
Questi soggetti, infatti, percepiscono un arto del proprio corpo come estraneo. Esplicative, in questo senso, sono le parole riportate da un paziente: “Non sento i miei arti come se appartenessero a me, e non dovrebbero essere lì” (cfr. Blom, Hennekam e Denys, 2012).
La sofferenza e la preoccupazione per l’arto bersaglio è così forte che interferisce con il funzionamento nella vita quotidiana, e in alcun casi l’ossessione per l’amputazione occupa gran parte della giornata di questi pazienti (si vedano, ad es., Blom, Hennekam e Denys, 2012).
Per potersi avvicinare al sentirsi come una persona disabile, molto spesso questi soggetti simulano una menomazione con l’uso di stampelle o di una sedia a rotelle. Inoltre, dal momento che i medici il più delle volte si rifiutano di amputare arti sani, e poiché in questi soggetti è forte bisogno di eliminare questa parte del corpo, possono mettere in atto (in maniera autonoma) soluzioni drastiche e pericolose per raggiungere lo stato fisico desiderato, attraverso delle automutilazioni, ad esempio sparandosi nelle gambe, attraverso ghigliottine create da sé, tramite l’uso di motoseghe o il congelamento dell’arto. Questi atti non sempre portano alla sopravvivenza del paziente (Bayne e Leavy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Berger et al., 2005; Patrone, 2009).
Il primo report scientifico di questo disturbo risale al 1977, quando Money et al. descrissero due casi di pazienti che manifestavano il desiderio di amputare un arto sano. Alcuni anni più tardi, Michael First (2005), in uno studio condotto su 52 volontari, descrisse gli individui che desideravano l’amputazione di un arto sano, identificando così alcune caratteristiche del disturbo, quali: la prevalenza di genere (la maggior parte dei soggetti erano uomini), la predilezione per l’amputazione di un particolare lato del corpo (il sinistro), e la preferenza per l’amputazione della gamba, piuttosto che del braccio.
Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea ad oggi non è spesso riconosciuto da neurologi, chirurghi e psichiatri, nonostante sia descritto in letteratura (Blom, Hennekam e Denys, 2012).
Attualmente il disturbo dell’identità dell’integrità corporea non è incluso nella Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie 11 o nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM-5).
disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Eziologiche
Sino ad ora, la spiegazione principale dell’eziologia di questo disturbo è stata psicologica/psichiatrica. Si riteneva, infatti, che il desiderio di amputazione fosse motivato da un impulso sessuale (De Preester, 2013). Tuttavia, studi più recenti hanno cercato di identificare (attraverso tecniche elettrofisiologiche o di neuroimaging), i correlati neurali di questa condizione. Secondo questi studi, il desiderio di amputazione originerebbe da un deficit nella rappresentazione corporea, piuttosto che da un impulso sessuale (Ramachandran e McGeoch, 2007).
Al momento, il dibattito è ancora aperto e di grande rilevanza per il trattamento di questi disturbo. Infatti, comprendere se il desiderio di amputare un arto sano abbia un origine psicologica/psichiatrica o neurologica è fondamentale per lo sviluppo di possibili trattamenti, specialmente in ragione del fatto che la maggior parte degli approcci che sono stati tentati sino ad oggi si sono dimostrati inefficaci (First, 2005).
disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Psicologica e Psichiatrica
La prima spiegazione psicologica/psichiatrica di questo disturbo è stata fornita da Money et al. nel 1977. Questi autori, descrivendo il desiderio di amputare un arto sano in due pazienti, definirono questa condizione apotemnofilia, dalla parola greca apo (lontano da), temno (tagliare un pezzo), e philia (amore), riferendosi ad un significato generale di amore per l’amputazione.
Prima della sua ridenominazione, l’apotemnofilia era chiaramente situata nel campo della vita sessuale ed erotica. L’apotemnofilia inizialmente comprendeva sia il desiderio di amputazione da eseguire sulla propria persona, sia la preferenza per un partner che presenta amputazione. L’apotemnofilia è stata considerata come una parafilia, cioè un disturbo di eccitazione sessuale.
Secondo il DSM-5, le parafilie sono impulsi sessuali intensi e ricorrenti, fantasie o comportamenti che coinvolgono oggetti insoliti, attività o situazioni che causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Più precisamente, l’apotemnofilia era principalmente intesa come una sorta di feticismo caratterizzato dall’uso di un arto amputato per l’eccitazione sessuale fisica o mentale.
Un feticista è definito come un soggetto che ricerca e ottiene gratificazione sessuale da diverse parti del corpo, o in situazioni in cui gli oggetti inanimati sono utilizzati come metodo esclusivo o costantemente preferito di stimolazione per l’eccitazione sessuale (cfr Lowenstein 2002, p. 135).
È importante sottolineare che i soggetti affetti da apotemnofilia non sono psicotici e non soffrono di allucinazioni. Il desiderio di amputazione non proviene da una illusione o allucinazione, ed è riconosciuto come insolito e bizzarro da chi lo possiede.
Tornando alla descrizione dei pazienti fornita da Money et al. (1977), uno di questi affermava:
” (…) l’immagine di me stesso come un amputato ha una fantasia erotica (ognuna diversa) che accompagna ogni esperienza sessuale della mia vita (…). ” (Money et al. 1977, pag. 117).
Per il secondo paziente, le fantasie di amputazione erano spesso presenti, ma non erano una premessa fondamentale per la sua eccitazione sessuale.
Il desiderio di amputazione riguardava un arto del lato sinistro del corpo nel primo individuo e del lato destro nel secondo. Entrambi i pazienti riportavano l’insorgere di questo desiderio intorno agli 11-13 anni. Il primo individuo, inoltre, era sottoposto a trattamento psicoterapeutico per le preoccupazioni circa la propria omosessualità ed una profonda paura della disapprovazione sociale. In aggiunta, questi individui riportavano di non volere fare del male a se stessi (sebbene fosse necessario per soddisfare il loro desiderio), e di essere attratti dall’asimmetria. Gli autori diagnosticarono questi soggetti come parafilici, escludendo la possibilità che soffrissero di disturbi paranoidei e associando il desiderio ad una disfunzione sessuale.
Secondo First (2004), in questi casi, il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sarebbe un modo compensativo per rifiutare la propria omosessualità: l’amputazione di un arto potrebbe prevenire e sostituire l’amputazione del pene in un transessuale. In questo caso il desiderio di amputazione e l’amputazione feticista sembrerebbero essere correlati. Ma nonostante questo, gli impulsi sessuali non spiegherebbero pienamente il disturbo in quanto non sono stati trovati in tutti i soggetti disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Money e Simcoe 1986; vedi anche Lowenstein 2002).
Alcuni anni dopo, un altro report sulla medesima condizione suggeriva una possibilità alternativa di spiegazione dell’apotemnofilia (Everaerd, 1983). Il paziente descritto da questo autore era un uomo che desiderava l’amputazione di una delle sue gambe. L’autore riporta alcuni episodi nella vita del paziente che si pensava fossero all’origine di questo desiderio: la vista di un ragazzo con una gamba di legno durante l’infanzia, l’attrazione verso questo ragazzo e l’idea che rappresentasse la felicità piena, lo sviluppo di preferenze omosessuali, ed infine, l’uso fasullo delle stampelle. Per l’autore, la motivazione che era alla base del desiderio di amputazione di questo paziente era l’ottenere il benessere fisico e mentale. L’amputazione, in questo caso, perdeva il suo significato sessuale, in quanto era l’unico modo per il paziente per sentirsi completo: assumeva, cioè, rilevanza dal punto di vista dell’identità personale. L’autore, infatti, sottolineava che il suo paziente non aveva problemi di identità sessuale (come sentimenti di colpa per l’omosessualità o un orientamento bisessuale).
Nei primi anni ottanta troviamo così un’indicazione piuttosto suggestiva per la futura distinzione tra apotemnofilia e disturbo dell’identità dell’integrità corporea, basata sulla possibilità che il desiderio di amputazione non sia necessariamente legato ad una motivazione sessuale. Per la prima volta, l’apotemnofilia sembra venire liberata dal suo carattere prominente feticista e quindi sessuale, e viene associata all’ immagine ed identità corporea.
Nel 2005, Michael First pubblicò il primo studio sistematico di un campione di 52 individui che desideravano l’amputazione di un arto sano. Nessuno di questi soggetti (di cui 4 erano donne) presentava deliri, e tutti eccetto uno riferivano che il desiderio era comparso nell’infanzia. Per quanto concerne la comorbidità psichiatrica, 41 soggetti non hanno riferito sintomi psichiatrici, mentre gli altri hanno descritto sintomi di media entità, come ansia e depressione. Lo stesso numero di soggetti, tuttavia, riportava almeno un episodio di origine psichiatrica durante la propria vita. 15 soggetti riportavano anche almeno un altro interesse parafilico, come ad esempio il travestimento o il masochismo. Inoltre, è importante sottolineare che questo studio descriveva anche 6 soggetti che avevano subìto l’amputazione, intervento che, secondo l’autore, aveva estinto permanentemente il loro desiderio.
In particolare, First (2005) suggeriva che l’attivazione sessuale fosse la motivazione secondaria per la maggior parte dei soggetti e che pertanto la ricerca di amputazione non potesse essere considerata una parafilia. Propose inoltre che questo disturbo non fosse incluso nel disturbo da dismorfismo corporeo (BDD, Body Dysmorphic Disorder): tra i due disturbi ci sono infatti delle importanti differenze. Primo, il soggetto con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non percepisce l’arto interessato come brutto, ma ha solo la sensazione che questo non appartenga veramente al suo corpo; nei soggetti con BDD, invece, la parte del corpo interessata è vista come antiestetica e disgustosa e ricorrono perciò alla chirurgia plastica per modificare tale situazione (Noll e Kasten, 2014). In secondo luogo, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono interessati all’intervento per migliorare esteticamente come succede nei pazienti BDD, ma hanno il desiderio di diventare disabili in modo da sentirsi più autentici.
Partendo da questi presupposti, viene quindi disegnato un parallelo tra il desiderio di amputare un arto ed il disturbo dell’identità di genere (First, 2005).
In quest’ultimo le persone hanno la convinzione che i loro organi sessuali esterni non siano contemplati nella loro identità mentale e quindi, come accade nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea, una parte della loro anatomia non viene considerata nel proprio sé (Noll e Kasten, 2014). First (2004) sostiene, inoltre, che sia il disturbo dell’identità dell’integrità corporea che il Disturbo d’Identità di Genere (Gender Identity Disorder, GID) si originano prevalentemente durante l’infanzia e si esprimono spesso attraverso l’imitazione dell’identità desiderata (fingendosi disabili o travestendosi) e vengono trattati con successo attraverso l’intervento. Quindi, l’autore concludeva che il termine Apotemnophilia non fosse appropriato per questo disturbo e propose il termine Body Integrity Identity Disorder, considerando questa condizione il risultato di uno sviluppo insolito della propria identità, dove la componente sessuale non aveva un ruolo primario.
Lo studio di First (2005) è stato però criticato da Helen De Preester (2013), la quale suggerì che fosse impossibile escludere la componente sessuale nello studio dell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Essa rianalizzò i dati di First, cercando i casi puri, ovvero quei casi nei quali la motivazione sessuale (o la motivazione identitaria) fosse completamente assente. La percentuale degli apotemnophilici puri e degli identità puri è risultata essere molto bassa (intorno al 10%). La motivazione sessuale era presente solo nel 42% degli individui studiati da First. Secondo la De Preester, il fatto che l’impulso sessuale fosse secondario non voleva indicare che fosse di minore rilevanza.
Il dibattito sul ruolo delle componenti sessuali nell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea è ancora aperto, ed è più di tipo teorico che sperimentale. In sintesi, le spiegazioni psicologiche / psichiatriche per il desiderio di amputare un arto sano includono due ipotesi principali: una compulsione sessuale, appartenente al nucleo parafilico, e un disturbo di identità, parallelo al disturbo dell’identità di genere (Sedda e Bottini, 2014).
Allo stato attuale, non sono state proposte nuove spiegazioni psicologiche / psichiatriche: perlopiù, questa condizione non è stata inclusa nelle classificazioni del DSM-5.
disturbo dell’identità dell’integrità corporea: ipotesi neurologiche
Recentemente, l’emergere di prove neuroscientifiche ha favorito un’eziologia alternativa a quella psichiatrica / psicologica.
A partire dal lavoro di Ramachandran e McGeoch (2007), sei studi sperimentali hanno esplorato i correlati fisiologici e cerebrali di questa condizione, evidenziando un’attività corticale alterata, soprattutto nel lobo parietale, ed i comportamenti atipici controllati da queste stesse aree (Brang et al, 2008; McGeoch et al., 2011; Aoyama et al., 2012; Hilti et al., 2013; van Dijk et al., 2013; Lenggenhager, 2014; Bottini et al., 2015). Questi dati sollevano la questione se l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea possa essere dovuto ad una disfunzione delle strutture anatomiche dedicate alla rappresentazione del corpo ed alla consapevolezza corporea.
Come precedentemente accennato, il primo studio che ha riportato questa ipotesi neurologica è quello di Ramachandran e McGeoch (2007). Gli autori affermavano che il desiderio di amputare un arto aveva aspetti in comune con la somatoparafrenia, in quanto gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una preferenza per il lato sinistro di amputazione. La Somatoparafrenia è infatti un sintomo neuropsicologico che emerge soprattutto dopo un danno all’emisfero cerebrale destro (Bottini et al., 2009; Gandola et al., 2012). In questi casi, i pazienti negano la proprietà di un arto, di solito il braccio paraplegico sinistro, sostenendo che il braccio non è loro e che il loro vero arto si trova da qualche parte nelle vicinanze. I pazienti somatoparafrenici hanno mostrato una riduzione delle loro menomazioni se gli viene somministrata una stimolazione calorica vestibolare fredda (CVS), a causa degli effetti di questa tecnica sul lobo parietale destro (Bottini et al., 2013). Di conseguenza, è stato suggerito di esplorare l’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea attraverso la risonanza magnetica funzionale e le risposte di conduttanza cutanea (Ramachandran e McGeoch, 2007).
Ramachandran e McGeoch (2007) hanno quindi sostenuto che se i sintomi scompaiono dopo la somministrazione di CVS, questa condizione può essere considerata di origine neurologica e, di conseguenza, i trattamenti per estinguere il desiderio devono rifarsi a manipolazioni fisiologiche di specifiche aree cerebrali.
Nel 2008, Brang et al. hanno presentato uno studio preliminare che ha esplorato la risposta di conduttanza cutanea (SCR) nei soggetti con il desiderio di amputare un arto sano. Gli autori hanno adottato un paradigma del dolore, applicando una puntura di spillo al di sopra e al di sotto della linea di amputazione desiderata su ogni gamba di questi individui. È stata rilevata un’aumentata SCR con stimoli che hanno toccato l’arto al di sotto della linea di amputazione. Siccome questo è stato il primo studio sperimentale a concentrarsi su misure più neurologiche, si trattava ancora di un report descrittivo, che includeva solo due soggetti con caratteristiche cliniche molto diverse: il primo desiderava una amputazione sotto il ginocchio destro, mentre il secondo amputazioni sia sotto il ginocchio sinistro che sotto la coscia destra.
Un secondo studio sperimentale, con un gruppo leggermente più consistente di individui (4 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea ed un gruppo di controllo), fu eseguito nel 2011 da McGeoch et al. Gli autori utilizzarono la magnetoencefalografia (MEG), in combinazione con un compito di stimolazione tattile, per esplorare l’attività delle aree parietali. I potenziali somatosensoriali evocati sono stati registrati per mezzo della magnetoencefalografia. I partecipanti venivano toccati: a) sul dorso di ogni piede, b) su ogni parte anteriore della coscia sopra la linea di amputazione desiderata, e c) durante la stimolazione elettrica del nervo mediano sulla faccia volare di ogni polso (condizione di controllo).
McGeoch e colleghi (2011) hanno trovato una riduzione significativa dell’attività del lobo superiore parietale destro (SPL) quando venivano confrontate le risposte somatosensoriali dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea per la gamba bersaglio con quelle per la gamba non bersaglio e quelle dei soggetti di controllo. Nessun’altra riduzione significativa dell’attività è stata trovata in aree che si sanno essere coinvolte nella rappresentazione del corpo, come l’insula (Berlucchi e Aglioti 2010).
McGeoch e colleghi suggerirono che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea fossero in grado di percepire l’arto interessato perché le cortecce visive e somatosensoriali risultavano intatte, ma non riuscivano ad incorporarle nella loro immagine del corpo a causa di disfunzioni del lobo parietale. L’ipotesi implicita è che l’immagine del corpo, ma non lo schema corporeo, sia danneggiata nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea.
Tuttavia, lo studio di McGeoch e colleghi indaga solo la percezione tattile, che di solito è attribuita allo schema corporeo piuttosto che all’immagine del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010). L’assenza di altri compiti che affrontano diverse componenti della rappresentazione del corpo può spiegare perché altre zone note che contribuiscono al senso di appartenenza, come la corteccia insulare (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010), non abbiano mostrato un’attività differenziale.
L’immagine corporea e lo schema corporeo dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea devono essere valutati con batterie neuropsicologiche più estese, contenenti tra l’altro compiti di denominazione e localizzazione di parti del corpo e di imaging motorio, che permettano di valutare tutte le forme di rappresentazione del corpo (de Vignemont 2010), prima di trarre conclusioni affrettate in favore di un disturbo dell’immagine corporea.
Inoltre, la dicotomia tra immagine corporea e schema corporeo è stata più volte posta in questione, a causa della sua vaghezza nello spiegare la grande varietà di disturbi neurologici che possono affliggere la rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).
Le teorie secondo cui il riconoscimento di sé e la consapevolezza siano mappate in una zona unica e che schema corporeo e rappresentazione del corpo siano moduli indipendenti sono troppo semplicistiche alla luce delle recenti scoperte sulla rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).
In maniera analoga può risultare semplicistico considerare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea come un deficit di proprietà che emerge solo da una disfunzione della SPL. I risultati di McGeoch e colleghi sono promettenti, ma la ricerca sul disturbo dell’identità dell’integrità corporea come fenomeno neurologico che colpisce la rappresentazione del corpo è appena iniziata, e dovranno essere chiarite diverse questioni prima di accettare questa categorizzazione.
In ogni caso, McGeoch e colleghi (2011) hanno concluso che l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea dovrebbe essere definita xenomelia e dovrebbe essere inclusa tra le sindromi del lobo parietale destro legate alla rappresentazione del corpo. Questo nuovo termine comprende il parallelo con la somatoparafrenia e significa straniero (xeno) arto (melia) in greco antico. Questa è la terza etichetta data alla condizione in un arco temporale di 34 anni.
Sebbene questi autori effettuino un parallelismo tra le due sindromi, Bottini et al. (2009) ci mettono in guardia sul fatto che si possano rilevare molte differenze tra il disturbo dell’identità dell’integrità corporea e i disturbi della rappresentazione del corpo classici, come la somatoparafrenia.
Gli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea possono presentare desideri di amputazione dell’arto destro, sinistro, o entrambi (First 2005; McGeoch et al. 2011). Al contrario, i pazienti somatoparafrenici presentano un senso di rifiuto diretto solo verso un lato del corpo e mai con sintomi bilaterali (Vallar e Ronchi 2009; Bottini et al. 2009).
Un altro elemento cruciale del disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che lo differenzia dalla somatoparafrenia, è la possibilità di recupero/guarigione spontanea. In contrasto con i pazienti somatoparafrenici (Vallar e Ronchi del 2009; Bottini et al., 2009), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non guariscono spontaneamente, ma piuttosto sperimentano un desiderio di amputazione per tutta la vita (First 2005). Uno dei pazienti nello studio di McGeoch et al. (2011) inizialmente desiderava un’amputazione bilaterale, mentre al momento dello studio ha riferito un minor desiderio di amputazione per la gamba destra, che dopo un anno scomparve completamente (McGeoch et al. 2011). Anche se gli autori ritengono questo fatto indicativo di plasticità cerebrale e recupero, e indice di una condizione reversibile (McGeoch et al., 2011), non è chiaro che cosa possa mediare il recupero, in quanto studi precedenti riportano che nessuno degli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia guarito spontaneamente in seguito a trattamento farmacologico o psicoterapeutico, ma solo dopo l’amputazione dell’arto desiderato (First 2005).
E’ stato comunque riportato in tempi recenti un trattamento di successo del disturbo dell’identità dell’integrità corporea con la psicoterapia (Thiel et al. 2011), anche se questo è l’unico caso conosciuto. È interessante notare che il paziente di Thiel e colleghi desiderava l’amputazione di entrambe le gambe, in maniera simile all’individuo nello studio di McGeoch et al., che era guarito dal desiderio di amputazione solo per la gamba destra, corroborando quindi l’importanza di comprendere il ruolo della lateralità.
Seguendo l’ipotesi di una sindrome del lobo parietale, Aoyama et al. (2012) hanno studiato i giudizi di ordine temporale negli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Il loro esperimento era basato sull’idea che l’integrità dell’immagine del corpo e della corteccia parietale (in altre parole, il preservato senso di proprietà) fossero necessari per valutare correttamente quale dei due stimoli consecutivamente applicati a una parte del corpo venisse somministrato per primo (Moseley, Olthof, Venema A, et al, 2008). I risultati di questo studio hanno rilevato che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea percepivano gli stimoli più distali (cioè quelli applicati all’arto che voleva essere amputato) come quelli somministrati per primi, mentre gli stimoli percepiti per primi avrebbero dovuto normalmente essere quelli somministrati a parti del corpo più prossimali, in ragione di tempi di trasmissione neurale più rapidi. Per gli autori, questi risultati confermavano la teoria secondo cui il desiderio di amputare un arto sano fosse una sindrome del lobo parietale, in quanto i pazienti dello studio non avevano disturbi sensoriali che potevano spiegare diversamente i risultati.
Hilti et al. (2013), hanno riportato, in accordo seppur solo in parte con gli studi precedenti, differenze strutturali tra soggetti di controllo e le persone che desideravano amputare un arto sano, evidenziandone differenze nel lobo parietale destro superiore (SPL), nella corteccia somatosensoriale primaria e secondaria, e nell’insula anteriore. Questo studio non prevedeva nessun compito attivo, in quanto l’obiettivo era solo quello di esplorare l’architettura corticale in questi pazienti.
Nello stesso anno è stato condotto un esperimento di risonanza magnetica funzionale (fMRI) (van Dijk et al., 2013), per confrontare l’attività cerebrale tra gli arti percepiti ‘di proprietà’ e quelli percepiti ‘da amputare’ nel corso di una stimolazione tattile e nell’ esecuzione di un compito motorio. In primo luogo i risultati del compito di stimolazione tattile, analizzati in termini generali (attività relative a entrambe le gambe degli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea rispetto ai controlli), hanno evidenziato una diversa responsività nella rete somatosensoriale, che comprende principalmente: la rete frontoparietale (corteccia premotoria dorsale [PMd]; il giro precentrale e postcentrale (tra cui la corteccia somatosensoriale); l’ SPL su entrambi i lati; la corteccia premotoria ventrale destra (PMV); la corteccia insulare; il giro sopramarginale e la corteccia occipito-temporale (la corteccia occipitale laterale; la precuneus; la corteccia temporale inferiore; il giro fusiforme; il cervelletto su entrambi i lati). È importante sottolineare che nessuna regione del cervello ha mostrato una responsività significativamente ridotta.
In secondo luogo, gli autori hanno preso in considerazione l’attività neurale come una funzione della gamba (quella che ‘vuole essere amputata’ contro la ‘propria’ gamba, in confronto con la gamba corrispondente nei soggetti di controllo). Questi contrasti hanno rivelato una attivazione ridotta nei PMV e PMd controlaterali, rispetto al gruppo di controllo. Non è stato misurato nessun significativo aumento dell’attività cerebrale in ciascuna area. Questi risultati suggeriscono che la sensazione di rifiuto di questa condizione è associata ad un’elaborazione somatosensoriale alterata. D’altro canto, i risultati del compito di esecuzione motoria non hanno mostrato differenze significative, sia considerando un confronto generale tra i controlli e gli individui con apotemnophilia / BIID / xenomelia, che prendendo in esame il senso di appartenenza verso la gamba.
In aggiunta, Ramachandran (2012) ha notato come i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea siano all’opposto dei pazienti con amputazioni dovute ad incidenti reali. Questi ultimi hanno spesso la sensazione dell’ arto fantasma nell’arto amputato (phantom limb), mentre nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto esiste ma non sembra attivare nessuna struttura cerebrale superiore in cui vengano rappresentati i confini del nostro corpo (Brugger, 2011). L’arto quindi pare non sarebbe incluso nel loro schema corporeo.
Se le osservazioni e la teoria di questi autori fosse giusta, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non dovrebbero avere sensazioni di arto fantasma. Dallo studio di Noll e Kasten (2014) è emerso che molti soggetti in seguito ad amputazione riportavano sensazioni dell’arto fantasma (anche se la comparsa avveniva in tempi diversi nei vari pazienti) e dolori a livello della zona amputata. Queste sensazioni erano riportate sotto forma di prurito, pressione, sensazione di avere degli aghi all’interno, sensazione di avere l’arto più piccolo del normale, più corto o più lungo, più caldo o più freddo a seconda dei soggetti. Questo quindi smentisce la teoria degli autori precedenti. Ma si potrebbe assumere che queste sensazioni all’arto fantasma dipendano da un’area somato-sensoriale chiaramente intatta presente nel lobo parietale. Se questa area non fosse stata intatta i soggetti non sarebbero stati in grado di svolgere le normali attività sportive prima dell’intervento. Quindi, Noll e Kasten (2014), hanno concluso che lo schema corporeo del paziente è presente in un’altra area del lobo parietale, che non è responsabile della sensazione dell’arto fantasma.
Sacks (1984) trova una corrispondenza tra disturbo dell’identità dell’integrità corporea e sindrome di Potzl. Molto spesso le distorsioni dell’immagine corporea derivano da tumori o ictus al lobo parietale, così come accade nei pazienti che soffrono della sindrome di Potzl, i quali ignorano parti del proprio corpo o le percepiscono come aliene, irreali o come parti di un altro corpo.
Anche la sindrome della mano aliena mostra una somiglianza con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Biran and Chatterjee 2004; Pappalardo et al 2004; Scepkowsky and Cronin-Golomb 2003). Questa sindrome solitamente appare dopo ictus, emorragie o tumori al corpo calloso o nella corteccia frontale mediale. I pazienti che ne soffrono percepiscono la loro mano sinistra come aliena e spesso non la identificano come loro stessa mano. Diversi studi hanno dimostrato come una riabilitazione neuropsicologica possa supportare il processo di guarigione di questi pazienti (Pappalardo et al, 2004).
Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella sindrome di Potzl o nella sindrome della mano aliena, molti dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una sofferenza verso l’arto alieno già a partire dall’infanzia. Questo dato potrebbe suggerire una malformazione congenita nel cervello (ad es. un’anomalia ai vasi sanguigni), un trauma cerebrale precoce (ad es. sindrome del bambino scosso) o un incompleto sviluppo dei nervi nella corteccia sensomotoria o nel corpo calloso.
Per questo molti autori hanno considerato l’ipotesi che alcuni casi di disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbero derivare da aberrazioni congenite nei correlati neuronali, dove lesioni o fattori ambientali giocano un ruolo secondario.
Tra questi, Smith e Fisher (2003) teorizzano che in pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto fisico si sia sviluppato senza una coscienza sensoriale di esso, a causa di una mancata corrispondenza congenita tra il corpo fisico e l’immagine corporea generata a livello della corteccia somatosensoriale.
Infine, un recente studio (Bottini, Bruger, e Sedda, 2015) ha esplorato l’ipotesi neurologica, partendo da una prospettiva differente. In questo lavoro, gli autori hanno somministrato una serie di test a 7 persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che avevano lo scopo di esplorare l’espressione facciale: il riconoscimento e le risposte di disgusto. La premessa di base era che l’insula, indicata negli studi precedenti come possibile area disfunzionale, è coinvolta nella rappresentazione corporea (Berlucchi e Aglioti, 2010) e nell’elaborazione delle emozioni (Jabbi, Bastiaansen, Keysers, 2008).
Un secondo punto di partenza, che ha convinto gli autori a seguire questa strada, è che i disturbi psichiatrici si trovano di solito in comorbidità con deficit nel riconoscimento delle emozioni (Kohler et al., 2011). A differenza degli studi precedenti che si sono concentrati sulla rappresentazione del corpo di per sé e hanno trascurato le componenti sessuali e psichiatriche, questo studio ha adottato una metodologia neuropsicologica ed ha esplorato entrambe le eziologie (neurologica e psichiatrica). Gli autori hanno trattato i dati come casi singoli, evitando il problema di raggruppare insieme individui con differenti caratteristiche cliniche. I risultati di questo studio hanno mostrato assenza di riconoscimento delle emozioni e anche deficit di espressione, in tutti gli individui.
Comunque, i soggetti che hanno cercato un’amputazione unilaterale hanno mostrato un modello diverso per quanto riguarda la valutazione delle immagini raffiguranti gli arti amputati (non persone amputate, ma arti amputati, ad esclusione di qualsiasi componente sessuale di attrazione verso un amputato). Questi individui valutato queste immagini come non disgustose – un comportamento contrario a quello che si può aspettare da modelli noti di disgusto verso le violazioni dell’involucro del corpo (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Tali modelli affermano che il disgusto è una reazione difensiva verso il pericolo; di conseguenza, le violazioni della raffigurazione del corpo suscitano questa emozione (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Sembra che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia caratterizzato da una compromissione dell’emozione, selettivamente legata al corpo, ma solo in alcuni individui che condividono specifiche caratteristiche cliniche.
Trattamento del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e qualità della vita di questi pazienti
Molti studi hanno dimostrato come le psicoterapie tradizionali abbiano pochi effetti sul desiderio di amputazione (Bayne e Levy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Braam et al. 2006; First, 2004; Storm e Weiss, 2003): esse possono talvolta aiutare i pazienti a diminuire o tollerare i loro pensieri, ma non li eliminano del tutto (Braam et al., 2006; Wise e Kalyanam, 2000).
Nello studio di Noll e Kasten (2014), la maggior parte dei soggetti sottoposti ad operazione aveva cercato di resistere al proprio desiderio per molti anni, evitando l’operazione con differenti tipi di terapia e trattamenti. La decisione di ricorrere ad un intervento era infatti legata ai mancati effetti delle diverse terapie provate. Tra quelle citate troviamo trattamenti farmacologici, psicoanalisi, terapia comportamentale, counseling prima dell’intervento, e psicodramma. Solo due dei 18 soggetti presi in esame hanno riferito di aver avuto un profitto dalla terapia, in particolar modo dalle terapie di counseling. Per gli altri, invece, il desiderio di un’amputazione era aumentato durante la terapia stessa.
Questo può essere dovuto al fatto che parlare di disturbo dell’identità dell’integrità corporea in terapia porta maggiormente l’attenzione del paziente su questo suo desiderio.
Alcuni pazienti avevano provato anche tecniche di rilassamento, il training autogeno, meditazione e rilassamento muscolare progressivo, ma nessuno di questi aveva avuto esiti positivi. Anzi, proprio queste tecniche avevano portato a focalizzare maggiormente l’attenzione dei pazienti sul corpo, incrementando il loro desiderio.
Sacks (1984) ha segnalato un possibile metodo per aiutare questi pazienti, che consiste nell’uso della terapia del movimento, spesso associata a musicoterapia. Lo scopo di questa terapia è quello di reintegrare la parte estranea del proprio corpo con la sua rappresentazione a livello cerebrale. Queste semplici cure possono essere usate per rinvigorire connessioni neurali tra corpo e mente atrofizzate, ma non sempre sono efficaci, soprattutto se la parte estranea del proprio corpo è stata effettivamente eliminata dalla mappa corporea presente nel cervello.
Il metodo proposto da Ramachandran e McGeoch (2007), che consiste nell’introdurre nel canale uditivo acqua fredda e poi calda per stimolare il lobo parietale opposto all’orecchio trattato, è stato in grado di trattare temporaneamente pazienti con somatoparafrenia e quindi potrebbe alleviare anche le sofferenze dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea.
Se questo metodo si mostrasse efficace, i medici potrebbero provare ad utilizzare la stimolazione magnetica ripetitiva (rTMS), che potrebbe migliorare le prestazioni di discriminazione tattile ed ampliare le corrispondenti mappe corticali somatosensoriali (Tegenthoff et al. 2005). Un’altra possibilità potrebbe essere l’impianto di elettrodi di stimolazione nell’area corticale interessata. Nel caso in cui si osservasse che la causa del disturbo dell’identità dell’integrità corporea fosse un tumore benigno o una malformazione artero-venosa, la microchirurgia o la radiochirurgia potrebbero essere terapie efficaci.
Alcuni autori, come ad esempio Muller (2008), hanno sottolineato l’importanza di incrementare gli studi sulle terapie da adottare con questa tipologia di pazienti, soprattutto per evitare che si ricorra all’amputazione quale forma terapeutica, quando ve ne potrebbero essere altre ugualmente efficaci.
Nel 2012 Blom, Hennekam e Denys hanno condotto uno studio su 54 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea il cui obiettivo era quello di fornire dettagliate caratteristiche somatiche, psichiatriche, e sociali del BIID e confrontare l’interruzione nel lavoro, nella vita sociale e familiare legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea in soggetti sottoposti ad amputazione vs. soggetti che non avevano subìto l’amputazione.
Ai soggetti che si erano identificati come affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono stati somministrati i seguenti questionari:
- BIID Phenomenology Questionnaire: questionario costruito dagli autori contenente domande relative a aspetti epidemiologici, medici, e specifici del disturbo
- Sheehan Disability Scale (SDS): scala che misura il danno funzionale dovuto alla malattia nel lavoro, famiglia e vita sociale (Leon et al., 1997)
- Adattamento della Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS) (Goodman et al. 1989, entrambi gli articoli in bibliografia). In questa scala gli individui devono indicare il controllo che hanno sui pensieri e le attività legate al BIID; il tempo che spendono; l’interferenza che esperiscono; lo stress che gli viene causato.
- La Mini-International Neuropsychiatric Interview Screen (MINI screen): scala di screening per i disturbi psichiatrici più comuni (Sheehan et al., 1998).
- La Beck Anxiety Inventory (BAI) che misura la severità dei sintomi ansiosi (Beck, Epstein, Brown, Steer, 1988).
- La Beck Depression Inventory (BDI), che misura la severità dei sintomi depressivi (Beck, Ward, Mendelson, Mock, e Erbaugh, 1961).
In accordo con la letteratura precedente, gli autori hanno rilevato che il livello di sofferenza nei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea è alto (First, 2005).
Le ossessioni legate al disturbo dell’identità dell’integrità corporea erano infatti presenti nei pazienti tutti i giorni, talvolta anche di notte. Esplicative in questo senso le parole di un paziente che ha preso parte allo studio:
“Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea occupa ogni momento della mia vita, e mi tiene sveglio anche la notte. L’insonnia è grave quasi tutte le sere”.
L’impatto sociale di essere affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è risultato essere enorme, e determinava una notevole compromissione della vita sociale, lavorativa e familiare di questi pazienti. Inoltre, molti di questi hanno riportato di trascorrere molto tempo fingendosi disabili, utilizzando ad esempio stampelle, bendando gli arti o attraverso l’uso di una sedia a rotelle (“Sto usando una sedia a rotelle a tempo pieno quando sono in pubblico. Cammino a casa. Questo è l’unico modo per rimanere in qualche modo funzionale”).
In aggiunta, questi pazienti hanno riferito sintomi depressivi e di ansia in misura più elevata rispetto alla popolazione generale; secondo gli autori, tali sintomi sono probabilmente secondari all’enorme angoscia che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea induce su una persona.
Gli individui affetti da BIID rivelano inoltre il loro disturbo alla famiglia e agli amici nella metà dei casi.
Per quanto concerne gli aspetti del trattamento, i pazienti hanno riferito che quello psicoterapico era spesso di supporto, sebbene non di aiuto nel diminuire i sintomi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea:
“Mentre la psicoterapia non mi ha aiutato direttamente a superare il mio disturbo, essa è servita a capire il mio rapporto con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea”.
Dal punto di vista del trattamento farmacologico, gli antidepressivi sono stati percepiti come utili per ridurre i sintomi depressivi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea, a differenza degli antipsicotici.
E’ interessante notare che l’amputazione effettiva dell’arto è stata efficace in tutti i 7 casi che hanno avuto un trattamento chirurgico
“Mi chiedo se ho diritto a partecipare a questo studio, perché da quando ho subìto l’amputazione non ho più avuto sentimenti di disturbo dell’identità dell’integrità corporea”
I soggetti che avevano subìto un’amputazione, infatti, hanno ottenuto punteggi significativamente più bassi sulla Sheehan Disability Scale rispetto a quelli che non l’avevano subìta. Ciò sembra suggerire che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea preferiscano sentirsi in armonia con la propria identità, anche se questo comporta una disabilità fisica.
La chirurgia sembra quindi risultare in una remissione permanente del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e in un impressionante miglioramento della qualità della vita, ma contrasta con le norme etiche dei medici che sostengono di non amputare arti sani (Craimer, 2009; Muller, 2009).
Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: aspetti etici legati all’amputazione
Attualmente vi è un’accesa discussione etica rispetto al riconoscere le amputazioni nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea come legali e da eseguire sotto condizioni molto restrittive (Bayne e Levy, 2005; Bridy, 2004; Beckford-Ball, 2000; Levy, 2007; Manok, 2012; Nitschmann, 2007).
Non c’è accordo sul fatto che i medici soddisfino il desiderio di amputazione di questi pazienti in qualsiasi circostanza. Legato a ciò, uno degli argomenti riportati contro la legalizzazione dell’amputazione nelle persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è legato al fatto che spesso questi soggetti mostrano il desiderio di più operazioni, dopo che la prima è stata eseguita.
Secondo altri autori, dal momento che non esiste una terapia che promette una guarigione dal disturbo dell’identità dell’integrità corporea, l’amputazione dovrebbe essere considerata come una possibilità di aiuto per queste persone.
Levy (2007) è a favore alla legalizzazione dell’amputazione in quanto appare ovvio che la malattia è difficile da trattare in altro modo: egli ritiene che l’unico metodo efficace al momento per aiutare questi pazienti sia proprio l’intervento chirurgico.
Per Bayne e Levy (2005), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono psicotici e sono ben consapevoli dei rischi e delle conseguenze a cui vanno incontro (e di cui ovviamente devono essere ben informati prima dell’operazione), perciò la chirurgia è eticamente possibile in quanto potrebbe prevenire la possibilità che molti pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si feriscano o si uccidano. Questo come conseguenza del fatto che molti medici, come è stato già detto, non sono disposti ad eseguire questo tipo di amputazioni sui loro pazienti ed è così che la maggior parte dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si recano nei paesi stranieri, poco sviluppati, ed eseguono operazioni rischiose pagando in contanti e rischiando la vita per le scarse condizioni di sicurezza e igiene.
Gli aspetti etici vengono presi in considerazione riferendosi a questioni legate ai quattro principi della bioetica (autonomia, non-maleficenza, beneficenza di giustizia).
Il principio dell’autonomia sostiene che gli esseri umani agiscono autonomamente quando l’atto è compiuto: con intenzione; con comprensione della situazione; senza controlli o influenze coercitive esterne (Muller, 2009).
Il principio dell’autonomia sottolinea l’indipendenza dei pazienti contro le autorità (anche mediche) ed esige che i medici rispettino i desideri dei pazienti e portino avanti le loro volontà. I pazienti hanno il diritto di scegliere tra differenti tipi di terapie mediche quella che ritengono più opportuna dopo aver valutato rischi e opportunità, in accordo alla loro situazione personale e ai loro valori individuali. Una volta soddisfatti questi criteri, il paziente con disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbe fornire il proprio consenso informato all’operazione. Se l’amputazione diventasse una terapia accreditata per i pazienti disturbo dell’identità dell’integrità corporea, i pazienti potrebbero scegliere tra la terapia psicologica, psicofarmacologica, neuroriabilitazione, amputazione o, eventualmente, stimolazione magnetica transcranica o stimolazione cerebrale elettrica.
Bridy (2004) ritiene che l’amputazione potrebbe essere accettata come legittima in vista della ricerca del paziente della sua felicità e autenticità.
Secondo il principio di non-maleficenza, i medici non dovrebbero eseguire l’amputazione senza indicazioni mediche ben precise, in quanto l’operazione comporta grandi rischi e spesso ha conseguenze importanti che vanno oltre la disabilità, come per esempio infezioni, trombosi, paralisi o necrosi (Beckford-Ball, 2000; Dotinga, 2000; Johnston e Elliott, 2002). L’amputazione potrebbe causare un danno irreversibile che non può essere guarito.
Secondo il principio di beneficenza, l’amputazione potrebbe essere giustificata nel caso in cui i benefici che ne derivano al paziente permettono di annullare il possibile danno. Quindi, affinché l’amputazione possa essere considerata legale devono essere soddisfatte tre condizioni: l’efficacia, la sostenibilità degli effetti e la non esistenza di una terapia meno nociva (Muller, 2009). Per Bayne e Levy (2005), First (2004), Fisher e Smith (2000) e Furth e Smith (2000) tali condizioni possono considerarsi soddisfatte. Ma nonostante questo, essi non sono stati in grado di presentare prove scientifiche sulla reale efficacia dell’amputazione come terapia per pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea, e si riferiscono approssimativamente all’osservazione di soli 10 casi per arrivare alle loro conclusioni. In più, la sostenibilità degli effetti può essere messa in dubbio: in alcuni casi, infatti, si verifica uno spostamento del sintomo che porta a successive amputazioni di più arti (Berger et al., 2005; Skatessoon, 2005; Sorene et al., 2006).
Il fatto che la psicoterapia e le sostanze psicotrope non siano molto efficaci per curare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è stato dimostrato solo da pochi studi di casi, mentre in altri gli SSRI e la terapia comportamentale sono stati in grado di diminuire il desiderio di amputazione (Berger et al. 2005). Quindi, i prerequisiti che potrebbero giustificare l’amputazione secondo il principio di beneficenza non sono né soddisfatti né dimostrati sufficientemente.
Tuttavia, il principio di beneficenza potrebbe giustificare le amputazioni nel caso in cui vengano fatte per prevenire conseguenze peggiori (Beauchamp e Childress, 2001). Questo dato è portato a sostegno dal fatto che alcuni pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono così ossessionati dal desiderio di aver un arto amputato che cercano di procurarselo autonomamente, schiacciandosi una gamba con dei pesi o con altri metodi “fai da te” (Dyer, 2000; First 2004; Furth e Smith 2000; Skatessoon 2005). Alcuni di questi casi hanno portato alla morte (Bayne e Levy, 2005). La possibilità di amputazioni eseguite correttamente e da persone professionali potrebbe impedire queste pericolose automutilazioni.
Il principio di giustizia prende in considerazione anche l’impatto sociale ed economico del disturbo. Un’amputazione porta ad un handicap: oltre a delle reazioni psicosociali nelle persone circostanti, questo ha delle conseguenze finanziarie. Mentre non vi sono problemi legati al finanziamento pubblico offerto dal sistema sanitario quando l’amputazione è eseguita a causa di incidenti o malattie, ci sono invece problemi giuridici quando l’amputazione è auto-inflitta o eseguita per cause estetiche, erotiche o finanziarie. Questo perché i costi sono elevati: le assicurazioni devono pagare le cure, i trattamenti medici e la riabilitazione dopo l’intervento; le abilità lavorative dei pazienti possono essere più limitate dopo l’intervento e quindi si crea la necessità di fornirgli una nuova formazione per un altro lavoro, mentre in altri casi i pazienti non sono proprio più in grado di poter lavorare e si arriva ad un pensionamento anticipato (Noll e Kasten, 2014).
Anche il contesto sociale circostante gioca un ruolo importante. Un ambiente sociale accondiscendente è molto importante per la soddisfazione a lungo termine dei pazienti, in quanto avere qualcuno con cui parlare migliora la loro situazione. Le persone a cui solitamente vengono riferite le vere motivazioni dell’amputazione sono i famigliari e gli amici, mentre raramente i colleghi (Noll e Kasten, 2014).
Conclusioni
Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, studiata di rado, in cui vi è una mancata corrispondenza tra l’immagine mentale del corpo ed il corpo fisico che influenza la vita delle persone colpite in modo estremo (Blom, Hennekam e Denys, 2012).
Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea si traduce in un intenso desiderio di amputare un arto o di danneggiare il midollo spinale, al fine di diventare paraplegici e può portare gli individui a mutazioni auto-inflitte. Per gli individui affetti da questa condizione, i desideri connessi al disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono fondamentali per la vita e non sono il risultato di un disturbo psichiatrico primario o somatico.
Ulteriori ricerche sono necessarie per rivelare l’eziologia di questa condizione, e quindi comprendere quale sia il trattamento più efficace.
Se infatti il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una condizione derivante da una disfunzione cerebrale, similmente ad altre malattie neurologiche come la depressione (Davidson 2010), una combinazione di trattamenti farmacologici e di psicoterapia dovrebbero essere attentamente pianificati.
Se invece il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è un disturbo neurologico legato ad una disfunzione del lobo parietale (McGeoch et al.2011; Aoyama et al. 2012) o a sindromi di rinnegamento (Berlucchi e Aglioti 2010), vi è un’ulteriore prova che un trattamento chirurgico non dovrebbe essere suggerito, e dovrebbero essere testati prima i risultati di tecniche meno invasive, come la stimolazione vestibolare calorica (Ramachandran e McGeoch, 2007).
Accanto alla chirurgia al momento non vi è alcuna strategia di gestione efficace del disturbo, ma
il riconoscimento e il rispetto per i desideri di questi pazienti possono ridurre l’enorme carico che questo ha sulla loro vita (Blom, Hennekam e Denys, 2012).
Anche la questione sulla legalizzazione delle amputazioni deve essere risolta. Come visto precedentemente, diversi autori (Bayne e Levy, 2005; First, 2004; Fisher e Smith, 2000; e Furth Smith, 2000) hanno sostenuto che l’amputazione ha spesso aiutato questi pazienti e quindi renderla legale a tutti gli effetti potrebbe permettere una riduzione di operazioni rischiose compiute in altri paesi o le auto-mutilazioni, oltre a garantire il benessere dei pazienti a lungo termine (Muller, 2009). Per risolvere questo problema, il punto cruciale da chiarire consiste nel comprendere se il desiderio di amputazione derivi da una scelta autonoma o da un’ossessione.
Fino ad ora la maggior parte degli studi ha sostenuto che alla base di questo desiderio ci sia un impulso sessuale o un disturbo dell’identità (Sedda, Bottini, 2014); inoltre, gli studi neurologici supportano l’ipotesi di un disturbo a livello celebrale. Tutto questo porta a considerare le amputazioni come lesioni gravi provocate da persone con sostanziale perdita di autonomia e quindi non propriamente in grado di scegliere con consapevolezza.
In conclusione, i 37 anni di studio di questo desiderio di essere disabili, hanno portato alla luce una condizione ancora segreta (ma forse non così rara, considerando il crescente numero di individui inclusi negli studi), che sembra difficile da capire, anche utilizzando le attuali tecnologie.
È necessario molto sforzo per trovare una soluzione e, infine, un trattamento per il disagio di questi individui. Questa condizione ancora oscura ha bisogno di un approccio multidisciplinare per andare oltre la semplice cornice sperimentale/clinica, e richiede un modello molto più complesso che comprende anche aspetti sociali ed etici (Patrone, 2009).