Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA
Il libro prende il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso.
Per dieci minuti, romanzo di Chiara Gamberale (2014), racconta vicende in prima persona della scrittrice trentaseienne Chiara, alter ego dell’autrice, in piena crisi esistenziale, se così si può chiamare. Lasciata dal marito, col quale aveva condiviso fin dal liceo un rapporto ai limiti della simbiosi, privata della rubrica settimanale che teneva con passione e bloccata nella scrittura del suo romanzo, abbandonata in una casa estranea, in una città troppo grande e troppo sconosciuta rispetto al paesino campagnolo nel quale era vissuta fino a un anno prima, la giovane donna si trova a vivere una vita che non le appartiene più. Come emerge dalle parole riportate nelle prime pagine [blockquote style=”1″]Unica a non avercela più, una vita, ero io. Al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento.[/blockquote]
Chiara si scopre in una condizione di confusione dove sono andati in pezzi alcuni importanti capisaldi attorno ai quali si era costruita la propria esistenza. Focalizzata su se stessa e sul suo dolore, la protagonista manifesta evidenti segni depressivi, che rimandano a quei sensi di vuoto e di brancolamento nel buio, a quella mancanza motivazionale e di voglia che spesso portano a pensare che non ci sia più alcuna speranza di serenità. È proprio in questa situazione che si colloca la proposta terapeutica della Dottoressa T., psicoterapeuta di Chiara. Gli antecedenti descritti, in quanto fattori di enormi e destabilizzanti cambiamenti che tendono a incrinare le idee e le certezze su cui si fonda la propria vita, possono infatti rappresentare input a intraprendere un percorso psicologico, esattamente come accade per la protagonista.
[blockquote style=”1″]Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto. […] Una cosa qualunque. Basta che non l’abbia mai fatta in trentacinque anni.[/blockquote]
Il libro prende quindi il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso. Al di là dell’apprezzabilità del romanzo, scritto con stile coinvolgente, sentimentale e ironico al contempo, è possibile utilizzare una chiave di lettura del racconto in termini più strettamente psicologici, in particolare facendo riferimento alla scuola di pensiero cognitivo-comportamentale.
La sfida proposta dalla Dottoressa T. può essere interpretata come una “scossa” che permetta alla protagonista di uscire dalla situazione di empasse in cui si trova, una sorta di spinta al cambiamento, un allargamento mentale che apra uno spiraglio nei muri rigidi degli schemi di pensiero. Quelli di cambiamento e di flessibilità cognitiva sono concetti centrali nella psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT, Cognitive Behavioural Therapy). Studi (Shafeian e Hatami, 2013) hanno infatti indagato l’efficacia di una terapia, basata su tale scuola, su donne in fase di divorzio con sintomi depressivi, trovando risultati confirmatori. Altri autori (Butler, Chapman, Forman e Beck 2006) hanno condotto una rigorosa meta-analisi sugli esiti della CBT, sostenendone gli effetti positivi sui disturbi e sui sintomi concernenti la depressione.
Facendo solo un rapido accenno al razionale teorico, tale approccio può essere considerato come un’unione della psicologia cognitiva (Neisser, 1962) e della psicologia comportamentale (Watson, 1913). Riassumendo i pensieri di coloro ritenuti i padri fondatori, Beck (1984) e Ellis (1989), Hofmann et al. (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012) i disturbi mentali e il disagio psicologico sono mantenuti da fattori cognitivi. Secondo Beck (1984) eventi esterni o interni a una persona generano sempre in essa, più o meno consapevolmente, pensieri volti a interpretarli che influenzano lo stato emotivo e il comportamento. Tali valutazioni automatiche si organizzano in veri e propri schemi di significato, modelli di pensiero che guidano l’esistenza degli individui e che generano salde credenze su di sé, sugli altri e sul mondo (Semerari, 2000). Il pensiero è quindi una rappresentazione della realtà (Ruggiero, 2011), che può però essere imperfetta a causa di errori di elaborazione cognitiva propri del funzionamento mentale umano.
Come spiegato da Ruggiero (2011), la sofferenza emergerebbe qualora un individuo utilizzi sistematicamente e rigidamente tali modelli di significato della realtà. Ellis (1989) definisce pensieri irrazionali queste convinzioni disfunzionali, che si traducono in “sciocche frasi” che le persone ripetono a loro stesse generando immediatamente disagio e sofferenza, nonché guidandone, di conseguenza, il comportamento. La terapia cognitivo-comportamentale agisce proprio su queste cognizioni maladattive che, in quanto pensieri erronei generati dalla persona stessa, possono essere verbalizzati, padroneggiati, cambiati (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012).
Errori di ragionamento, pensieri irrazionali e credenze disfunzionali, col passare del tempo, creano schemi che portano a un’interpretazione della realtà rigida e assoluta. Si attiva quindi un circolo vizioso per cui, avendo un’unica visione del mondo, si tende solo a confermare le proprie idee, aumentandone il determinismo e alimentando quindi emozioni e comportamenti dannosi per la propria salute psichica. Tali concetti sono trattati nel romanzo specificatamente durante una delle sedute psicoterapeutiche:
[blockquote style=”1″]-Basta davvero un attimo no?- -Per fare cosa, dottoressa?- -Perché i nostri schemi emotivi e mentali […] si rivelino in realtà dei limiti.[/blockquote]
Un altro momento importante in cui si rimanda a tali argomenti è quando l’autrice parla di Egoland. Accennando a un racconto scritto dalla protagonista, viene presentata questa idea di città dove ogni persona vivrebbe rinchiusa nel suo palazzo, costruito con mura più o meno spesse formate dalle proprie cognizioni, dal quale può essere difficile uscire, per paura o per abitudine. Afferma la Dottoressa T.:
[blockquote style=”1″]Sa, Chiara: ci abitiamo quasi tutti. Se Egoland è la cittadina dei retaggi, dell’infanzia, delle coazioni a ripetere e degli attaccamenti, è difficile evadere.[/blockquote]
Da sottolineare anche il rimando alla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1972; 1975; 1983) e, in particolare, al concetto di modelli operativi interni (IWM, Internal Working Models). Questi sarebbero dei modelli relazionali che un individuo si crea a partire dalle prime esperienze di interazione con le figure di accudimento primarie (solitamente la madre), degli assunti di base (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1987) su sé e sugli altri che permettono di fare previsioni sul mondo, guidando di conseguenza il proprio comportamento. Gli IWM sono mantenuti nel corso della vita e generalizzati alle nuove realtà, influenzando continuamente le interazioni e la formazione di legami dell’individuo. Bowlby (1977) utilizza i modelli operativi interni anche per spiegare le varie forme di disagio emotivo, compresa la depressione, che riguardano la separazione e la perdita, tra cui quelle relative al rapporto matrimoniale, in quanto forniscono indicazioni su se stessi all’interno e all’esterno della relazione. Nel romanzo, Chiara si trova catapultata fuori dal legame con il marito, perdendo così parte, per lei integrante, della propria rappresentazione personale. Da qui il senso di disorientamento e la tendenza all’autocolpevolizzazione, che Ellis (1989) considera come fonte di sofferenza e che collega all’autovalutazione negativa, consistente nell’attribuzione della negatività della situazione in cui ci si trova a propri difetti.
Guardando bene la condizione di Chiara, tuttavia, non si possono ignorare le effettive difficoltà e fonti di stress cui la protagonista è sottoposta. Come spiegato da Ruggiero (2011), in uno scenario negativo il pensiero più razionale può essere proprio quello negativo. In certi momenti non è possibile falsificare una visione pessimistica della realtà. In questo caso, uno degli aspetti che fa pendere la bilancia verso il benessere o il malessere psicologico è la capacità di stare dentro tali situazioni, di sopportarne l’incertezza e le emozioni derivanti. Riprendendo i precedentemente accennati pensieri disfunzionali (Ellis, 1989), quelle convinzioni che le persone si ripetono continuamente e che determinano emozioni e comportamenti, Ellis (1989) parla di intolleranza alla frustrazione per indicare appunto la convinzione che le delusioni che ci infligge la realtà siano insopportabili e che non sia normale e accettabile soffrire così tanto.
Ciò spesso porta al così detto evitamento esperenziale, definito da Hayes (Hayes, Wilson, Gifford, Follette e Strosahl, 1996) come quel fenomeno che si verifica quando una persona non è disposta a rimanere in contatto con particolari esperienze private, che possono essere ad esempio emozioni, pensieri, sensazioni corporee, e provvede quindi a controllarne l’espressione, nonché a sottrarsi ai contesti che potrebbero evocarle. A lungo andare, il tentativo di evitare sentimenti e pensieri conduce a limitare notevolmente le proprie esperienze, sia quelle nel mondo esterno sia quelle introspettive, per non correre il rischio di incappare nel dolore. Ancora, utilizzare l’evitamento esperenziale come una strategia sistematica per controllare aspetti interiori indesiderati può portare ad una incapacità di affrontare tali contenuti e ad una impossibilità di trovare strategie più funzionali (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999), con il risultato di incrementare il disagio psicologico e le sensazioni di essere disarmati e senza difesa, in un circolo vizioso autoconfirmatorio senza fine. Ellis (1989) sostiene l’importanza per le persone dell’imparare a tollerare la frustrazione, del provare a stare nell’emozione, come spiegato anche nel libro dall’esortazione fatta a Chiara
[blockquote style=”1″]E allora prova a guardarlo negli occhi una buona volta, il vuoto[/blockquote]
e si sostiene l’idea che la situazione è sì negativa ma sopportabile, non così terribile, come richiamato dalle parole della stessa protagonista
[blockquote style=”1″]Ma poi è arrivata quella mattina. Dove misteriosamente ho sentito che non faceva più così tanto male là dove faceva male. O che forse, ormai, a quel dolore mi stavo abituando. E che, in un modo o nell’altro insomma, potevo andare avanti. Forse lo stavo addirittura già facendo.[/blockquote]
Qui si collocano le terapie cognitive di terza generazione sviluppate a partire dagli anni ‘90, che prendono origine dalla volontà di trattare stati psicologici non direttamente modificabili a livello cognitivo. In particolare, in riferimento al romanzo, vi è una ripresa di tecniche comportamentali, ovvero esercizi da effettuare praticamente nel contesto quotidiano, come stimolatori di nuovi processi emotivi e affettivi, come vere e proprie esperienze emozionali correttive che possono rompere quei circoli viziosi di evitamento (Ruggiero, 2011). In questo scenario assume particolare rilievo la Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, 2004). Hayes (Hayes, Strosahl e Wilson 2012) illustra i due concetti cardine di questo approccio: l’accettazione delle emozioni e l’impegno a cambiare. Il concetto di base è che la sofferenza umana nasce dall’inflessibilità psicologica (rigidità nel pensiero e nel ragionamento) e dall’evitamento emotivo (fuga dalle esperienze emozionali dolorose). Per farvi fronte sarebbe necessario prendere consapevolezza e vivere le esperienze private ritenute inaccettabili e ingaggiarsi attivamente nel modificare il proprio comportamento (Hayes, Strosahl & Wilson 2012). Secondo alcuni autori (Garcia, Archer, Moradi, e Andersson, 2010), inoltre, l’ACT risulterebbe strettamente collegata a una serie di costrutti quali la soddisfazione per la propria vita, l’autostima, l’affettività positiva. Studi (Forman, Shaw, Goetter, Herbert, Park e Yuen 2012) hanno rilevato esiti positivi di tale psicoterapia nel trattamento della depressione. In particolare, Qena-ati e Pirani (2015) ne hanno verificata l’efficacia per donne sull’orlo del divorzio che manifestavano disagi psicologici.
In conclusione, dalla sommaria lettura in termini terapeutici cognitivo-comportamentali fatta del romanzo “Per dieci minuti”, emerge l’importanza assunta dal perseguimento di percorsi psicologici integrati, che prendono forma attorno alle peculiari esigenze, caratteristiche e risorse dell’individuo in quel preciso momento. L’obiettivo principale dovrebbe essere sempre favorire il benessere psicologico, tendere verso una maggiore salute psichica. Come afferma Ellis (1989), può essere frustrante e perfino dannoso puntare esclusivamente verso quadri rosei e ottimali, qualora non si possano o non si riescano a raggiungere. Molto più concreto, invece, ricercare la condizione migliore possibile date specifiche, determinate circostanze. Per fare ciò assume fondamentale importanza il processo di cambiamento. Aprire la propria visione, accantonare le credenze, rompere gli schemi rigidi di elaborazione della realtà, provare emozioni, modificare i comportamenti: tutti aspetti che possono fare paura e causare sofferenza, ma che sono l’essenza dell’evoluzione umana. Permettono cioè di concepire l’esistenza di differenti modi di vivere, alternative che l’individuo, volontariamente e consapevolmente, può decidere di abbracciare. Come afferma la Dottoressa T:
“-Cambiare è mortale-
-Chiara?-
-Si?-
-Cambiare è vitale-“.