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Teorie Cospirazioniste: definizione, ricerca e ricadute psico-sociali

Negli ultimi anni numerosi psicologi hanno studiato le teorie cospirazioniste, cercando di comprendere la loro diffusione e il loro successo nella società. %%page%%

Di Matteo Anderlini

Pubblicato il 22 Ott. 2015

Aggiornato il 03 Ott. 2019 15:54

Matteo Anderlini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di psicologi si è occupato di ricerca nell’ambito delle teorie cospirazioniste, cercando di comprendere e spiegare il motivo della loro ampia diffusione e del loro successo nella società. 

Definire esattamente cosa si intenda con il termine Cospirazione non è semplice. Una possibilità può essere quella di fare riferimento all’interpretazione più strettamente giuridica, secondo cui una cospirazione sarebbe descrivibile come un accordo che nasce tra due o più persone al fine di commettere un crimine nel futuro; nel suo senso più ampio, quindi, una teoria cospirazionista rappresenta l’accusa che questo crimine abbia effettivamente avuto luogo.

Tuttavia questa definizione non coglie quel complesso significato che, a livello socio-culturale, viene inteso come Teoria cospirazionista e proprio a questo significato sono maggiormente interessati gli psicologi (Thresher-Andrews, 2013).

Anche se non esiste una definizione unica e condivisa (Sunstein e Vermeule, 2009), in generale le teorie cospirazioniste (o teorie del complotto) appaiono come un tentativo di spiegare un evento, solitamente politico o sociale, non come frutto di attività palesi svolte alla luce del sole, bensì come risultato di un complotto segreto portato avanti da un gruppo di potenti individui o organizzazioni (Douglas e Sutton, 2008).

Tuttavia, come sottolineato da Brotherton (2013), gli psicologi che si occupano di ricerca sul cospirazionismo hanno solitamente evitato di fornire una definizione precisa (Butler et al., 1995) e hanno dato definizioni brevi e relativamente superficiali (Swami et al., 2013; Whitson e Galinsky, 2008; Zonis e Joseph, 1994) con l’implicito presupposto che la differenza tra teorie cospirazioniste e altri tipi di costruzioni fosse, in qualche modo, auto-evidente (Byford, 2011).

Proprio partendo da questa critica, Brotherton fornisce una definizione della teoria cospirazionista come di un’affermazione non verificata di un complotto, che non si presenta come la spiegazione più plausibile di un certo evento e che fa riferimento a fatti e implicazioni di tipo sensazionalistico. La teoria cospirazionista postula inoltre la presenza di cospiratori eccezionalmente malvagi e straordinariamente competenti; infine, essa si basa su prove deboli e tende ad auto-proteggersi dalla confutazione empirica.

Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di psicologi si è occupato di ricerca nell’ambito delle teorie cospirazioniste, cercando di comprendere e spiegare il motivo della loro ampia diffusione e del loro successo nella società (Brotherton et al., 2013). Molta della letteratura sull’argomento ha indagato la relazione tra diverse possibili dimensioni di personalità e la tendenza a supportare le teorie della cospirazione.

È emersa, per esempio, una correlazione positiva con diversi fattori: l’apertura all’esperienza, (definibile come curiosità intellettuale, forte immaginazione e propensione per le idee insolite), l’autoritarismo, il cinismo verso la politica, la sfiducia nei confronti dell’autorità e la propensione a credere nel paranormale (Abalakina-Paap et al.; Brotherton et al., 2013; Darwin et al., 2011; Swami et al., 2010, 2011, 2013, 2014). È invece emersa una correlazione negativa con il livello di fiducia verso gli altri, l’autostima e l’amabilità (aspetto definibile come bassa sospettosità verso gli altri, tendenza alla collaborazione e cordialità) (Abalakina-Paap et al., 1999; Goertzel, 1994; Swami et al., 2010, 2011; Wagner-Egger e Bangerter, 2007).

Sembra possibile quindi descrivere alcune caratteristiche tendenzialmente stabili degli individui che appoggiano le teorie della cospirazione. Tuttavia è importante sottolineare i limiti di questi studi, che sono di natura correlazionale e che per questo motivo, quindi, non permettono di accertare una relazione di tipo causa-effetto tra le variabili prese in considerazione.

Un secondo approccio di studio, che utilizza invece disegni di ricerca di tipo sperimentale, si è infatti concentrato proprio sull’analisi di questa relazione causale, indagando quali variabili possano determinare una maggiore propensione a sostenere le teorie cospirazioniste.

Ad esempio, Douglas e Sutton (2008) hanno mostrato come, rispetto ad un gruppo di controllo, il semplice fatto di leggere dichiarazioni cospirazioniste riguardanti la morte della principessa Diana porti ad una maggiore inclinazione a credere a queste stesse teorie. È interessante notare come, in realtà, i soggetti non sono consapevoli di questo cambiamento: esiste quindi una sorta di impatto nascosto delle teorie del complotto sulle nostre convinzioni. Analogamente, essere esposti ad informazioni che supportano la teoria secondo la quale la NASA avrebbe falsificato gli sbarchi sulla Luna, aumenta fortemente l’adesione alle teorie cospirazioniste sugli allunaggi (Swami et al., 2013). Presi insieme, questi risultati di ricerca dimostrano che il semplice fatto di entrare in contatto con affermazioni cospirazioniste aumenta il livello di aderenza alle teorie cospirazioniste stesse. E questo può rappresentare un potenziale problema, considerando la facilità sempre maggiore con cui le persone entrano in contatto, ogni giorno, con questo tipo di teorie, grazie allo sviluppo di mezzi di comunicazione che rendono la diffusione delle informazioni sempre più rapida e capillare (Coady, 2006).

Ulteriori ricerche mostrano come ci possano essere anche altre variabili che possono determinare una maggiore accettazione delle teorie cospirazioniste, oltre alla mera esposizione a queste teorie. Ad esempio, il fatto di essere sperimentalmente indotti a percepire una mancanza di controllo fa sì che i soggetti sperimentali (rispetto alla condizione di controllo) siano più propensi ad interpretare gli eventi come un complotto nei loro confronti (Whitson e Galinsky, 2008).

Un altro studio condotto in Polonia (Kofta e Sedek, 2005) ha mostrato come il pensiero cospirazionista nei confronti di gruppi etnici e nazionali tenda ad aumentare in prossimità delle elezioni parlamentari: secondo gli autori questo indica che il pensiero cospirazionista potrebbe rappresentare una sorta di mezzo di auto-difesa collettiva a fronte di un minaccia percepita da parte di un outgroup, ossia un gruppo sociale esterno al gruppo di appartenenza. Inoltre diversi autori hanno concentrato la loro attenzione sulla ricerca sui bias cognitivi sottostanti, quindi sugli errori sistematici di pensiero che possono portare maggiormente a sostenere le teorie cospirazioniste (Brotherton e French, 2014; Clarke, 2002; Leman e Cinnirella, 2007; Thresher-Andrews, 2013). Questi bias derivano dall’applicazione di alcune strategie di pensiero dette euristiche, ossia delle scorciatoie mentali utilizzate inconsapevolmente nell’elaborazione delle informazioni. Le euristiche semplificano il processamento cognitivo, lo rendono rapido e garantiscono un basso uso di risorse, tuttavia possono portare ad errori e distorsioni.

Tra i bias descritti dagli autori troviamo:

  • Bias di proporzionalità (proportionality bias): ritenere che ad eventi di grande importanza debbano corrispondere cause ugualmente significative;
  • Bias di attribuzione (attributional bias): tendenza a sovrastimare l’effetto delle caratteristiche interne e stabili di un individuo e a sottostimare l’influenza dei fattori situazionali;
  • Bias di conferma (confirmation bias): selezionare le informazioni coerenti con le proprie convinzioni e ad ignorare o sminuire quelle che non sono coerenti con esse;
  • Errore delle probabilità congiunte (conjunction fallacy): violazione delle leggi della probabilità che può essere descritta come la tendenza a sovrastimare la probabilità che si verifichino eventi congiunti e a sottostimare quella di eventi disgiunti.

Infine altri studi suggeriscono che credere alle teorie cospirazioniste possa potenzialmente permettere alle persone di far fronte sia al proprio senso di minaccia percepita, sia all’impossibilità di attribuire un significato agli eventi. (Newheiser et al., 2011).

Il quadro d’insieme che emerge dalla ricerca è quindi molto complesso, infatti sono molti i fattori che portano gli individui a credere alle teorie cospirazioniste. Sono stati individuati diversi fattori di personalità, fattori sociali legati al comportamento inter-gruppi e fattori puramente situazionali e legati al semplice entrare in contatto con le informazioni. Sono presenti fattori cognitivi e fattori che rimandano al ruolo funzionale di queste credenze, verosimilmente di natura auto-protettiva. Forse proprio la presenza di così tante variabili coinvolte che si pongono a diversi livelli esplicativi può spiegare il successo di queste teorie e il loro persistere nella società.

Ma che significato può avere, oggi, concentrarsi sullo studio delle teorie cospirazioniste? Può essere importante per diverse ragioni. Innanzitutto queste teorie trovano spesso consenso e possono influenzare la percezione di numerosi eventi storicamente e socialmente significativi (come la trasmissione dell’ebola, le missioni lunari o gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001) (Goertzel, 1994; Stempel et al., 2007; Swami et al., 2010). Inoltre, come sottolineato in precedenza, negli ultimi anni la popolarità delle teorie del complotto è significativamente cresciuta, probabilmente grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e per la conseguente maggiore facilità di diffusione di queste teorie tramite internet (Coady, 2006).

Oltre a ciò, nonostante la ricerca si sia concentrata maggiormente sulle variabili che portano le persone a credere alle teorie cospirazioniste, diverse ricerche che hanno indagato gli effetti di tali teorie mostrano come esse non siano per nulla innocue. Anzi, emergono importanti conseguenze a livello comportamentale che aprono profonde riflessioni e che vanno tenute in seria considerazione per il loro potenziale impatto sociale (Jolley, 2013a, 2013b).

Dalla ricerca emerge innanzitutto l’associazione tra le teorie della cospirazione e gli atteggiamenti degli individui. Per esempio Swami (2012) ha dimostrato, in un campione malese, che il credere alle teorie del complotto ebraico è associato a maggiori atteggiamenti razzisti nei confronti della comunità cinese. Inoltre, una ricerca di Imhoff e Bruder (2014) ha evidenziato come l’adesione alle teorie cospirazioniste predica atteggiamenti pregiudizievoli negativi nei confronti di diversi gruppi (ad esempio gli Ebrei, gli Americani e i capitalisti).

Altre ricerche hanno mostrato che l’esposizione alle teorie cospirazioniste non solo influenza gli atteggiamenti degli individui, ma può pregiudicarne anche i comportamenti. Nello specifico, Butler et al. (1995) hanno riscontrato che facendo vedere a dei soggetti il film ‘JFK’ di Oliver Stone (che mostra diverse teorie cospirazioniste che riguardano l’assassinio del Presidente John F. Kennedy), questi sono più inclini a sostenere le teorie della cospirazione in misura maggiore rispetto ai soggetti a cui invece non viene fatto vedere il film. Ma non solo: infatti una maggiore adesione nei confronti di queste teorie è associata ad una minore intenzione di votare.

Jolley e Douglas (2014a) hanno recentemente replicato questi risultati; in un primo studio hanno dimostrato che dopo l’esposizione ad informazioni pro-cospirazioniste riguardanti il coinvolgimento governativo in intrighi e complotti, gli individui sono meno propensi ad impegnarsi nella vita politica, rispetto ai soggetti di controllo esposti invece ad informazioni che confutano le teorie complottiste. Gli autori hanno dimostrato come questo effetto sia causato da un aumento della percezione di impotenza nei confronti delle politica. Nel secondo studio questa influenza dannosa è stata estesa all’ambito delle campagne ambientaliste: l’esposizione ad informazioni pro-complottiste riguardanti il cambiamento climatico riduce l’intenzione di impegnarsi in comportamenti che diminuiscano l’emissione di anidride carbonica (ad esempio l’uso di lampadine a basso consumo o l’uso di mezzi di trasporto pubblici). Questo effetto è risultato significativo sia rispetto ai soggetti a cui sono state fornite informazioni anti-complottiste, sia rispetto al gruppo di controllo, a cui invece non sono state fornite particolari informazioni. Come nel primo studio, questo effetto era mediato dalla percezione di impotenza nei confronti del cambiamento climatico, ma anche dal senso di incertezza e dalla delusione nei confronti degli scienziati che si occupano dello studio del clima.

Oltre all’ambito socio-politico, la ricerca si è anche interessata all’influenza che le teorie cospirazioniste possono avere su un altro importante ambito: quello della salute. Ad esempio, esistono teorie cospirazioniste che sostengono che l’HIV e l’AIDS rappresentino una forma di genocidio contro le popolazioni afro-americane: ebbene, la ricerca ha evidenziato come, nelle persone che appoggiano questo tipo di teorie, aumentino gli atteggiamenti negativi nei confronti dell’uso dei contraccettivi, come ad esempio il preservativo. Questo quindi suggerisce che le teorie cospirazioniste possono avere conseguenze negative anche sulla prevenzione delle campagne contro le malattie sessualmente trasmissibili (Bogart e Thorburn, 2006; Bird e Bogart, 2003). Risultati simili sono stati riscontrati da Hoyt et al. (2012) e Bogart et al. (2010): dalle ricerche è emerso che appoggiare le teorie del complotto dell’HIV risulta associato ad un aumento di rischio, in quanto gli individui sono meno inclini a sottoporsi alle terapie adeguate. Inoltre è stato dimostrato che credere alle teorie cospirazioniste è associato, in generale, ad una sorta di sfiducia nei confronti della scienza (Lewandoswky et al., 2013).

In un’altra recente ricerca (Jolley e Douglas, 2014b) gli autori hanno voluto analizzare il potenziale impatto delle teorie cospirazioniste anti-vacciniste sul comportamento degli individui. In due studi i ricercatori hanno ancora una volta rilevato come il supportare le teorie anti-vacciniste sia legato ad una minore probabilità di vaccinazione dei propri figli; ancora una volta questo cambiamento avviene anche solo se si entra in contatto con informazioni che supportano le teorie complottiste anti-vacciniste (sia rispetto al gruppo esposto alle informazioni pro-vaccino, sia rispetto al gruppo di controllo, al quale non è fornita nessuna informazione specifica). L’effetto è mediato da alcune variabili: pericolo percepito dei vaccini, senso di impotenza, disillusione e sfiducia nei confronti dell’autorità.

Tutti questi risultati evidenziano il potenziale ruolo delle teorie cospirazioniste nell’influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti degli individui e quindi le possibili conseguenze dannose in diversi ambiti, da quello socio-politico a quello della salute.

In conclusione, sembra importante sottolineare come alcuni autori si siano concentrati sulla ricerca di possibili soluzioni per contrastare la diffusione e l’accettazione delle teorie complottiste, proprio considerando i possibili esiti negativi associati, di cui si è precedentemente discusso.

Recentemente, Swami et al. (2014) si sono occupati di studiare come la modalità di processare le informazioni possa essere associata alla propensione a credere alle teorie cospirazioniste. In particolare gli autori hanno indagato l’influenza di due modalità principali: quella analitico-razionale e quella intuitivo-esperienziale. La prima è descrivibile come un processo lento, cosciente, ponderato e dettagliato; la seconda modalità, contrapposta alla prima, è invece un processo rapido, prevalentemente inconsapevole, spontaneo, globale e abbastanza superficiale. Gli autori, in una serie di studi, hanno dimostrato che una modalità di processamento delle informazioni di tipo analitico determina una minore accettazione delle teorie cospirazioniste. Ma non solo: infatti, se attraverso un compito di fluenza verbale si favorisce l’utilizzo di questa modalità, nei soggetti si riscontra una diminuzione dell’adesione a queste stesse teorie.

Secondo l’interpretazione degli autori una modalità di processo analitico-razionale potrebbe favorire un’elaborazione delle informazioni più attenta e precisa, facendo prendere in considerazione le inesattezze e le contraddizioni delle teorie cospirazioniste; inoltre potrebbe inibire i bias che facilitano l’assimilazione e l’accettazione di queste teorie. Un’altra possibile spiegazione è che una modalità di pensiero analitica porti a selezionare quelle informazioni che appaiono all’individuo più razionali e possa portare ad essere maggiormente scettici.

Non è comunque chiaro quale sia il meccanismo alla base di questo cambiamento, ma anche se saranno necessarie ulteriori ricerche che andranno ad indagare meglio questi aspetti, appare chiaro come l’uso di strategie di elaborazione di informazioni di tipo analitico-razionale riduca, almeno nel breve termine, la tendenza a supportare le teorie cospirazioniste.

Nonostante le teorie del complotto siano resistenti al cambiamento, questi ultimi lavori presentati si inseriscono in un filone di ricerca che mostra come sia possibile una riduzione dell’approvazione verso queste teorie tramite l’uso di argomentazioni critiche, logiche e basate sull’evidenza (Swami et al., 2013). A fronte quindi delle conseguenze negative derivanti dall’adesione alle teorie cospirazioniste, una possibile soluzione potrebbe essere quella di lavorare nell’ottica di una divulgazione e un’informazione che promuovano lo sviluppo delle abilità del pensiero analitico. O almeno, come sottolineano gli autori, potrebbe essere un utile inizio.

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