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Sulla fine e sull’inizio. Di Isca Salzberger-Wittemberg (2014) – Recensione

Fine e inizio sono esperienze universali. Cambiare fa paura ma non farlo significa condannarsi alla ripetizione di abitudini che non ci rappresentano più

Di Annalisa Bertuzzi

Pubblicato il 08 Apr. 2015

Se ci rifiutiamo di cambiare, nella pretesa di rimanere fedeli al “vecchio sé”, resteremo sempre lontani dal “vero sé”, perché la vita, nel suo continuo divenire, ci porta sempre un passo più in là rispetto a dove eravamo; non cambiare significa ostacolare il flusso vitale, condannarsi alla stagnazione, alla ripetizione di abitudini che non ci rappresentano più, come un bambino che, per paura di nascere, vuole rimanere per sempre nel grembo materno, anche quando ormai  esso non è più adatto a contenerlo.

La fine e l’inizio sono esperienze universali che appartengono alla vita di ciascuno di noi, alla mia, che sto scrivendo questa recensione, alla vostra, che state leggendo,  a quella dell’autrice.

Isca Salzberger-Wittemberg è una psicoterapeuta di origine tedesca che vive a Londra. Attingendo alla sua pluriventennale esperienza presso la Tavistock Clinic ci racconta di come dobbiamo continuamente confrontarci con le fini e con gli inizi, che sembrano due poli antitetici, ma che, a ben guardare, sono le due facce della stessa medaglia: la fine di qualcosa non è che l’inizio di qualcos’altro. Di conseguenza, parlare di come le cose iniziano e finiscono è un modo per parlare di come tutto cambi e si trasformi continuamente, di come noi cambiamo e ci trasformiamo nel corso della nostra vita.

Cos’è il percorso terapeutico stesso altro se non un viaggio di cambiamento, caratterizzato da un inizio e una fine, un viaggio dal quale sia il terapeuta che il paziente vengono trasformati? Solo che cambiare può fare molta paura, perché significa accettare la perdita di qualcosa, di una parte di noi, della nostra “vecchia” vita, per far sì che qualcosa di nuovo cominci.

Scrive il poeta portoghese Fernando Pessoa: “C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se poi non osiamo farlo, resteremo sempre lontano da noi stessi”. Pessoa esprime il paradosso del cambiamento: se ci rifiutiamo di cambiare, nella pretesa di rimanere fedeli al “vecchio sé”, resteremo sempre lontani dal “vero sé”, perché la vita, nel suo continuo divenire, ci porta sempre un passo più in là rispetto a dove eravamo.

Non cambiare significa ostacolare il flusso vitale, condannarsi alla stagnazione, alla ripetizione di abitudini che non ci rappresentano più, come un bambino che, per paura di nascere, vuole rimanere per sempre nel grembo materno, anche quando ormai  esso non è più adatto a contenerlo.

E proprio partendo con l’esperienza della nascita l’autrice passa in rassegna, facendo riferimento alle proprie personali esperienze e a numerose storie di vita incontrate nel corso della pratica professionale, le caratteristiche dei momenti di transizione che le persone possono trovarsi ad attraversare; vengono presi in esame i mesi successivi alla nascita, la fase di svezzamento, i primi compleanni, l’ingresso all’asilo, le esperienze di inizio e fine e scuola nell’arco dell’infanzia e l’adolescenza, l’inizio degli studi universitari, l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, la nascita dei figli, l’invecchiamento, il confrontarsi con i lutti, il pensionamento, il prepararsi alla morte.

Le varie storie sono accomunate dalla necessità di affrontare un cambiamento, di andare incontro all’ignoto, terminare un qualcosa per iniziare qualcos’altro, cosa che comporta l’elaborazione di emozioni forti, complesse e contrastanti. La gioia per qualcosa di nuovo che sta iniziando si associa al dispiacere per qualcosa che si conclude. Poco importa se stiamo parlando del neonato che lascia la sicurezza del grembo materno, del bambino che inizia l’asilo, uscendo per la prima volta dai confini del nucleo familiare per incontrare il mondo “fuori di casa”, del primo giorno di scuola elementare, di scuola superiore, di università o del primo giorno di lavoro, dello sposarsi, del mettere al mondo un figlio o dell’andare in pensione: la persona si ritrova ogni volta a ricominciare, ridisegnando il confini del proprio sé per dare inizio ad una nuova esperienza del mondo.

La capacità di vivere positivamente il cambiamento si basa sulla fiducia di potercela fare, di essere in grado di affrontare la nuova avventura, vivendo con pienezza l’entusiasmo di un nuovo inizio; non meno importante è il sapere prendere congedo con la realtà precedente, vivendo il dispiacere che nasce dal distacco.

Come scrive l’autrice “Possiamo cercare di sfuggire al dolore della perdita, ma se non riusciamo ad elaborare il lutto per ciò che abbiamo perduto o stiamo per perdere, non saremo in grado di interiorizzare/preservare dentro di noi ciò che ha avuto valore nel passato”. Ciò implica lo svalutare ciò che siamo stati, privando di valore la nostra esperienza precedente.

Se, invece, rimaniamo tenacemente attaccati al passato, rifuggendo dai cambiamenti e dall’incertezza da cui essi sono caratterizzati, rischiamo di rinchiudere noi stessi in una prigione di certezze, che ci mettono al riparo dai rischi a patto di soffocare il nostro naturale percorso di evoluzione personale, bloccando le nostre potenzialità e soffocando la nostra identità in limiti troppo angusti.

 

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Annalisa Bertuzzi
Annalisa Bertuzzi

PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA AD INDIRIZZO UMANISTICO - INTEGRATO

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