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Il bando della ASL di Torino tra corruzione, raccomandazioni e il senso della meritocrazia

La notizia della psicologa assunta all’ASL di Torino dopo aver vinto il bando proposto dal padre direttore del personale è buona occasione per riflettere...

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 11 Feb. 2015

La notizia della psicologa assunta all’ASL di Torino dopo aver vinto il bando proposto da suo padre direttore del personale di quella stessa ASL è una buona occasione per riflettere. C’è spazio per l’indignazione, ma anche per pensieri più cauti e accurati.

L’articolo apparso sulle pagine torinesi di Repubblica (LEGGI L’ARTICOLO) riporta due dati che alludono a possibili scorrettezze: la parentela tra vincitrice e proponente del bando e il periodo di esposizione del bando, dal 31 dicembre al 10 gennaio, periodo di vacanza e –presumibilmente- di scarsa attenzione alla pubblicazione di bandi. Da qui la nostra mente è invitata inevitabilmente a indignarsi ricordando altre notizie simili a questa, notizie apparentate con le possibili scorrettezze dell’ASL di Torino.

Sappiamo che il sistema sanitario italiano, come altri servizi pubblici, è probabilmente esposto a fenomeni di corruzione. Un altro articolo di giornale, questa volta del Corriere della Sera, riporta che –secondo il “Global Corruption Barometer” – il sistema sanitario italiano mostra eccessivi livelli di corruzione (LEGGI L’ARTICOLO). Sembrerebbe quindi giusto sospettare del caso di Torino, se non altro come stima probabilistica.

Siamo messi così male?

Attenzione. Avrete notato che quello stesso articolo del Corriere che riporta il dato sulla corruzione ci porge anche una notizia più incoraggiante: la sanità italiana offre un ottimo prodotto, migliore di quello della maggior parte degli altri paesi. Nel 2014, secondo il rapporto della Bloomberg, multinazionale dell’informazione, la nostra sanità sarebbe la terza migliore del mondo, dopo Singapore e Hong Kong e prima del Giappone, quarto. Seguono Corea del Sud, Australia e Israele.

Notiamo: abbiamo elencato sette paesi e non è ancora apparso un paese europeo oltre l’Italia. Dove sono finiti? Li incontriamo dopo Israele. Ottava la Francia, decimo il Regno Unito, addirittura ventitreesima la Germania, per citare i tre paesi con i quali nervosamente ci paragoniamo da un paio di secoli a questa parte nel timore di non essere alla loro altezza. Dietro di noi c’è anche un’altra pietra di paragone: la Svizzera è quindicesima. Dietro perfino gli impeccabili paesi scandinavi: undicesima la Norvegia, diciannovesime a pari punteggio Svezia e Finlandia, addirittura trentaquattresima la Danimarca. Chi manca all’appello dei paesi verso i quali nutriamo un eterno automatismo di inferiorità? Ah si, l’Olanda. Dove diamine è, che non la vedo? Addirittura quarantesima. Controllo distrattamente il Belgio, di cui non si sa mai bene cosa pensare: sono dei Francesi falliti o degli Olandesi annacquati? Boh; comunque è nordico e civile anche il Belgio eppure è dietro, quarantunesimo. Altro caso speciale gli Stati Uniti, di cui si sa solo che ha una sanità strana tutta sua, tutta privata, non si sa bene cosa pensarne, sono barbarissimi o civilissimi? Nemmeno Montanelli aveva direttive chiare sugli USA. In ogni caso gli americani sono lontanissimi in classifica: quarantaquattresimi, peggio dei Belgi (tiè!) Insomma, fanno bene le mamme italiane a raccomandarci di indossare il golfino quando andiamo in vacanza su, a nord delle Alpi. Il golfino anche se è estate.  In realtà non sono preoccupate per noi, sono realistiche: giustamente diffidano degli ospedali dei paesi nordeuropei.

La sanità italiana è buona. È questo non è nemmeno un dato nuovo. Eravamo già messi bene quindici anni fa, quando fu pubblicato il World Health Report del 2000 (DOWNLOAD). Lì eravamo addirittura secondi nel mondo dietro la Francia. Nel frattempo la Francia è rimasta indietro e ora davanti a noi ci sono altri paesi. Insomma, da quindici anni a questa parte restiamo saldamente sul podio e siamo gli unici a esserci rimasti. Non possiamo proprio lamentarci, che forse per noi italiani è la vera tragedia.

Scherzi a parte, com’è possibile? Terzi al mondo e primi tra i paesi “occidentali”? Però corrotti? Non saprei, questi parametri non sono facili da interpretare. Quando non scrivo articoli per State of Mind mi occupo di ricerca scientifica, e vi assicuro che i numeri non sono sempre dati incontrovertibili. Possono essere a loro volta oracoli ambigui da interpretare. 

Per esempio, torniamo al “Global Corruption Barometer” che, secondo il giornalista del Corriere, ci condanna. Il dato negativo, a ben vedere, riguarda la corruzione percepita e non propriamente quella attuale. Il dato in cui l’Italia ha alcuni valori elevati, vicini all’80%, è la percentuale d’intervistati che pensano che certe istituzioni siano corrotte. D’accordo, non è un bel dato, ma cosa sappiamo su quanto siano effettivamente corrotte? Se andiamo più in basso nella stessa pagina web, troviamo un dato più concreto: la percentuale di persone che effettivamente hanno pagato un “bribe” (bustarella) o ne possono dare testimonianza certa e circostanziata. Qui le cose cambiano. La percentuale di persone che si sono sentite chiedere bustarelle dai vari tipi di pubblici ufficiali italiani varia dal 2% (esattori delle tasse) al 6% (impiegati generici nei servizi pubblici) con un picco del 12% per quanto riguarda gli ufficiali giudiziari di vario tipo.

Sono dati alti o bassi? Facciamo il solito paragone con l’Inghilterra, che nell’immaginario comune rimane il paese modello della modernità calvinista, efficiente e incorruttibile. I dati però parlano di fenomeni di corruzione più elevati dell’Italia: 8% di persone che si sono sentite chiedere una bustarella dalla polizia inglese (4% da quella italiana), 11% da impiegati nei servizi anagrafe e cittadinanza (3% in Italia), per concludere con un 21% di bustarelle chieste da ufficiali giudiziari corrotti, che –come in Italia- si confermano la classe più propensa a chiedere bustarelle (ricordate? In Italia era il 12%). Se desideriamo cercare paesi meno corrotti di noi, dobbiamo andare in Spagna (toh, un paese mediterraneo, un PIG) o in Finlandia. I dati di Francia e Germania non sono disponibili.

Che dire? Sono confuso. A leggere questi dati mi viene da pensare che forse la corruzione italiana è fatta di favori e non soldi, il papà che (forse) crea le condizioni per facilitare l’assunzione della figlia. Se andiamo sulla corruzione pesante, le bustarelle vere, i soldi veramente chiesti e ottenuti in cambio di servizi dovuti, pare che in Inghilterra siano messi peggio di noi. Oppure no. I dati sono sempre difficili da interpretare. Ognuno ha le sue distorsioni. Quali sono l’autorevolezza e l’affidabilità di questo “Global Corruption Barometer”? Negli articoli scientifici so muovermi. In questo terreno no. Chi lo sa.

Lasciamo da parte i numeri. Torniamo al caso della collega di Torino. Vi dirò la mia idea.

Credo che, nel reclutamento delle persone più adatte ai posti di lavoro, dobbiamo abbandonare l’idea di un’astratta “meritocrazia”, che spesso concepiamo come una qualità assoluta e apriori, appunto un “merito” che precederebbe l’assunzione e che andrebbe valutata in un ambiente asettico e purificato attraverso esami, concorsi e colloqui impersonali e correttissimi in grado di individuare la persona adatta a quella mansione. Non credo che il “merito” sia questo. Il merito non è qualcosa che sta prima della prestazione, una qualità che ci portiamo dietro e che ci distingue in partenza dagli immeritevoli, potenzialmente corrotti.

Il merito è qualcosa che accade dopo. E non si tratta solo di prestazione quantitativa. Il merito è anche una valutazione della capacità di qualcuno d’integrarsi in un gruppo di lavoro e partecipare a un lavoro di squadra, valutazione che va fatta a valle dopo un congruo periodo di prova e anche ancora dopo il periodo di prova, in un processo di formazione e valutazione continui.

Dove occorrerebbe essere un po’ più spietati non è tanto nella selezione iniziale, in fondo sempre superficiale ed emotiva, ma nei meccanismi di sospensione e riallocazione (attenzione: non sto dicendo di espulsione, ovvero licenziamento; non siamo e non vogliamo essere un paese anglo-sassone, e va bene così) di chi non sa, non riesce, o peggio non vuole integrarsi. Spesso la scelta di elementi integrabili cade non a caso e non scorrettamente su elementi già noti, già segnalati, già raccomandati se vogliamo (diciamolo in inglese: “endorsed”, che suona meglio). Raccomandati nel senso migliore del termine, ovvero già notati per le loro qualità e per il loro potenziale affiatamento.

Insomma, già conosciuti e quindi si, un po’ raccomandati rispetto a qualcuno con un curriculum migliore, ma che conosce meno l’ambiente. È possibile che qualcosa del genere sia accaduta a Torino, sia nel senso migliore (endorsement?) che peggiore (raccomandazione?) del termine. O forse no. Non lo so e in fondo non m’interessa.

Introduciamo sistemi di valutazione del lavoro prodotto sempre più efficienti a valle delle prestazioni (fenomeno peraltro già in corso) e sottoponiamoci a essi. A quel punto l’assunzione della figlia del direttore del personale diventerà un episodio inelegante, ma non di corruzione.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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