– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #17
Come era possibile che una così sofisticata macchina cognitiva proveniente da una famiglia benestante e culturalmente stimolante fosse finita in una tale palude di sofferenza?
Al CIM vanno i poveracci che non hanno mezzi per rivolgersi al privato e soprattutto quelli che non sono consapevoli di stare male e, dunque, sono spesso i più gravi. Talvolta vengono anche i benestanti più probabilmente se colti e di sinistra. La spiegazione è facile. I benestanti sono tali perché attenti a non spendere (tirchi nel linguaggio comune): non è strano che siano tirati nonostante ricchi perché sono ricchi proprio in quanto “avveduti nello spendere”. I colti sanno che nel servizio pubblici ci sono ottimi professionisti competenti e motivati anche se magari le sale d’attesa sono scrostate e le sedie scomode. I sinistri per una questione ideologica anche se poi chiedono un parere di conferma al luminare amico della cognata “perché non si sa mai quando c’è di mezzo la salute e soprattutto la propria!”Chi è davvero raro che bussi alla porta del CIM è il ceto medio perché si vergogna di star male e ancor di più di non avere i soldi per andare in privato. In famiglia si fanno sacrifici e prima o poi si riesce ad approdare ad uno studio privato magari razionando le visite.
La gravità manifesta, quella che spaventa i familiari è invece come la livella di Totò. Così come una pioggerellina autunnale consente ai rivoli sulla terra di farsi ognuno la propria strada tra sassi, fenditure, ciuffi d’erba, discesette mentre il torrenziale temporale estivo non permette personalizzazioni e trascina tutto in un unico rovinoso flusso. Così quando la follia è palpabile e si teme che da un momento all’altro proponga sulle prime pagine dei quotidiani una esistenza finora a detta di tutti misurata, riservata, quasi sotto tono quale che sia la provenienza la stazione di arrivo è il CIM.
La signora Assunta tollerava da sempre le stranezze del figlio giustificandole con la difficile infanzia ed un patrimonio genetico difettoso dove si annoveravano tre suicidi e due morti in manicomio per l’onnicomprensivo “esaurimento nervoso”. Da un mese Tommaso aveva smesso di andare a lavoro. Stava tutto il giorno a letto. La goccia che aveva fatto richiedere l’intervento del CIM era stata la pretesa di tenere sotto il cuscino un punteruolo per spezzare il ghiaccio.
L’idea che si fece Gilda che prese la telefonata fu che si trattasse di un giovane che perduto il lavoro precario fosse precipitato in una crisi depressiva. Nei mesi precedenti la crisi economica era stata più volte additata dai media come causa di numerosi suicidi. Nonostante lei, sempre vissuta in ristrettezze non lo credesse possibile un accertamento era d’obbligo e trascrisse l’indirizzo di Assunta e Tommaso Pedrini. “Polti e Cortesi” scrisse sotto l’appunto Biagioli fermatosi a chiacchierare con Gilda per capire le insofferenze della sua Luisa ( da tempo la loro relazione non veniva più camuffata da intesa professionale tranne quando il cornuto veniva a prendere la moglie).
Via degli archibugi non era nella zona popolare di Monticelli ma nel quartiere residenziale di commercianti e professionisti. La crisi cominciava a mordere chiappe abituate ai cuscini pensarono Luigi e Marco parcheggiando davanti alla villetta della famiglia Pedrini. Le sorprese erano appena cominciate. La sordità rese necessarie numerose scampanellate prima che uno spiraglio della porta trattenuta da una prudenziale catenella mostrasse il volto di una vecchia che li accolse in soggiorno.
Assunta aveva 83 anni, una cataratta le opacizzava l’occhio sinistro ma l’altro di un azzurro chiarissimo guizzava a valutare i due sconosciuti che aveva di fronte e che avrebbero dovuto aiutare il suo Tommasino che stava più male di sempre. Assunta per somiglianza fisica, il fare determinato, deciso e scattante del capitano d’azienda avrebbe potuto essere una Agnelli. Li lasciò subito per accendere il fuoco sotto la moka. Si guardarono intorno.
Nel salotto il tempo sembrava essersi fermato agli anni sessanta del novecento. Due divani e due poltroncine in vera pelle viola facevano trasparire i segni delle molle denunciando una originaria ambizione non sostenuta poi da adeguata manutenzione. Carta da parati con vasi di girasoli arancioni alla Van Gogh. Lampadario a gocce di cristallo la cui ultima pulizia doveva risalire ad oltre un lustro quando chi era riuscito ad arrivare lassù aveva avvitata anche l’ultima delle lampadine a tortiglioni da 40 watt ancora in funzione. Una lama di sole infilatasi in una fenditura delle pesanti tende bordeaux mostrava una danza tranquilla di numerosissime particelle di polvere che forse smosse dall’improvvisa vivacità dovuta alla presenza dei due ospiti tornavano lentamente ad accomodarsi sul tappeto zebrato che riempiva metà stanza lasciando scoperto in periferia un pavimento di graniglia non all’altezza dell’apparenza che voleva darsi l’abitazione. Sul Buffet e il controbuffet con sportelli scorrevoli di vetro satinato un accatastarsi di modellini di navi ed aerei costruiti probabilmente dal piccolo Tommasino predestinato a diventare ingegnere. Un solo grande ritratto in cornice argentata. Un trentacinquenne moro e robusto dallo sguardo severo con una uniforme imprecisata che si scoprirà poi essere il “povero Giulio” padre indimenticato della signora Assunta.
Non ingannare mai i pazienti neanche a fin di bene gli aveva insegnato Biagioli. Sorseggiando il caffè che giurarono essere l’ultimo in quella casa rifiutarono la proposta di Assunta di essere presentati a Tommasino come venditori porta a porta di enciclopedie o, in alternativa, nipoti della Mariuccia amica di banco di chiesa della signora Assunta, passati per caso a fare un salutino. Di contro lei si rifiutava di dire la verità a Tommasino certa che avrebbe immediato usato il punteruolo prima contro di lei e poi contro se stesso per l’umiliazione subita. Decisero di fare da soli. In un attimo sarebbe stato accettazione o rifiuto ma erano o no operatori esperti di un CIM di eccellenza?
Entrarono chiedendo quel permesso che non aspettarono poi per andare a spalancare la finestra e consentire alla luce di rischiarare l’antro e al tanfo di urina stantia e scorreggia rafferma di uscire. Fuori Assunta continuava a cantilenare un “no…no… non ditegli niente”. Marco fu tentato di farsi prestare il punteruolo. Luigi lo calmò sapendo che non ci sono vittime da proteggere e carnefici da punire ma solo un sofferenza lievitata e traboccante che tutti avvolge. Spiegarono a Tommaso che erano lì per le preoccupazioni della madre nei suoi confronti e gli chiesero di aiutarli a rassicurarla. Due cose erano degne di nota rispetto alle aspettative.
Tommasino non era un giovane precario ma un cinquantaduenne ingegnere con contratto a tempo indeterminato. Il letto in cui stava era quello matrimoniale che condivideva regolarmente con la madre dormendo abbracciati quando le paure si facevano più forti. Concordarono che avrebbero inviato un certificato di malattia in azienda in modo da salvaguardare il posto di lavoro e l’assunzione di alcune gocce di ansiolitico per mitigare la tensione terribile che aveva spinto in quei giorni Tommaso a chiudersi nel letto tra le braccia della mamma. Fissarono un appuntamento in ambulatorio con Tommaso. Alla madre che mentre scendevano le scale continuava a lamentarsi dicendo “ non mi lasciate….non mi lasciate” promisero di trovarle una dottoressa bravissima che l’avrebbe aiutata in un momento così difficile. Siccome a Marco stava odiosa la dottoressa Ficca pensò immediatamente a lei. Una punizione per entrambi. In macchina il discorso scivolò subito sul calcio e la fica: era sempre così quando si incontravano situazioni pesanti in assenza di colleghe donne.
All’appuntamento Tommaso si presentò con un completo di tre taglie più grande e testimone del trascorrere inesorabile del tempo che Luigi pensò fosse appartenuto al “povero Giulio”. Tommaso assomigliava ai condor che fanno il coretto nel libro della jungla. Sparuti ciuffetti di capelli bianchi asimmetrici su un cranio devastato da un arcipelago di alopecia che aspirava ad una decorosa calvizie. Naso adunco a tradire una chiara origine semita. Magrezza flaccida e colorito giallognolo. Alto, con le spalle curve e l’andatura stentata e barcollante sembrava un malato terminale allontanatosi per qualche istante dalla morte intenta alle rifiniture del suo antico lavoro. Nonostante ciò era proprio sull’aspetto complessivo che ci si concentrava più volentieri perché lo sguardo era intollerabile. Gli occhi un tempo probabilmente grigio acciaio apparivano slavati, il mondo esterno non vi si rifletteva fissi com’erano a contemplare il dolore interiore. La speranza assente non lasciava spazio alla rassegnazione. Così dovevano essere gli occhi dei condannati a morte con il cappio già al collo sulla forca a guardare senza vedere il pubblico vivace accorso allo spettacolo. Il suo era uno sguardo che paralizzava convincendo l’interlocutore della sua assoluta impotenza.
Dicevano che tutto si era già compiuto, che si era arrivati troppo tardi, che altro non restava che le condoglianze ai superstiti. Non accusavano colpevolizzanti e rabbiosi. Dicevano che non poteva che andare come era andata e anzi rassicuravano che persino il dolore era lontano perduto come tutto il resto. Occhi che avevano smesso di cercare e di chiedere. Per aiutare qualcuno deve offrire un appiglio, perlomeno lamentare una sofferenza se non anche la voglia e la speranza di uscirne.
Tommaso disse che non aveva più spazio per mettere i libri. Certo temeva anche il licenziamento ma il problema era lo spazio dei libri. Con il suo accordo decisero di vedersi sempre in tre. Nè Luigi nè Marco sopportavano infatti l’angoscia di rimanere un tempo prolungato da soli a chiacchierare con un trapassato. La vita presente di Tommaso era un sobbalzare tra i flutti di angosce d’ogni tipo che lo privavano del sonno nonostante dosaggi anestetici di farmaci. Tutta la quotidianeità gli appariva come un compito faticosissimo e destinato al fallimento. Sul futuro incombeva la minaccia della inevitabile morte della madre che rappresentava il punto in cui le onde dell’attuale fiume di angoscia si precipitavano nel salto della cascata di cui oggi intravedeva il bordo ingorgato di correnti con l’acqua nebulizzata sopra ad opacizzare l’orizzonte. Talvolta chi sta male nel presente ed è angosciato per il futuro vive rivolto all’indietro conservando il ricordo, magari fallace, di un passato punteggiato di gioie. Momenti di serenità familiare nell’infanzia. Illusioni, ideali, passioni dell’adolescenza.
Tommaso non ricordava o ricordava solo sofferenza. Eppure per 52 anni era stato al mondo. L’unica consolazione presente era l’acquisto dei libri. Ogni giorno uscito dal lavoro passava in libreria e acquistava due o tre libri che poi si obbligava a leggere. Il piacere era scomparso da tempo. Ormai sia l’acquisto che la lettura erano un rituale ossessivo di cui non poteva fare a meno. Gli argomenti dei libri erano mutati nel tempo. Otto anni prima aveva iniziato con le epigrafi latine delle tombe di cui era diventato un vero esperto impegnandosi anche come guida volontaria del FAI. Coltivava così la passione per le lettere e le arti che aveva dovuto abbandonare per fare sulle tracce del padre l’ingegnere senza alcun interesse. Poi si era occupato di storia dell’arte funeraria e di filosofia. Attualmente la storia delle guerre del primo novecento erano l’argomento che cercava in libreria e su internet.
La compulsione verso i libri era diventato un problema quando le spese avevano superato il suo pur buono stipendio spingendolo a chiedere piccoli prestiti a delle finanziare e alla madre di ascoltarlo e correggerlo mentre gli ripeteva il contenuto dei libri. I libri erano il suo scudo verso il mondo. Al mattino per timore di arrivare tardi al lavoro che iniziava alle 8,30 si era imposto di prendere il trenino delle 6. Per sicurezza si svegliava alle 4 e facendo in modo di scivolare fuori dal letto senza svegliare la madre raggiungeva a piedi la stazione a due chilometri da casa. Nella mezz’ora di tragitto leggeva stando in piedi per non rischiare di addormentarsi ed arrivare tardi. Nel bar davanti all’azienda trascorreva al tavolino e leggendo ininterrottamente l’ora e mezza che lo separava dall’ingresso. Dalle otto e mezza in poi si dedicava esclusivamente al lavoro con scrupolosità e abnegazione.
Marco e Luigi si convinsero che fosse davvero molto bravo come progettista di sistemi d’arma automatizzati. Non c’era infatti alcun altro plausibile motivo per cui un azienda importante ed efficiente tenesse tra i suoi quadri un personaggio così evidentemente disturbato. Durante i 45′ dell’intervallo per il pranzo non scendeva a mensa e riapriva i suoi libri. In azienda L’ing. Pedrini era considerato da un quarto dei dipendenti un pazzo cui tenersi alla larga. Un altro quarto, soprattutto i colleghi, un genio cui l’azienda doveva molto per l’invenzione delle mine touch che ne avevano fatto la fortuna durante le guerre regionali africane .Il successo era stato tale che l’azienda aveva acquistato una cospicua partecipazione nella “new body” una ortopedica specializzata in protesi che grazie alle mine touch aveva quadruplicato il fatturato e delocalizzato da Sassuolo a Kinshasa per fornire gambe a chilometri zero. Per un altro quarto Pedrini era un intoccabile raccomandato dai vertici della massoneria. I restanti pensavano fosse a conoscenza di segreti sull’Amministratore delegato(intrighi con la destra fascista o più semplicemente corna omosessuali) e lo ricattasse. Tutti dunque si ponevano lo stesso problema di Luigi e Marco “perchè nonostante i licenziamenti dovuti alla crisi Pedrini restava saldo al suo posto?”.
Alle 16 in punto timbrava il cartellino e si precipitava alla stazione per scendere però alla fermata della libreria del corso suo preferito terreno di caccia. A casa verso le 18 cenavano frugalmente con la madre e poi correvano a letto per potersi svegliare per tempo e ricominciare. Quando soprattutto Luigi riusciva a distrarlo dalla continua preoccupazione per le sue preoccupazioni che generavano una monotona sequela di lamentazioni e lagne con un tono rapidamente insopportabile, si intravedeva un altro Tommaso.
Le sue riflessioni sulla storia e la politica non solo mostravano una cultura enciclopedica ma inaspettatamente un pensiero originale e divergente. Si aveva netta l’impressione che fosse una Ferrari uscita solo poche volte dal garage per fare il giro dell’isolato. Meglio non pensarci. Il carico delle opportunità sprecate e dei rimpianti poteva schiacciare definitivamente Tommaso, meglio per lui pensarsi come un mediocre incapace di apprendere persino ciò che legge.
In verità il dottor Luigi Cortesi e l’esperto infermiere Marco Polti, a dispetto dell’iniziale precettazione e dello scoraggiamento dei primi tempi, ci stavano prendendo gusto. Come era possibile che una così sofisticata macchina cognitiva proveniente peraltro da una famiglia benestante e culturalmente stimolante fosse finita in tale palude di sofferenza. La ricostruzione della sua storia di vita procedeva lenta e faticosa. La memoria era ricca di episodi dai particolari vividi ma la narrazione ostacolata dal crescente tremolio delle labbra da una sudorazione grondante, dallo spezzarsi in gola della voce.
Talvolta giungeva un pianto composto che si sarebbe detto un semplice lacrimare che innescava una vergogna a interrompere il racconto. I brani di memoria erano però strappati come in un film prima del montaggio. Sconnessi, senza la congruenza di una storia. Immagini e impressioni. Il vero Ingegner Pedrini era stato Italo, suo padre. Figlio di Genesio un generale degli alpini che aveva fondato l’azienda costruttrice delle prime funivie e seggiovie dove i ricchi andavano a sciare. Il Duce stesso ne aveva inaugurate due sfoggiando la sua tuta da sci completamente nera. Sui girasoli della carta da parati ancora c’era dal 1968 l’impronta della foto di Genesio e Benito che si stringevano la mano con il profilo inconfondibile del Cervino alle spalle. Alle caduta del regime Genesio tolse il disturbo con un ultimo colpo della sua pistola da guerra. Italo alla guida della “Pedrini infrastrutture” era diventato commendatore, medaglia d’oro per meriti civili e soprattutto ricchissimo.
Tommaso era cresciuto in una villa sul lago di Como con dodici persone di servizio, due precettori privati (un prete bergamasco per le lettere e un ingegnere di Torino per le scienze) ed un fattore per gestire i sessanta ettari della tenuta affidati a 9 mezzadri con altrettanti poderi. Lui era il signorino e,vietato qualsiasi rapporto con i numerosi figli dei dipendenti, stava sempre solo.
Ricordava solo vagamente i primi tre anni di vita e la figura magrissima e sempre in movimento per fargli qualche dispetto di Mariella, la sorellina di tre anni più grande. Mancavano venti giorni d’avvento a Natale e sotto una incessante pioggerellina tutto il mondo Pedrini era alla ricerca della piccola Mariella che aveva da pochi mesi iniziato le lezioni domiciliari. Anch’ella per prudenza non usciva mai dalla tenuta. Tommaso ricordava solo sprazzi della vicenda. Le macchine della polizia coi lampeggianti nel piazzale antistante la scalinata della villa, il borbottio dei genitori chiusi con il telefono nello studio del padre, la fila dei dipendenti e dei pochi amici che venivano a chiedere notizie, offrire la loro disponibilità, mettersi a disposizione. Ricordava persino l’odore forte di incenso di una messa di preghiera fatta nella cappella della villa cui partecipò tutto il paese. Ricordava soprattutto la vigilia di natale ed una barchetta a remi che trascinava fino all’imbarcadero della villa legato con una corda il corpo gonfio e violaceo di Mariella. Lui che assisteva da dietro l’ampia gonna viola della madre pensò che nulla sarebbe più stato come prima ed altre cose indicibili di cui ancora si sente in colpa. Aveva consapevolezza di star vivendo uno di quei momenti di snodo dell’esistenza che cambiano definitivamente la direzione. Il prossimo che lo attendeva all’inizio dell’ultima cascata sarebbe stato la morte della madre. Italo iniziò a bere e dovette far entrare nella gestione dell’azienda l’ingegner Montasio un vecchio compagno di università.
La violenza dentro casa divenne il linguaggio degli scambi quotidiani. Assunta, considerata responsabile, era il bersaglio preferito del padre ma Italo non sopportava più qualsiasi espressione vitale. Un giorno che trovò il dodicenne Tommaso nella vigna a giocare a nascondino con Carla la figlia coetanea del fattore lo picchiò con tale ceca furia da dover ricorrere alle cure ospedaliere per frattura dell’omero sinistro e trauma cranico.
In paese si diceva che Italo fosse impazzito e fosse meglio evitarlo. Le frequentazioni esterne finirono con l’azzerarsi. L’ingegner Montasio complice il notaio Pistilli divise l’azienda in due mettendo a suo nome la parte produttiva con gli utili e le attrezzature e lasciando a Italo la parte indebitata che fallì il giorno in cui Tommaso compiva quattordici anni. Aveva due certezze che ogni giorno sarebbe stato peggiore del precedente e che fosse tutta colpa sua. Se non fosse nato Mariella non se ne sarebbe dovuta andare per fargli posto. Non si sarebbe allontanata da casa e non avrebbe incontrato Bonci, il diciottenne scemotto che l’aveva violentata e uccisa. Non si poteva più tornare indietro. Non poteva scambiarsi con Mariella ma a vivere gli sembrava di offenderla.
Sequestrati tutti i possedimenti Tommaso conobbe l’ospitalità svogliata della zia Mafalda sorella del padre e di suo marito il vecchio latinista il prof Marucci che parlando a Tommaso delle consuetudine romane e greche prese ad abusare ripetutamente del ragazzino. Quando Italo costretto a vivere con Assunta in un monolocale del parroco decise di seguire le orme del padre Genesio e con la stessa pistola si sparò in bocca, Tommaso venne sottratto alla libidine del professor Marucci e affidato al collegio delle clarisse di Milano. Fu il periodo di maggior sofferenza.
Lui signorino aristocratico era oggetto di bullismo da parte degli altri ospiti. La madre andava a trovarlo non più di una volta al mese impegnata ad assistere il vecchio Italo ormai non più violento ma costretto su una sedia a rotelle e completamente non autosufficiente. Giunto a sedici anni le suore avvalendosi del prestigioso cognome che portava (il nonno Genesio era un indimenticato imprenditore e generale degli alpini) e delle conoscenze altolocate che vantavano lo fecero entrare all’accademia militare di Modena dove fu avviato agli studi di ingegneria che avrebbero garantito un lavoro sicuro.
Il dubbio che si trattasse di un disturbo bipolare dell’umore lo sollevo il dr. Irati, peraltro fissato con questa diagnosi tanto da essere soprannominato a sua insaputa Dr. Litio. Questa vota però ottenne l’inaspettato sostegno della dottoressa Filata di solito ideologicamente contraria a qualsiasi riduzionismo biologico della sofferenza mentale.
Dopo la riunione furono persino visti al bar insieme per la prima volta, ma questa è un’altra storia. Il giovane Tommaso per la prima volta a vent’anni si trovava a vivere libero dalla famiglia nella foresteria dell’accademia. Aveva una notevole disponibilità economica, il fisico alto e sottile gli conferiva un aspetto da baronetto inglese che l’eleganza nel comportamento e nel vestire confermava. I ricci biondi incorniciavano un viso maschio ma dolcemente infantile. Molte ragazze cercavano inutilmente di cacciare dalle loro notti insonni quegli occhi azzurri con sfumature grigio acciaio del giovane allievo ufficiale del genio. La divisa azzurra al vento sulla fiat 850 spider rossa segnalava l’arrivo in tutti i posti più “in” e ben frequentati” del giovane ricco e scapestrato rubacuori. Aveva preso a bere anche in eccesso, sperperava ai tavoli da gioco gran parte del contributo mensile che Assunta gli inviava. L’intimità per Tommaso era minacciosa e foriera di dolore. Rifuggiva da legami stabili e quando, sparsasi la voce della sua inaffidabilità, le signorine della Modena bene iniziarono a rifiutargli le loro attenzioni, si rivolse con accresciuta soddisfazione a ragazze più o meno esplicitamente, interessate ai suoi soldi sostenendo provocatoriamente che alla fine il costo era minore e la soddisfazione maggiore.
Tanto temeva i legami che durante questo periodo eroico che gli avrebbe meritato la diagnosi di bipolarità del dottor Irati fece una cosa inconsueta per un giovane di 22 anni. Si fece resecare i tubuli seminiferi votandosi alla sterilità irreversibile. Il Prof Pignadoro direttore della cattedra di urologia fece di tutto per dissuaderlo da una decisione così radicale ma dovette piegarsi alla volontà ferrea di Tommaso.
La sua intelligenza brillante superava agilmente gli esami di ingegneria senza che lui vi ponesse il minimo interesse. Quello studio era l’inutile tributo alla fallita azienda di famiglia. La sua curiosità era tutta rivolta al funzionamento che gli appariva così bizzarro degli esseri umani e all’inesplicabile senso della vita. Aveva avvicinato gruppi religiosi settari e integralisti sperando nell’accendersi della fede, la grande consolatrice. Tutt’oggi aspettava invano. Allora si era rivolto alla psicologia, le prime facoltà aprivano proprio in quegli anni. Non aveva trovato le risposte sull’uomo e sulla vita ma un femminaio disinibito dalla rivoluzione sessuale dove il suo pisello asciutto, per questo molto apprezzato dalle utenti, accumulo onori e soddisfazioni.
Attraversò tutto il periodo indenne da innamoramenti e amori. Negli anni del miracolo economico un ingegnere laureato a pieni voti all’accademia militare era corteggiatissimo dalle numerose e prestigiose fabbriche d’armi italiane. Lo stabilimento principale era in provincia di Vontano e Tommaso decise di trasferirsi con la madre rimasta vedova in circostanze misteriose a Monticelli. Il vecchio ingegner Italo nonostante la tetraplegia che lo costringeva immobile a letto era riuscito a portare a termine quello che aveva iniziato dieci anni prima dopo il fallimento della sua azienda e si era sparato questa volta alla tempia. Irati era sempre più iroso (si perdoni il gioco di parole) alle riunioni di equipe.
Un soggetto con una così forte familiarità suicidiaria, una forte impulsività (vasectomia) e una storia di bipolarità doveva essere trattato, volente o nolente ( a costo di fargli un TSO) con stabilizzatori dell’umore che, era certo, gli avrebbero anche tolto questa sua appetizione ossessiva verso i libri. Invece sfruttandola il dottor Cortesi aveva chiesto all’assistente sociale Brugnoli di trovare un’ impegno per Tommaso nella biblioteca comunale da retribuire con un sussidio terapeutico di 150€ al mese. Marco Politi era solo un infermiere ma per gli anni passati in psichiatria aveva sviluppato una grande capacità terapeutica ed ebbe un’idea geniale. Per modestia e non voler atteggiarsi a psicologo la attibuì alla moglie attivista della LIPU. Se con i libri stava bene mentre gli esseri umani lo mettevano a disagio, la soluzione intermedia era un cane. Un legame affettivo probabilmente tollerabile e protettivo rispetto alla sempre più probabile perdita della madre ottantatreenne, unico affetto rimastogli.
Non immaginava di certo Polti che Arturo il cocker beige che avevano recuperato al canile sarebbe stato causa di ciò di cui doveva essere cura. Non era neppure un mese che gironzolava per casa Pedrini che la cataratta di Assunta impedì la visione della bestiola impegnandola in un mezzo carpiato in avanti. La testa durissima resistette allo spigolo della scrivania ma il femore osteoporotico implose.
Un assistente sociale bravo sa trasformare una debolezza in una risorsa e far incontrare i bisogni diversi creando sinergie virtuose, si direbbe oggi. Brugnoli era un bravissimo assistente sociale. Si occupava da sette mesi di Killa e per farlo aveva dovuto etichettarla con la diagnosi di disturbo borderline di personalità sebbene sia lui che Biagioli che aveva aperto la cartella sapessero benissimo che l’unica diagnosi era sfortuna, povertà, sfruttamento. Killa aveva ventitre anni ed era fuggita dall’ucraina lasciando un marito alcolista che l’aveva messa incinta a 16 anni e poi picchiata fino a farla abortire.
Cosciente della sua straordinaria bellezza era arrivata con il pulman alla stazione tiburtina di Roma certa che avrebbe fatto la puttana. Era comunque una vita migliore. Non fece in tempo a realizzare il suo progetto. Scendendo scivolò sull’ultimo gradino e si ruppe la tibia destra. Al policlinico un operatore della comunità di Sant’Egidio notando l’interesse e le cure che attirava da parte degli infermieri la ritenne in pericolo.
Per strapparla al rischio della prostituzione contattò il convento delle Clarisse di Monticelli dove aveva agganci. La ospitarono e mandano all’aria il suo progetto di impresa commerciale la segnalarono all’assistente sociale Brugnoli. Troppa gente la voleva salvare dalla strada e alla fine si arrese. Avrebbe fatto la badante come tutti tranne lei, si aspettavano. Un sussidio fu assegnato direttamente a lei e altri 150 € arrivavano dal sussidio bibliotecario di Tommaso. I capelli biondi lunghi li portava raccolti in uno chignon o, se aveva premura, in una frettolosa coda di cavallo che lasciavano scoperto un collo lungo e sinuoso creato evidentemente per essere baciato. Una malinconia che suscitava tenerezza velava gli occhi naturalmente azzurri. Il seno prosperoso era normalmente celato dentro maglioni enormi e sformati per non rubare il campo a quella che era la sua autentica meraviglia. Le gambe lunghissime, sode e affusolate terminavano da un lato in caviglie sottili da bambina e dall’altro si ricongiungevano in un bacino morbidamente ondulante davanti e sfacciatamente prominente dietro.
Era, senza alcun dubbio la donna più bella che Tommaso avesse mai visto. Se avesse saputo delle intenzioni originarie di Killa non sarebbero stati certo i trent’anni di differenza ad impedirgli di farle una proposta economica convincente. Con Brugnoli scherzava dicendo che sarebbe finito come tutti i vecchietti rincoglioniti che fanno testamento a vantaggio della giovane e disponibile badante. Tanto, pensava, lui non aveva, per fortuna, eredi che potessero interdirlo. I problemi erano altri. Da un lato la vigilanza di Brugnoli che non aveva certo salvato la ragazza dalla strada per servirla direttamente al lupo solitario. Dall’altro che Killa tanto si dedicava con amorevolezza alle cure di Assunta, tanto trascurava le discrete ma evidenti attenzioni di Tommaso. In ultimo poiché l’aveva spuntata il dottor Irati assumeva ogni giorno 600 mg di depakin chrono ed il suo pisello, ancorchè asciutto, si presentava piuttosto abbacchiato.
Non se la sentiva di rischiare. La spiava ed aveva rinverdito le pratiche masturbatorie adolescenziali. Tommaso stava decisamente meglio ed al CIM ognuno se ne attribuiva il merito. Marco e Luigi per la psicoterapia, Irati per il Depakin, Brugnoli per la badante. Era così preso oltre che dal lavoro, dall’impegno in biblioteca e dalle passeggiate con Arturo che iniziò a saltare gli appuntamenti al CIM che mai aveva mancato.
Fu proprio durante la funzione religiosa per il trigesimo della scomparsa della signora Assunta che Killa chiese a Brugnoli di parlagli in privato. Fuori dalla cappella del cimitero entrambi resi irriconoscibili dagli abiti da cerimonia che rendevano Giovanni un pecoraro nel giorno di festa e Killa col suo tayer nero una diva da red carpet si parlarono. Ora che non c’era più la signora Assunta e che aveva scoperto da una settimana di essere incinta al terzo mese non se la sentiva più di rimanere in casa Pedrini, sarebbe tornata dalle clarisse. Sia per la descrizione di Brugnoli, sia perchè non inerisce direttamente la nostra vicenda, non sarà dato conoscere altro. Quando Brugnoli riferì l’accaduto a Tommaso alla presenza di Luigi e Marco non riuscì a celare un’aria di velata riprovazione quasi avesse tradito la loro fiducia approfittandosi della ragazza. Tommaso si guardò bene dallo svelare il segreto che era a conoscenza però dei due terapeuti che rimasero basiti quando affermò che era pronto a prendersi le sue responsabilità perché era stata una ponderata scelta d’amore. Gli operatori del CIM ed in particolare Gilda che aveva preso la prima telefonata tornavano a ripensare alla bizzarra storia dell’ing Pedrini solo quando fuori servizio lo incontravano al parco con il piccolo biondissimo Thomas e lo scodinzolante Arturo.