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Preferisci star solo? Corri maggiori rischi per la salute! – Psicologia

La solitudine comporta diversi rischi per la salute: insonnia, pressione alta, declino cognitivo e fisiologico precoce e più probabilità di morte prematura.

Di Laura Pancrazi

Pubblicato il 21 Nov. 2014

Aggiornato il 03 Giu. 2015 14:37

FLASH NEWS

Secondo studi scientifici, la solitudine comporta una serie di rischi per la salute delle persone: insonnia, pressione alta, declino cognitivo e fisiologico precoce e, infine, maggiori probabilità di morte prematura.

Ma perché avviene ciò? La spiegazione più diffusa è quella per cui persone che vivono socialmente isolate non hanno nessuno che suggerisca loro uno stile di vita sano e le tenga lontane da comportamenti a rischio.

Se fosse così, probabilmente sarebbe sufficiente una cura a base di prediche e buoni consigli per migliorare la vita di molti individui. Troppo facile e, in effetti, questa non può essere tutta la storia ma, al limite, la punta di un iceberg. E’ stato d’altra parte dimostrato che non è a rischio la salute di soggetti con carattere introverso e una rete sociale non troppo ampia; allo stesso modo, soggetti con una vita sociale oggettivamente piena soffrono frequentemente di solitudine e del malessere ad essa associato.

Un recente articolo suggerisce che per gli 800.000 cittadini inglesi che sperimentano sentimenti di solitudine, sarebbe essa stessa il problema e non qualche variabile o conseguenza ad essa associata. In pratica, la solitudine stessa sarebbe da definirsi come un disturbo: altera la nostra percezione, i nostri pensieri e, in senso stretto, la struttura e il funzionamento del nostro cervello. Gli autori, John Cacioppo, sua moglie Stephanie e il loro collega John Capitanio, avanzano tale ipotesi a partire dalla ricerca psicologica e neuroscientifica, nonché da studi condotti su animali, andando in questo modo a dimostrare che la solitudine è davvero la causa, e non solo la conseguenza, di determinate malattie.

L’articolo avanza l’idea secondo cui le persone che soffrono di solitudine sarebbero iper-sensibili alle esperienze sociali negative, mentre le loro risposte al coinvolgimento sociale sarebbero particolarmente deboli. Indagini svolte tramite neuroimmagine funzionale, mettono in luce come tali soggetti rispondano più velocemente a parole-stimolo che si riferiscono a degli outcome sociali di tipo negativo; allo stesso modo, essi reagiscono più velocemente a volti che presentano espressioni spiacevoli. Inoltre, tale studio di neuroimmagine funzionale evidenzia che le persone che soffrono di solitudine hanno una risposta neurale debole a stimoli di tipo sociale, la quale riduce l’eccitazione di tali soggetti di fronte alla possibilità di contatto con un’altra persona. Essi hanno, inoltre, un’attività cerebrale scarsa nelle aree dedicate a comprendere cosa gli altri pensano: potrebbe trattarsi di un meccanismo di difesa basato sull’idea che è meglio non saperlo. Tutto ciò rientra in ciò che gli autori definiscono un “istinto di conservazione sociale”.

A ciò si aggiungono gli studi effettuati sugli animali, che aiutano a comprendere le basi biologiche e neurali associate alla solitudine. Animali mantenuti in condizioni di isolamento mostrano una diminuzione della crescita di nuovi neuroni nelle aree del cervello imputate alla comunicazione e alla memoria, mentre periodi ad alto impatto sociale come la primavera presentano un pronunciato aumento di tali neuroni. Altri studi mostrano che topi in isolamento hanno una riduzione dell’attività elettrica nel cervello, soprattutto delle Onde Delta prodotte in fase di sonno profondo. Cambiano inoltre le loro reazioni di tipo infiammatorio: in una ricerca, tre su cinque topi mantenuti in condizioni di isolamento sono morti in seguito all’induzione artificiale di un ictus, mentre tutti gli altri topi testati sono sopravvissuti allo stesso trattamento. Ancora, l’isolamento riduce la mielinizzazione, processo vitale per il mantenimento della plasticità cerebrale. Questo potrebbe spiegare il ritiro sociale e la rigidità mentale osservata in tali animali e probabilmente influenza anche l’espressione genetica correlata ai comportamenti ansiosi.

Insomma, la ricerca è chiara nell’ evidenziare che la solitudine ha conseguenze dirette sulla salute. E’ necessario, pertanto, fare tutto il possibile per aiutare le persone ad uscire dalla loro condizione di emarginazione sociale. In questa direzione, Cacioppo e colleghi suggeriscono alcuni approcci che potrebbero rivelarsi utili e interessanti: esiste per esempio l’Associazione Nazionale Banche del Tempo (presente in Inghilterra ma anche in Italia), in cui le persone “danno in prestito” il loro tempo, in cambio di quello di qualcun altro in una situazione differente, un processo che potrebbe essere utile nella costruzione di nuove reti sociali. Gli autori parlano anche della Campaign to End Loneliness e soluzioni tecnologiche quali il RSA’s Social Mirror project, un’applicazione che informa le persone in merito ai gruppi sociali locali e alle attività che questi propongono. Questo può assumere anche la forma di una sorta di “prescrizione medica”: succede spesso che un medico informi i propri pazienti di quali siano i gruppi sociali presenti sul territorio, delle loro attività e di come dovrebbero cogliere queste occasioni di incontro e scambio. Una cosa è certa: al di là di tutte le attività istituzionali a cui è possibile partecipare, non dimentichiamoci che qualche volta la sola cosa di cui abbiamo bisogno è mettere il naso fuori di casa.

 

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Laura Pancrazi
Laura Pancrazi

Psicologa clinica. Specializzanda in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale.

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