L’esperienza del Titanic: quale lezione ci ha lasciato?
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L’esperienza del naufragio del Titanic è paradigmatica per molti versi. La certezza dell’inaffondabilità della nuovissima nave al primo viaggio richiama la sicumera che non è mai una buona consigliera.
Ma qui mi voglio soffermare sulla famosa leggenda dell’orchestrina che continua a suonare anche mentre la nave imbarca acqua vistosamente e si sta inabissando. Non so quanto ciò sia effettivamente accaduto ma, se lo è stato, una possibile motivazione può essere stata quella di far finta di niente per non creare un panico diffuso che avrebbe provocato ulteriori danni.
Chiamo dunque “sindrome del Titanic” la tendenza ad ignorare i segnali più o meno evidenti di difficoltà facendo invece finta che tutto proceda bene. Ignorare i segnali prodromici di fallimento se da un lato preserva uno stato d’animo migliore privo di ansia e angoscia, dall’altro impedisce di mettere in atto le contromisure necessarie a minimizzare i danni.
Questo meccanismo lo possiamo vedere in atto nella gestione di una impresa economica dove il fallimento consiste nel “portare i libri contabili in tribunale” o in una storia d’amore dove continuare a far finta che tutto vada bene conduce ad un altro diverso tribunale e a un infinità battaglie. Come è possibile che un meccanismo apparentemente tanto dannoso abbia superato la selezione naturale?
Il solo vantaggio emotivo (non preoccuparsi) non basta a spiegarlo. Le emozioni servono proprio per segnalare come si sta procedendo nel perseguimento dei propri scopi.
Sono una specie di cruscotto ricco di spie e indicatori che informano il guidatore sulla situazione della vettura, della strada e sulla vicinanza alla meta. Sarebbe dunque ben strano che si fosse sviluppato un meccanismo che spegne automaticamente le spie quando segnalano qualcosa di preoccupante. Perderebbero completamente la loro funzione. Questo non può essere dunque il motivo fondamentale. Talvolta esso può subentrare come concausa ma in un momento decisamente più tardivo a sofferenza già manifesta e quasi con una procedura consapevole. Quando ad esempio si decide di non pensare a qualcosa che si ritiene motivo di sofferenza eccessiva.
In tal caso la sofferenza è stata già percepita e dunque il fallimento possibile già chiaramente avvistato. Per decidere di non pensare a qualcosa bisogna necessariamente averla presente, pensata e valutata prima di escluderla dalla consapevolezza. Dobbiamo ipotizzare spiegazioni più connesse alla struttura e al funzionamento del sistema motivazionale degli scopi piuttosto che invocare un principio diverso come la volontà di non soffrire.
Cosa ci dice l’epistemologia?
Andrò a scopiazzare la soluzione in un territorio limitrofo alla psicologia quello dell’epistemologia. Dall’insegnamento popperiano sappiamo come la falsificabilità sia la caratteristica principale di una ipotesi scientifica e come la crescita della conoscenza avvenga proprio per congetture e confutazioni (Popper 1934, 1963, 1970, 1972; Popper, Lorenz 1985; Pera 1982;), il chè è un modo dotto per dire che “sbagliando si impara” (Lorenzini, Scarinci 2010).
Tuttavia la gioiosa ricerca dei fallimenti per ritoccare la teoria e renderla più verosimile è un ideale normativo più che la realtà di tutti i giorni. La ricerca delle falsificazioni spiega lo sviluppo di teorie già strutturate e consolidate che si arricchiscono ogni volta che debbano modificarsi per rendere ragione di una anomalia altrimenti inspiegabile. Siamo nel periodo definito da Lakatos (Lakatos, Musgrave 1970) della “scienza normale”. Ma cosa succederebbe se fosse applicata immediatamente dopo una rivoluzione di paradigma alle nuove teorie nascenti (Kuhn 1962). E’ probabile che quasi tutte soccomberebbero. C’è una fase iniziale nello sviluppo di una teoria in cui va protetta dall’intransigenza falsificazionista sempre zelante nel buttar via bambini insieme con l’acqua sporca. Poiché le teorie nascono semplici e diventano via via più complesse (Kelly 1955) proprio cercando di spiegare le anomalie che costituirebbero delle loro potenziali falsificazioni, occorre proteggerle per un certo tempo per consentirne il pieno sviluppo. Se tutto ciò che non spiega tutto da subito fosse immediatamente abbandonato avremmo una strage degli innocenti e nessun gigante potrebbe crescere.
La tendenza ad ignorare le invalidazioni
Possiamo dunque affermare che la tendenza ad ignorare le invalidazioni può essere utile soprattutto in fase iniziale. Ma abbandoniamo l’affascinante mondo dell’epistemologia e torniamo alla nostra tribolazione e agli esempi iniziali.
Quale impresa economica e quale storia d’ amore potrebbero crescere e fortificarsi se fin dall’inizio fossimo attenti ai segnali negativi e pronti a rinunciare in previsione di un possibile fallimento.
Ciò non vuole suonare come un elogio all’ardimento o peggio alla confinante irresponsabilità, ma senza dubbio la disponibilità a correre dei rischi deve essere stata evolutivamente premiata. Tutto sta, come sempre, nel non esagerare.
La tendenza dunque a ignorare precoci segnali di difficoltà può essersi selezionata in quanto consente lo sviluppo ed il consolidamento di progetti e di imprese che altrimenti non riuscirebbero a superare lo stato nascente. E’ una sorta di meccanismo a salvaguardia dell’intraprendenza e della tendenza a cimentarsi e rischiare in vista del raggiungimento di obiettivi importanti.
Per alcuni però il meccanismo è ipertrofico e l’orchestrina non smette di suonare anche quando l’acqua sommerge gli strumenti. Ciò impedisce di mettersi in salvo e futuri concerti. Anche morire suonando ha certamente i suoi vantaggi. Non a caso ancora si ricorda l’episodio.
La tendenza all’eroismo
Chi si sacrifica in nome di un progetto e non indietreggia di fronte a nulla, anche quando ci sarebbero dei buoni motivi per farlo, appartiene alla categoria degli eroi e dei martiri. Morire per le proprie idee è la validazione suprema della propria identità come “inarrestabile perseguitore dei propri scopi”.
Esistono situazioni nella vita quotidiana e tanto più nella psicopatologia in cui il bilancio costi/benefici sembra sospeso. L’investire sembra addirittura più importante dello stesso risultato. Il soggetto sembra agire non secondo la ben nota regola economica del “massimo risultato con il minimo sforzo” ma piuttosto secondo il principio del “massimo sforzo a prescindere dal risultato” (Mancini, Gangemi 2002,2004a,2004b,2006).
Ciò sembra completamente folle se l’attenzione è posta sul risultato esterno. Lo è meno se si sposta sull’idea di sé che tale impegno improduttivo sostiene. A volte sembra meno importante “essere vittoriosi” che poter pensare di sé che “si è fatto di tutto per esserlo”. Gli eroi tuttavia non si lamentano dei loro eroismi. Che si tratti di lasciarsi sbranare dai leoni al Colosseo o farsi saltare in aria imbottiti di esplosivo o, più modestamente, farsi uccidere da un partner violento e geloso. Gli eroi muoiono contenti e fiduciosi in qualche paradiso che li accoglierà. E, anche qualora tale attesa vada delusa, non fanno in tempo ad apprendere dall’esperienza.
Ma non è degli eroi che si occupa questo lavoro. Il problema nasce quando questa tendenza all’eroismo si manifesta nella vita di tutti i giorni.
Per i più il bilancio costi benefici prima o poi diventa ineludibile. Raramente il fallimento comporta anche la gloriosa morte del soggetto e il più delle volte la persona sopravvive sulle macerie fumanti dei propri progetti. A quel punto scattano a ritroso una serie di auto rimproveri. Ci si accusa di non essere stati vigili. Ci si definisce creduloni, incoscienti, sprovveduti, irresponsabili, superficiali. Il giudizio su di sé diventa negativo.
L’eroismo viene considerato stupidità. Anche in questo caso possiamo dire che avvenga un cambiamento nei criteri di valutazione del comportamento. Lo si mette in atto secondo il criterio interno dell’eroismo del “non badare a spese”, del “costi quel che costi”. Lo si valuta a posteriori secondo il criterio dell’efficacia e dell’efficienza.
Così come per le teorie scientifiche c’è un periodo iniziale in cui può essere utile una scotomizzazione delle difficoltà prima di giungere alla piena maturità falsificazionista, altrettanto vale per le imprese degli essere umani in tutti i campi della loro esistenza. Forse ciò vale per la vita stessa. C’è un tempo per la spalvaderia e l’incoscienza giovanile senza la quale non ci sarebbero le grandi scommesse. C’è un tempo successivo per le valutazioni di fattibilità, i progetti operativi, i bilanci costi/benefici e le conseguenti scelte. Adolescenza e maturità sono entrambe necessarie. Ma guai all’adolescente che si giudica con gli occhi dell’adulto e all’adulto che si misura con i criteri dell’adolescente. Saranno entrambi insoddisfatti di loro stessi.
Vivere è un mestiere pericoloso
Accettare di correre dei rischi è indispensabile per vivere. Che sia meglio l’uovo oggi……. è una diceria messa in giro dalle galline profondamente attecchita nell’animo umano.
Non si ha difficoltà a fare i conti a brevissimo termine cercando un profitto immediato senza considerare il costo complessivo di un’operazione che si prolunga nel tempo. Certo se non si prende l’aereo oggi non ci sarà sul giornale di domani il ricordo da parte di parenti e amici colpiti dall’immane tragedia. Ma questo varrà anche per dopodomani e per ogni giorno successivo. Dunque sull’altro piatto della bilancia si affastellano via via, le vacanze in Asia, gli enormi affari nel sud dell’Africa e gli amori travolgenti in America Latina. Non perire in un incidente aereo ha un costo ben più alto che la semplice odierna rinuncia al volo per Milano oggi.
A ben vedere lo stesso uscire di casa mette in pericolo e i terremoti assediano anche sotto le coperte del letto. Qualsiasi rischio non si accetti di correre costruisce intorno una prigione che spesso, seppur dilazionata e mutuabile paralizza l’esistenza.
Vivere è un mestiere pericoloso e la vita stessa è una malattia sessualmente trasmessa ad esito infausto. Ma l’alternativa è non vivere. Si tenga conto che proprio le strategie preventive causano talvolta ciò che si vuole evitare secondo la regola delle profezie che si auto avverano (Merton, 1968)