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Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 4

Corso di sessuologia: tema del Costruzione dell’identità di Genere e del Transessulismo, iniziando con una disamina del concetto di Identità

Di Simona Giuri

Pubblicato il 27 Feb. 2013

 

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La chiusura del Corso è caratterizzata  da un duetto d’eccezione, la Dr.ssa Cecilia Volpi e il Dr. Antonio Fenelli che hanno tenuto lezione insieme, come in un passo a due di danza classica,  in cui due corpi in movimento si coordinano in modo armonioso, enfatizzando uno la bellezza e l’eleganza dell’altro.

La Dr.ssa Volpi ha trattato il tema della Costruzione dell’identità di Genere e del Transessulismo, iniziando con una disamina del concetto di Identità: questo concetto più genericamente  risponde alla domanda “chi siamo?”, così come il concetto di Identità Sessuale risponde alla domanda “cosa siamo?” , fino all’Identità di Ruolo che risponde alla domanda “cosa facciamo?.  Altrettanto genericamente verrebbe semplice pensare di dare una risposta ad ognuna di queste domante! In realtà, scopriamo con un breve e divertente esercizio, che elencare i motivi del perché ci sentiamo “femmine” o “maschi” diventa la prova lampante di quanto l’ovvio alle volte ci inganni e, entrando nello specifico, ci si rende conto della complessità sottesa in ciascuna domanda e della difficoltà a farne una chiara distinzione.

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Iniziamo con la definizione di Identità Sessuale, quale consapevolezza intima e profonda di appartenere ad un certo sesso, in cui fattori biologici e contesto ambientale interagiscono, facendo si che l’individuo crescendo costruisca la propria Identità Sessuale e Personale.

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com
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Viene poi illustrato il processo di differenziazione sessuale, sia dal punto di vista biologico che psicosociale ed appare subito evidente quanto la comunicazione sociale e l’apprendimento siano fondamentali nel determinare il comportamento sessuale, così come dimostrato per esempio da uno studio (Money e Ehrhardt, 1972) che mostra come i genitori tendano ad assumere comportamenti diversi a seconda del sesso di appartenenza dei figli, pur pensando di comportarsi esattamente allo stesso modo; difficile diventa stabilire quanto dipenda dai nostri geni e quanto da ciò che abbiamo “imparato”: “il fatto che io lavi i piatti non dipende dalla genetica, ma dalla cultura!”.

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Money (1978) definisce l’identità sessuale come un  “progetto” che parte dal corredo cromosomico XX o XY, che si attua con lo sviluppo e l’“organizzazione” dell’individuo e, in tal senso, oltre al criterio organizzativo affidato essenzialmente agli ormoni sessuali fin dalla nascita, si lascia spazio ai processi organizzativi diversi, che determinano un differente e più complesso senso di sé con la consapevolezza profonda dell’appartenenza ad un “genere sessuale”.

Risulta evidente come  la differenza tra sesso genetico (l’apparire), identità di genere (l’essere)  e identità di ruolo (il fare) risulti poco chiara, se non alle volte confondente, per cui si può ragionevolmente supporre che il processo di costruzione dell’identità di genere avvenga all’interno del più ampio percorso della costruzione dell’identità personale e pertanto sia costantemente soggetto a fenomeni di falsificazione e conferma (Volpi).  Non sempre il fare, l’apparire e l’essere coincidono (pensiamo ad un bimbo che gioca con le bambole), ed è per questo possibile, auspicando una minore rigidità, osservare un continuum che lega l’identità maschile e l’identità femminile, al di là dei ruoli.

L’acquisizione della nostra identità di genere è un processo che non ha mai fine e rispetto al quale dobbiamo sempre negoziare e rinegoziare sia la dimensione intrapsichica che relazionale (Argentieri, 1996).

E’ così che inizia il capitolo sul Transessualismo: nonostante le testimonianze giunte dalla storia greca e romana, è necessario attendere il 1800 perché vengano pubblicati i primi lavori scientifici in cui vengono descritti casi di persone con discrepanza tra sesso genetico e sesso percepito: si pensava fossero persone sbagliate, ma sbagliate in cosa? Abbiamo sempre scelto di dire che è sbagliata la mente che non si adegua al soma! Il termine Transessuale viene utilizzato per la prima volta da D.O. Cauldwell nel 1949, ma il merito di aver correttamente inquadrato il problema spetta a H. Benjamin in un articolo del  1953 uscito sulla rivista “International Journal of Sexology”. Fu così che nel 1951 si realizzò il primo caso di adeguamento somatico dal punto di vista chirurgico, per cui George diventò Cristina e con il 1968 esce uno dei primi testi di ricerca sul transessualismo, “Sex and Gender” di uno psicoanalista americano, iniziandosi così a delineare la differenza tra sesso (biologico) e genere (complesso).

Per quando riguarda l’inquadramento diagnostico del Transessualismo, dobbiamo aspettare il 1980, quando il DSM lo inserisce tra i disturbi psicosessuali in una sezione riguardante i disturbi dell’Identità di Genere. 

Inoltre, controversa risulta l’eziopatogenesi del transessualismo: come si possono definire le “cause” di un fenomeno così complesso? Considerando che l’Identità Sessuale è frutto di un percorso, ciò che potremmo osservare sarà il risultato possibile di tale percorso, derivante dall’incontro fra le risorse dell’individuo e quelle del contesto verso una soluzione: il transessualismo rappresenta quindi solo una delle infinite possibilità.

Grazie all’esperienza della Dr.ssa Volpi e ad alcuni stralci del famoso film “Mery per sempre” del 1989, emerge la difficoltà a utilizzare le classificazioni diagnostiche, a tratti ostili, tanto più se si parla di “disturbo”, senza tenere conto di quanto disturbato è ciò che avviene nel sociale  nei confronti di queste persone. Il transessuale giunge in terapia assolutamente consapevole del suo problema, già dalla pubertà ha iniziato a capire che “questo corpo non va bene … io mi sono sempre sentito maschio!”. Per questi motivi,  una diagnosi va fatta in relazione allo stato di salute mentale, ad una eventuale sofferenza e a disturbi psicologici, non al modo di percepirsi e sentirsi; l’attenzione è rivolta a proteggere la persona, non rispetto al suo sentirsi transessuale, ma per verificare lo stato di salute mentale che potrebbe, se disturbato, condurlo ad un iter irreversibile.

Anche per questo motivo la legge 164 del 1982, che regolamenta l’intervento di “adeguamento dei caratteri sessuali”, con rettificazione anagrafica,  prevede a seguito della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso che il giudice istruttore disponga l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni “psicosessuali” della persona che ne fa richiesta. Seppur nel tentativo di “normalizzare” molte situazioni difficili, è innegabile che dal punto di vista legislativo molte questioni restano aperte, ma soprattutto, sembra mancare, come sottolinea la Dr.ssa Volpi, il rispetto per il “diritto all’Identità Sessuale” peraltro sancito dall’articolo 8 della convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Per esempio, non è chiaro chi possa effettuare la perizia, così come è lesa la libera scelta dell’individuo, che non ha altra possibilità per la rettificazione anagrafica se non quella dell’adeguamento medico-chirurgico (non solo estetico), un intervento di rilevante entità.

Dal punto di vista Terapeutico, si è ben lontani per fortuna, dalla prime terapie definite “dissuasive”, cioè volte a convincere le persone “che non erano quello che sentivano di essere”.

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È il “corpo” che portano in terapia, quel corpo così odiato, temuto, negato, ed è del corpo che coerentemente si inizia a parlare, così come sottolinea la Dr.ssa Volpi, che presenta poi un percorso terapeutico in ottica costruttivista il cui filo conduttore è permettere all’individuo di affrontare l’iter con meno sofferenza emotiva possibile, “conoscendo” ed “esplorando” l’inesplorato: si inizia dall’ Accettazione dell’identità transessuale da parte del terapeuta, fino a giungere alle scelte del cambiamento vero e proprio, sentito, consapevole a questo punto, e tanto desiderato.

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Il Dr. Fenelli ha invece iniziato la lezione con una disamina del concetto di Resistenza, termine che in senso generico indica l’azione e il fatto di resistere mediante una qualunque forma di opposizione attiva o passiva, ed è utilizzato in diversi ambiti con connotazioni diverse.

Dal punto di vista psicoterapeutico, nei vari modelli psicopatologici e psicoterapeutici il concetto di resistenza è ricco di significati e di metafore ed è solitamente ascrivibile a un soggetto in cerca di cure per le sue sofferenze, che però mette in atto una sorta di opposizione, di riluttanza e fatica ad abbandonare vecchi e consolidati stili di tipo difensivo che gli permettono un certa forma di “sicurezza”.

Dopo una carrellata dei diversi approcci teorici e del loro modo di definire e trattare le resistenze, delle diverse modalità con cui queste resistenze possono manifestarsi, si sottolinea come in ottica costruttivista il non cambiamento non è più ascrivibile alla resistenza, alla volontà di non cambiare, alla paura di farlo o all’assenza di risorse per farlo. L’indagine in tal senso è orientata all’analisi delle rappresentazioni, dei sistemi di credenze e di significati attraverso cui il paziente costruisce la sua realtà sociale (e quindi anche la terapia).  In tal senso è utile che il terapeuta si interroghi sul tipo di relazione che sta costruendo con il paziente, per cui  la resistenza diventa l’espressione di un empasse nell’ambito del processo di costruzione di significato, significati che possono poi generare persistenza o cambiamento.

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Banalmente vediamo come in una simulata, ricordiamo in un corso di sessuologia, possa succedere che i due attori (terapeuta e paziente) non parlino di sesso: quale migliore esempio di resistenza in questo senso?

Si entra poi nello specifico delle possibili problematiche che si possono riscontare all’interno di un trattamento, delineando gli elementi che le caratterizzano, biologici, cognitivo, emotivi e contestuali, sottolineando ancora una volta l’importanza di considerarle sempre all’interno della relazione; fino alla conclusione dell’incontro con esercitazioni e supervisioni preziosissime, accompagnate da una riflessione importante  su quella che viene definita “la fine della terapia”,  sulla quale probabilmente non ci si è mai soffermati sufficientemente e scientificamente.

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BIBLIOGRAFIA:

  • L. Frugeri, (1990) Dalla individuazione di resistenza alla costruzione di differenze. Riflessioni sui processi di persistenza e cambiamento in Psicoterapia, Psicobiettivo, X(3):29-46 (DOWNLOAD FILE DOC)
  • C. Volpi, Il Transessualismo: un modello interpretativo e terapeutico in ottica Costruttivista
  • C. Volpi, Al di là dello specchio (I disturbi dell’identità di genere): Materiale Lezione
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