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Fare ACT – Acceptance and Commitment Therapy

Elementi chiave dell’ Act: accettazione, provare una strada alternativa alla gestione della sofferenza, e l’impegno verso i valori.

Di Luca Calzolari

Pubblicato il 13 Feb. 2013

 

Fare-ACT-Acceptance-and-Commitment-Therapy. - Immagine: © coramax - Fotolia.comI due elementi chiave dell’Act, e tra di loro legati da un doppio filo, sono proprio l’accettazione, il provare cioè una strada alternativa alla gestione della sofferenza (proprio perché quelle utilizzate fino ad ora hanno causato una spirale di sofferenza), e l’impegno verso i valori, aiutare cioè il paziente ad esplorare i propri scopi e perseguirli.

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Prendete con le mani ai lati la cartella con i fogli del corso e mettetevela davanti agli occhi, fino a sfiorarvi il naso. Ecco ora provate a pensare se in questa situazione riuscireste a guidare, fare una torta, leggere un libro. Ora allungate le braccia al massimo  e cercate di tenere la cartella più lontana possibile, tenete le braccia ferme mi raccomando. Ancora chiedetevi se siete in grado di fare qualche azione, che sia leggere un libro, guidare una macchina o fare un disegno. Dopo aver provato entrambe le soluzioni provate a farne un’ultima, probabilmente la più controintuitiva per voi…provate a mettere la cartella sulle ginocchia”.

ACT-Acceptance-and-Commitment-Therapy-Introduzione. - Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.com
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Se noi pensiamo a quella cartella come un pezzetto per noi doloroso, sia esso un pensiero o un’emozione, e ci chiediamo cosa abbiamo fatto nella nostra vita in sua risposta, molto probabilmente cadremmo in uno dei due momenti citati prima. Potremmo aver passato periodi infiniti avendolo sempre in testa, riflettendoci continuamente sopra e cercando strategie per non provare quella sensazione; o altrimenti potremmo averci lottato cercando di non pensarci ma in entrambi i casi avremmo provato emozioni, come ad esempio rabbia o tristezza, per questo dolore sempre presente che di fatto ci ha bloccato permettendoci di progettare un futuro proprio e solo in base a quel tema.

Il razionale dell’Act (secondo il modello di Steven Hayes) è proprio questo . Le strategie che utilizziamo per risolvere i nostri pezzetti complicati portano ad una spirale che mantiene e rinforza il tema doloroso grazie a quello che in clinica viene anche chiamato “problema secondario”, come cioè io giudico le mie esperienze siano esse interne (emozioni, pensieri o stati somatici) o esterne (i comportamenti). Se nell’esercizio della cartella provassimo per un secondo proprio ad appoggiare sulle ginocchia quella cartella ci accorgeremmo che avremmo a quel punto la possibilità di vedere oltre, non con la credenza che quel pezzetto doloroso lo abbiamo tolto, è lì con le sue memorie antiche, ma con la possibilità di orientarci verso ciò che sono i nostri valori o più semplicemente i nostri scopi e cercando di costruire con quel tema per noi complicato un rapporto diverso.

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I due elementi chiave dell’Act, e tra di loro legati da un doppio filo, sono proprio l’accettazione, il provare cioè una strada alternativa alla gestione della sofferenza (proprio perché quelle utilizzate fino ad ora hanno causato una spirale di sofferenza), e l’impegno verso i valori, aiutare cioè il paziente ad esplorare i propri scopi e perseguirli. Come si vede non vi è un intervento sulle credenze, non si disputa proprio niente, si aiuta il paziente a gestire quei temi dolorosi in un modo alternativo, siamo cioè in piena terza ondata dove il focus è sui meccanismi di mantenimento ma anche e soprattutto, proprio perché è la caratteristica di questo approccio rispetto ad altri che sono focalizzati solo sull’accettazione, sull’esplorazione dei propri scopi e l’impegno a perseguirli.

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La sensazione che ho maturato è quella di avvicinarsi ad un modello che ha come obiettivo centrale il lavoro sull’aspetto più complicato con cui spesso lavoriamo coi pazienti, l’accettazione, laddove la strada delle rassicurazione è difficilmente percorribile o come spesso accade iatrogena (si pensi anche semplicemente all’ipocondria) .

Non quindi un mondo a sé, ma come assolutamente integrabile, all’interno del nostro modello cognitivista e che anzi ci permette di arricchirne gli strumenti proprio in aree dove abbiamo forse più difficoltà perché probabilmente ci fa stare insieme al paziente col suo tema doloroso.

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