La Claustrofobia, dal latino “claustrum”, cioè luogo chiuso, è la paura irrazionale dei luoghi chiusi ed angusti, è inoltre associata all’evitamento di oggetti o situazioni che creano senso di oppressione e sensazione di mancanza di libertà di movimento.
Claustrofobia: le caratteristiche cliniche
La claustrofobia è una fobia. Le fobie sono tra i disturbi mentali più comuni nelle aree urbane. Ad esempio, una revisione della letteratura, Fredrikson, Anna, Fischer e Wik (1996) ha evidenziato che una percentuale compresa tra il 6,2 e il 15,5 della popolazione ha almeno un tipo di fobia, con la più alta incidenza tra le donne (vedi anche Kinrys & Wygant 2005; Olivares, Piqueras, e Alcázar, 2006). Due dei tre stimoli peggiori producono fobie situazionali: altezza e spazi ristretti.
L’avversione o l’evitamento degli spazi chiusi caratterizzano la claustrofobia, DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994).
La Claustrofobia, dal latino “claustrum”, cioè luogo chiuso, è la paura irrazionale dei luoghi chiusi ed angusti, è inoltre associata all’evitamento di oggetti o situazioni che creano senso di oppressione e sensazione di mancanza di libertà di movimento.
La paura di soffocare è un elemento caratteristico della claustrofobia, come la senzazione di sentirsi in trappola ed in pericolo. I soggetti sono preoccupati di quello che può capitare loro in spazi ristretti, dal momento che percepiscono maggiormente il pericolo quando sono impossibilitati a muoversi. La claustrofobia può essere molto invalidante nel quotidiano, ma in genere viene gestita sufficientemente bene dai soggetti che evitano gli spazi che diano loro sensazioni di chiuso, come tunnel, treni, metropolitana, ascensori, stanze piccole, negozi, maschere, ecc. (Rachman,1997). I tre quarti dei casi di claustrofobia non risultano gravi e solamente una piccola percentuale di soggetti richiede un trattamento. L’esordio della claustrofobia è precoce (14 anni) ed i casi molto gravi interessano il 2-5% della popolazione.
Anche se la claustrofobia ha ricevuto meno attenzione rispetto all’agorafobia (stato di ansia che si verifica quando si ha la percezione di trovarsi in situazioni dalle quali è difficile fuggire) o fobia sociale (la paura di situazioni in cui ci si espone alla valutazione degli altri) (vedi Fredrikson et al, 1996;. Turner, Beidel, & Townsley, 1992), nel 1990 ha cominciato a suscitare l’interesse di molti ricercatori e professionisti (psicologi e psichiatri). Può aver contribuito a questo interesse la realtà dei centri urbani, dove la gente si trova a dover condividere piccoli spazi, o anche l’espansione delle nuove tecnologie diagnostiche in medicina (per esempio macchine per risonanza magnetica).
In generale, la claustrofobia è associata ad altre cosiddette fobie situazionali o fobie ambientali (ad esempio, il buio, l’altezza, volare in aereo), cioè le persone che temono un certo tipo di stimolo avranno timore anche per altri stimoli dello stesso gruppo (Muris, Schmidt, e Merckelbach, 1999; OST & Csatlos, 2000; Stravynski, Basoglu, Marks, Sengün, & Marks, 1995). È comune dire che le persone che soffrono di claustrofobia temono situazioni di restrizione e / o di confinamento (Febbraro & Clum 1995, Rachman & Taylor, 1993). Tuttavia, Martinez, Garcia y Botella (2003) sostengono che questa visione sta cambiando, e che non necessariamente le persone che soffrono di claustrofobia hanno paura degli spazi chiusi, ma ciò che può accadere in questi casi è che essi percepiscono come una minaccia la restrizione delle possibilità di movimento.
Insorgenza della claustrofobia e fattori scatenanti
A seguito di studi sia sullo sviluppo di nevrosi animali che in soggetti umani dopo disastri naturali (es: operai rimasti chiusi in miniera), Rachman (1997), evidenzia che l’insorgenza del disturbo, secondo i dati disponibili, è dovuto in prevalenza alla presenza di una esperienza condizionante, come per esempio, essere stati chiusi in uno spazio ristretto e/o aver esperito sensazioni di soffocamento.
Secondo altri dati l’insorgenza della fobia può avvenire anche a seguito di informazioni televisive e giornalistiche, e ciò suffraga l’ipotesi di una acquisizione indiretta e non associativa del disturbo, oppure anche a seguito di una percezione simbolica di intrappolamento in una relazione interpersonale insoddisfacente; comunque rimane costante aver avuto pregresse esperienze di percezione di spazio limitato.
Nuovi fattori scatenanti di reazioni claustrofobiche sono le moderne tecniche di imaging diagnostico (TAC, RMN) che i soggetti risultano incapaci di eseguire nel 4-10% dei casi, oppure determinano un peggioramento sintomatologico quando il disturbo è presente.
Fra i pazienti che si sottopongono a TAC e RMN ed interrompono l’esame per crisi claustrofobiche, si osserva un incremento della sintomatologia ansiosa a differenza di quelli che nonostante la paura resistono; questi ultimi infatti mostrano al termine dell’esame una riduzione dell’ansia nel 42% dei casi.
Si è indagato l’impatto della limitazione dello spazio anche in animali da laboratorio e si è osservato che l’assenza di speranza di fuga o di salvezza conduce a morte; invece, l’immobilizzazione ripetuta induce l’habituation e la riduzione della reattività fisiologica ma non l’intercambiabilità di risposta con altre situazioni simili di immobilizzazione.
I sintomi della Claustrofobia: evitamento e ansia
La claustrofobia può coinvolgere due gruppi di sintomi. Il primo è l’evitamento, cioè quando si cerca di evitare una situazione che può portare alla claustrofobia. Ad esempio, trovandosi in uno spazio ristretto chi soffre di claustrofobia può controllare costantemente le uscite per assicurarsi che non siano ostruite; all’interno di un veicolo, può preferire sedersi accanto a una porta e viaggiare solo quando c’è poco traffico; nei luoghi pubblici può stazionare vicino alla porta o evitare i bagni affollati.
I sintomi fisici e la somatizzazione ansiosa della claustrofobia
Tuttavia, quando non è possibile evitare le circostanze che portano effettivamente alla sensazione di costrizione in uno spazio angusto, può sopraggiungere un picco elevato di ansia, che può accompagnarsi ad alcuni dei seguenti sintomi:
- Sudorazione
- Respirazione rapida o iperventilazione
- Nausea e vomito
- Battito cardiaco accelerato, tachicardia
- Svenimento
- Tremore e brividi
- Vertigine
- Intorpidimento e formicolio
- Difficoltà di respirazione e timore di soffocamento
La paura di soffocare e la sensazione di essere in trappola
Uno studio fattoriale di Rachman & Taylor (1993) ha evidenziato la presenza, in soggetti claustrofobici, di due fattori moderatamente correlati, il senso di soffocamento e la sensazione di essere in trappola.
Questi sintomi sono comuni ad altre fobie e la paura di soffocare, vissuta come minaccia che origina dall’interno di se stessi, può esprimersi, sia con la percezione di disporre di una quantità d’aria insufficiente, sia con una sensazione di restringimento delle vie aeree con la percezione dell’incapacità di espandere il torace e/o la sensazione di avere il respiro corto, sia con la sensazione di intrappolamento (Rachman,1997).
La paura di soffocare rappresenta l’altro elemento essenziale della claustrofobia e se l’accesso all’aria viene impedito, l’ansia o la paura tendono ad accentuarsi, formando una forte associazione con la percezione di limitazione fisica e la necessità di sentire la libertà di movimento.
Quando queste condizioni risultano associate, tendono a provocare sensazioni di panico, infatti molti soggetti claustrofobici con panico dichiarano di percepire la sensazione di mancanza di respiro ed estrema paura di soffocare (Rachman,1997).
La paura degli spazi chiusi e la paura di soffocare sono le paure più frequenti nella popolazione generale e poiché quest’ultima è una sensazione interna, la presenza o l’aiuto di altre persone risulta di scarso supporto psicologico; l’elemento determinante è rappresentato dalla percezione di disporre di una quantità d’aria sufficiente e dalla sensazione di un respiro regolare.
La correlazione tra claustrofobia e altri disturbi
L’incidenza della claustrofobia sulla popolazione mondiale è tra il 15 e il 37% e in molti casi si presenta con altri tipi di disturbi d’ansia: il disturbo d’ansia generalizzato, la fobia sociale, il disturbo di panico.
Diversi studi dimostrano che la Claustrofobia è correlata con gli indicatori di disagio psicologico (stress) (Martinez et al, 2003;. Radomsky et al, 2001, 2006.). Pertanto, le persone che soffrono di claustrofobia sono generalmente più ansiose e depresse. Questi sintomi psicologici sono più comuni tra le donne (Chaves, 2003 ;. Gouveia et al, 2003), e questo spiegherebbe la più alta incidenza del disturbo nel sesso femminile.
Claustrofobia: le teorie eziologiche
Meccanismo di sopravvivenza dormiente
Una teoria suggerisce che la claustrofobia sia un istinto di sopravvivenza che è intrinsecamente sepolto all’interno del nostro codice genetico. Una volta era utile, ma oggi non ha più alcun valore di sopravvivenza. Una squadra di ricercatori tedeschi e britannici sostiene che la claustrofobia sia invece il risultato di un unico difetto genetico.
Amigdala più piccola
L’amigdala fa parte del sistema limbico e processa tutto ciò che ha a che vedere con le nostre reazioni emotive. Uno studio suggerisce che le persone affette da disturbi di panico dispongono di amigdala più piccola rispetto alla media. Si ritiene che questo differenziale di dimensione possa interferire con il modo in cui il cervello processa la percezione del pericolo generando la paura.
Claustrofobia e percezione spaziale
Ognuno ha il proprio “spazio personale” – la distanza o il confine che un individuo ha bisogno di definire, la propria zona di comfort. Nuove ricerche suggeriscono che coloro che proiettano il loro spazio personale troppo al di là dei loro corpi – al di là della lunghezza del braccio – sono più propensi a sperimentare la paura claustrofobica.
Lo studio è uno dei primi a concentrarsi sui meccanismi percettivi della paura claustrofobica. La teoria alla base è che gli individui con paura claustrofobica hanno una percezione spaziale problematica.
Una forma di paura claustrofobica è comune a tutti. Tuttavia, la claustrofobia vera e propria, riscontrata in circa il 4% della popolazione, può causare attacchi di panico quando ci si trova in una situazione “stretta” come un ascensore affollato o in un tunnel.
“La claustrofobia non è facile da definire, poiché alcune persone che sperimentano eventi traumatici in spazi ristretti non sviluppano una claustrofobia vera e propria – ha affermato Lourenco – Questo ci ha portato a chiederci se possano essere coinvolti altri fattori. I nostri risultati mostrano una chiara relazione tra la paura claustrofobica e gli aspetti fondamentali della percezione spaziale”.
I ricercatori ritengono che la claustrofobia e l’acrofobia (la paura delle altezze) siano legate a qualche squilibrio nella percezione di oggetti vicini e lontani.
I soggetti che hanno alti livelli di paura claustrofobica sottovalutano le distanze orizzontali, e coloro che hanno più paura acrofobica sovrastimano distanze verticali.
In particolare, le persone con spazi personali più ampi hanno registrato tassi più elevati di paura claustrofobica rispetto alle persone con spazi personali più piccoli. Questi risultati sono coerenti con una funzione difensiva della rappresentazione spaziale personale e suggeriscono che una sovra-proiezione dello spazio personale possa svolgere un ruolo importante nell’eziologia della claustrofobia.
Claustrofobia: un dilemma relazionale
Secondo Valeria Ugazio (1998), l’organizzazione fobica (Guidano, 1988) è un assetto che si sviluppa nel bambino a partire dalle prime esperienze con una figura di attaccamento che scoraggia in lui un comportamento esplorativo e che gli trasmette una definizione negativa di sé. Tale organizzazione può poi dare origine a comportamenti sintomatici, nell’infanzia o nell’adolescenza, in seguito a eventi eccessivamente intensi che tocchino una delle due polarità.
Il dilemma del fobico è: rinuncio alla sicurezza della compagnia in modo da essere libero (ma anche solo di fronte ai pericoli) oppure rinuncio alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione che mi rassicura (ma che può anche soffocarmi)? Le vie di uscita sono due strade dicotomiche: o aderisco a un’immagine di me che esclude fragilità e debolezza e identifica l’autostima con l’indipendenza, oppure mi imbarco in rapporti affettivi stretti dai quali dipendere. La prima strada coincide con la claustrofobia, la seconda con l’agorafobia. La persona con claustrofobia sente pericolose le situazioni che interpreta come perdita di libertà (come un rapporto troppo stretto o la nascita di un figlio), l’agorafobico ha paura di ciò che vive come perdita di protezione (la fine di una storia d’amore o un lavoro che richiede più responsabilità). Si tratta di un continuum ai cui estremi abbiamo da una parte la scelta di essere indipendente ma rinunciare a un coinvolgimento emotivo, dall’altra essere protetti da un legame ma avere una bassa autostima.
Il claustrofobico può avere un legame affettivo purché a basso coinvolgimento. Sceglierà un partner dal profilo basso: poco brillante, dipendente, che si coinvolge emotivamente per entrambi. Nella coppia è in posizione “one up”, è accentratore, fuggitivo e svalutante. L’ agorafobico, al contrario, privilegia la relazione a scapito del sé. Per paura di perdere il legame, controlla le persone significative e sottopone la relazione a continue verifiche. Il fatto di non essere indipendente compromette il suo senso di realizzazione. Si legherà in giovane età a un partner apparentemente forte e protettivo a cui dedicherà tutto. Nella coppia è in posizione “one down”.
L’ organizzazione fobica di un individuo, che risulta esemplificativa nei due estremi “claustrofobico” e “agorafobico”, affonda quindi le radici in difficoltà relazionali che si esprimono in una modalità non equilibrata di vivere la relazione: il primo tende a sentirsi soffocato (gli spazi chiusi lo angosciano), il secondo ha paura che, solo e sperduto in balìa del pericolo, nessuno lo salvi (gli spazi aperti e dispersivi gli trasmettono senso di minaccia e mancata protezione).
Trattamento della Claustrofobia
Gli interventi terapeutici di chiara efficacia per la cura della claustrofobia, come per le altre fobie, comprendono la terapia espositiva e la terapia cognitiva, dimostratisi equivalenti. I metodi comportamentali mirano ad indebolire l’associazione specifica con gli stimoli fobici mediante l’esposizione ripetuta o attraverso lo sviluppo di abilità specifiche a gestire lo stimolo e la risposta, mentre i metodi cognitivi mirano a modificare la valutazione ed il significato dato allo stimolo e alla risposta.
La caratteristica generale della terapia espositiva per la claustrofobia consiste, nell’incoraggiare e convincere il soggetto a rimanere nella situazione temuta, nonostante l’ansia e il malessere, fino ad una sua riduzione ed in seguito fino alla scomparsa completa dell’ansia. Con i pazienti è utile descrivere la metodologia di intervento che verrà adottata nella sessione, spiegandone gli aspetti teorici e le differenze fra una esposizione graduale e pianificata in un contesto controllato rispetto a quella occasionale della vita, al fine di ridurre il timore di non essere in grado di gestire la situazione che verrà a prodursi.
È importante anche spiegare come la sessione terapeutica rappresenti solamente il punto di partenza di una successiva esposizione graduale e più diffusa, poiché una fobia di lunga durata come la claustrofobia è improbabile che scompaia del tutto dopo una sessione; tuttavia la seduta è l’elemento cardine e di estrema utilità all’interno del programma che porterà alla scomparsa progressiva della fobia.
In genere, poichè il timore più frequente è la paura di essere esposti massicciamente allo stimolo temuto, è importante sottolineare al paziente come ciò avvenga gradualmente, potendo egli stesso interrompere la seduta in ogni momento; inoltre, è opportuno dare informazioni veritiere e non contraddittorie, spiegando l’importanza di imparare a gestire l’ansia e l’evitamento con piccoli passaggi, accontentandosi di raggiungere obiettivi graduali e tollerabili; quelli ottimali si otterranno in seguito.
Una volta spiegato il modello teorico dell’esposizione controllata, si procede all’esposizione visiva graduale; ovviamente in un intervento breve l’obiettivo è solo di ridurre la risposta ansiosa del soggetto in quella situazione.
Contemporaneamente a queste esposizioni, possono essere affrontate anche le cognizioni negative ed i pensieri automatici inerenti l’oggetto della fobia, cercando di identificare le incongruenze logiche e modificare le distorsioni cognitive, oltre che indurre modificazioni della percezione sensoriale.
Trattamento ambulatoriale della claustrofobia
Per il trattamento ambulatoriale della claustrofobia è possibile creare una serie di situazioni, pianificate in precedenza con il paziente, che progressivamente lo espongano alla sensazione di chiusura, come ad esempio entrare con lui in una stanza (lasciando la porta aperta), spiegando i vari passaggi che verranno seguiti, ed insegnando a mantenere l’attenzione sul compito che dovrà essere svolto.
Una volta usciti, si farà aprire la porta al paziente invitandolo ad osservare i particolari della stanza ed incoraggiandolo ad entrare, facendogli descrivere i propri pensieri e le sensazioni provate, ed insegnandoli, focalizzando l’attenzione sugli oggetti, resistendo ai pensieri e sensazioni di fuga, a non fuggire.
Di seguito si farà socchiudere e poi chiudere la porta, facendolo restare nella stanza chiusa qualche attimo e poi sempre più, monitorando le variazioni l’intensità del malessere nel corso dell’esposizione con un punteggio che sarà in funzione sia della sensazione provata, che della padronanza di sè nella situazione rispetto a quanto il soggetto si attribuiva prima dell’esposizione; infine, si farà restare la persona da sola parlandole oltre la porta, e poi, restando in silenzio.
I tentativi possono essere vari ma è fondamentale che ognuno di questi apporti un anche lieve cambiamento e faccia percepire una maggiore padronanza e sensazione di controllo.
Nel corso della seduta, come già accennato, è possibile valutare i pensieri, le sensazioni, le emozioni, attribuendo ai soggetti dei compiti da svolgere a casa, ciò in funzione della gravità del disturbo e delle abilità/capacità del soggetto.
Può essere anche utilizzata una esposizione alle sensazioni interne di ansia e paura, in cui al soggetto vengono fatte provare immaginativamente o realmente le sensazioni fisiche che si provano quando si respira velocemente o dopo esercizi fisici, e che assomigliano a quelle provate nel corso dell’esposizione e nelle situazioni fobiche.
Trattamento della claustofobia con la realtà virtuale
I risultati di questo studio supportano l’efficacia clinica dell’esposizione alla realtà virtuale (VR) per il trattamento della claustrofobia. Una diminuzione di tutte le misure è stata osservata e, inoltre, i dati supportano i risultati del precedente studio (Botella, Bafios, Perpifi ~ i, Villa, et al., 1998), dove è stato dimostrato che il contesto claustrofobico virtuale attiva un alto grado di ansia nei partecipanti e che sono stati in grado di superare la fobia attraverso l’esposizione virtuale. La VR, è stata usata da sola, senza alcuna combinazione con altri trattamenti psicologici e con un follow up a tre mesi. Pertanto, sembra essere molto utile in una prospettiva terapeutica (Botella, Bafios, Perpififi, & Ballester, 1998; Botella, Bafios, Perpifi ~ i, & Garcfa-Palacios, 1998).
Cosa intendiamo nello specifico parlando del mezzo realtà virtuale? La strumentazione base è costituita da un pc con software dedicato a scenari 3D al quale collegare: un joy-pad; un dispositivo di visualizzazione (casco o occhialini); uno o più sensori di posizione e di movimento (tracker).
Grazie a questi strumenti si può parlare di realtà virtuale immersiva, la quale permette al soggetto di provare un senso di assorbimento sensoriale nell’ambiente tridimensionale.
La realtà virtuale consente pertanto di sperimentare un rilevante coinvolgimento grazie al ‘senso di presenza’ provato all’interno degli scenari virtuali, e costituito da:
– proto presenza: possibilità di movimento corporeo e interazione;
– presenza nucleare: percezione di un ambiente vivido;
– presenza estesa: percezione di elementi significativi per il soggetto.
Le caratteristiche di funzionamento del mezzo possono essere assunte in tre punti: 1) Il soggetto immerso nello scenario virtuale osserva fenomeni e comportamenti; 2) Può intervenire con la propria azione all’interno della scena; 3) Può osservare in loco gli effetti dei propri comportamenti e modificarli nuovamente, considerando via via le diverse conseguenze.
Così facendo possono ripetersi cicli di percezione e azione, ciascuno operante sul risultato dell’altro. La conoscenza e il cambiamento si ottengono dal fare esperienza nel qui e ora. La principale opportunità offerta dalla realtà virtuale all’interno di un percorso psicoterapico consiste, pertanto, nella possibilità di partecipare attivamente al riconoscimento e alla presa di consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri, in situazione.
Bibliografia:
- Stella F. Lourenco, Matthew R. Longo, Thanujeni Pathman. Near space and its relation to claustrophobic fear. Cognition, 2011; 119 (3): 448 DOI: 10.1016/j.cognition.2011.02.009
- Valdiney V. Gouveia1; Emerson-Diógenes de Medeiros; Rildésia S. V. Gouveia; Walberto S. Santos; Pollyane K. C. Diniz. Claustrophobia Questionnaire: evidences of its validity and reliability. Interamerican Journal of Psychology. Interam. j. psychol. v.42 n.3 Porto Alegre dez. 2008.
- A El-Kordi1,2,8, A Kästner1,8, S Grube1,8, M Klugmann3,9, M Begemann1,2, S Sperling1, K Hammerschmidt4, C Hammer1, B Stepniak1, J Patzig3, P de Monasterio-Schrader3, N Strenzke5, G Flügge2,6, H B Werner3, R Pawlak7, K-A Nave2,3 and H Ehrenreich1,2. A single gene defect causing claustrophobia. Translational Psychiatry (2013) 3, e254; doi:10.1038/tp.2013.28. Published online 30 April 2013
- Fumi Hayano phd,Motoaki Nakamura md, phd,Takeshi Asami md, phd,Kumi Uehara md ,Takeshi Yoshida md, phd,Tomohide Roppongi md ,Tatsui Otsuka md, phd,Tomio Inoue md, phd,Yoshio Hirayasu md, phd. (2009). Smaller amygdala is associated with anxiety in patients with panic disorder. Psychiatry and Clinical Neurosciences. DOI: 10.1111/j.1440-1819.2009.01960.