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Cosa chiede un figlio? 

Ci si interroga da tempo sui perché del malessere emotivo che tanto attanaglia i giovani. La responsabilità è sempre dell'altro?

Di Robert Brumărescu

Pubblicato il 08 Lug. 2021

Le televisioni ne parlano, i giornali ne scrivono, i genitori lo ripetono negli ambulatori degli psicologi: i bambini di oggi stanno male, soffrono. Depressione, ansia, disordini alimentari, per non parlare delle condotte autolesive e autodistruttive.

 

 Fiumi d’inchiostro spesi sui perché del malessere emotivo che tanto attanaglia i giovani: da chi lo attribuisce alla società – persa e distratta dal consumismo -, a chi, mediante apparecchiature sempre più performanti, ricerca misteriosi geni responsabili. Il comun denominatore sembra però il medesimo: la responsabilità è dell’altro, si trova riposta al di fuori da me. Ma siamo certi che le cose stiano realmente così?

Gran parte dei problemi che bambini e adolescenti manifestano oggigiorno poggiano su fondamenta specifiche: genitori incapaci di porre la loro attenzione sulla vita emotiva del figlio. Proviamo a capire meglio. Ad oggi, le energie dei genitori risultano indirizzate per gran parte ai bisogni, dimenticando la dimensione dell’affetto. E, questa cecità rispetto alla dimensione dell’affettività, alla profondità del desiderio, circonda anche l’individualità del genitore stesso. In fondo, non lo scopriamo oggi: il bambino portatore del sintomo ripropone tenacemente il fantasma irrisolto dei genitori.

 Addentrandoci poi in uno dei temi tanto cari ai genitori, ovvero “mio figlio non mi ascolta” può essere utile riflettere sul fatto che la crescita e lo sviluppo del bambino porta per forza di cose alla necessità di una soluzione dell’Edipo (tanto caro a Freud). La soluzione edipica richiede che la rivalità col genitore venga superata proprio attraverso il riconoscimento della dialettica tra amore e odio. Un genitore non può pretendere che un figlio possa provare per lui esclusivamente sentimenti positivi, soltanto amore. Un genitore non può pretendere che un figlio gli ubbidisca continuamente. Un genitore dovrebbe riuscire ad accettare che un figlio abbia bisogno di affermarsi, di costruire la sua identità, contrastando – spesso – i valori della famiglia d’origine. Il fallimento di questo processo riconoscitivo da parte del genitore trasborda nel soffocamento del bambino, in una cura ipertrofica, acefala, nella quale troviamo non solo l’assenza di riconoscimento della soggettivazione del bambino – ovvero il riconoscergli lo statuto di soggetto desiderante ma -, captiamo anche la paura della morte (simbolica) del genitore, della chiusura, dello spegnersi del suo ruolo.

Il processo di riconoscimento da parte del genitore verso il diritto del figlio di trovare la sua dimensione desiderante, comporta la necessità dell’adulto di riscrivere il suo ruolo nel sociale, trovare per se stessi un nuovo desiderio, una nuova spinta alla vita. Il fallimento della dimensione del riconoscimento la troviamo in quelle mamme o quei papà che annullano la propria vita per farsi completamente carico dei bisogni dei figli (non del loro desiderio). Qui, in questa postura educativa, troviamo genitori che scandiscono le giornate dei figli secondo le lancette dell’orologio, attraverso corse spasmodiche tra piscina, lezione di pianoforte, ripetizioni di greco e latino. Qui troviamo la dimensione del “ti guardo” ma, in fondo, “non ci sono per davvero nella tua vita”. In fondo, un figlio chiede solo di essere riconosciuto nel suo desiderare.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF, 4. Bollati Boringhieri
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