Cosa porta a mettere in atto il suicidio?
In che modo, quali sono i costrutti e gli step, secondo la Three Step Theory di Klonsky & May (2015), che differenziano soggetti con ideazione suicidaria strutturata da persone che arrivano a operare una procedura comportamentale per mettere in atto un suicidio?
La risposta è infinitamente complessa e forse la risposta non c’è, soprattutto se si considera che il suicidio è un fenomeno multifattoriale, ovvero che si concretizza dalla interazione tra molteplici fattori.
La parola “suicidio” deriva dal latino sǔi (su se stesso) e caedĕre (uccisione), ovvero l’uccisione di se stessi e fa riferimento all’atto che Rosenberg (1988) definisce come “la morte derivante da un atto compiuto su di sé con l’intenzione di uccidere se stessi”. Il suicidio è attualmente uno dei più gravi problemi nella salute pubblica di tutto il mondo, classificata come una tra le prime cause di morte; non può essere ignorato e vi è la necessità di infrangere quel silenzio deleterio attuato quotidianamente (Pompili & Girardi 2015).
Tale fenomeno nel corso della storia ha attirato l’attenzione di filosofi, teologi, medici, sociologi e artisti che, uno dopo l’altro, hanno tentato di definire il concetto. Ad oggi, la nomenclatura dei comportamenti autodistruttivi è assai complessa, ma per maggiore chiarezza prenderemo in considerazione solamente i concetti principali: ideazione suicidaria e suicidio.
La differenza tra ideazione suicidaria e suicidio
L’ideazione suicidaria è caratterizzata da pensieri relativi all’inutilità della propria vita, a progetti concreti per porvi fine tramite la morte. Pavan (1991) la definisce come caratterizzata da “cognizioni che possono variare da pensieri fugaci riguardanti il fatto che la vita non meriti di essere vissuta, a progetti ben concreti di auto soppressione; situazioni nelle quali l’individuo ha l’idea di auto sopprimersi senza arrivare alla messa in atto dell’agito suicidario, con un grado variabile di intensità ed elaborazione”. Il suicidio mantiene la definizione di Durkheim (1897) secondo cui sarebbe “ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto dalla vittima stessa consapevole di produrre questo risultato”.
Parlando di valutazione di soggetti a rischio suicidario, punto di riferimento è il lavoro di Klonsky e May (2015). I due autori sostengono come la loro concettualizzazione “ideation-to-action” possa, e di fatto è così, contribuire notevolmente nella teorizzazione del comportamento suicidario, nella ricerca in tale ambito e soprattutto nella sua prevenzione. Da questa prospettiva, lo sviluppo dell’ideazione suicidaria e la sua progressione in procedura comportamentale di azione, hanno processi e spiegazioni distinte.
Three-Step Theory: una teoria sul suicidio
La teoria di Klonsky & May (2015), che prende il nome di Three-Step Theory e che affonda le radici nella teoria sul suicidio di Joiner (2005), tenta la separazione dell’ideazione suicidaria dalla sua progressione in azione, utilizzando per la spiegazione della diversità dei due processi, quattro fattori: dolore, disperazione, connessione e capacità di commettere il suicidio.
Tali fattori vengono indagati, per l’appunto, in 3 step o domande: are you in pain and hopeless? Is your pain greater than your connectedness? Are you capable of attempting suicide?
Il primo step
Il primo step inizia con il dolore (pain), considerato il primo indicatore verso l’ideazione suicidaria. Solitamente il dolore si riferisce al dolore psicologico o emotivo, ma non necessariamente. Per gli autori è intenzionale non specificare la natura del dolore, in quanto molti fattori possono influenzare il soggetto verso una diminuzione del desiderio di vivere, per esempio la sofferenza fisica (Ratcliffe et al., 2008), l’isolamento sociale (Durkheim, 1897/1951), il senso di scarsa appartenenza (Joiner, 2005), di sconfitta e intrappolamento (O’Connor, 2011) nonché autopercezioni negative (Baumeister, 1990).
L’inizio è quindi il dolore, indipendentemente dalla sua fonte (Klonsky & May, 2015). Tuttavia il dolore è necessario ma non sufficiente per produrre idee suicidarie: se qualcuno che vive nel dolore ha la speranza che la situazione possa migliorare, infatti, si concentrerà sull’ottenere un futuro migliore. Per questo motivo la disperazione (hopelessness) è un fattore fondamentale in questo modello poiché è solamente quando l’esperienza quotidiana del soggetto è caratterizzata da dolore e la persona si sente senza speranza, che la mente prende in considerazione il suicidio (Klonsky & May, 2015). In breve, la combinazione di dolore e disperazione è ciò che innesca l’ideazione suicidaria, primo step verso il comportamento suicidario.
Il secondo step
Il secondo step inizia con l’integrazione del concetto di connessione (connectedness), la quale molto spesso, in letteratura, viene riferita al legame con altre persone. Tuttavia, gli autori le attribuiscono un significato più ampio, riportando come il concetto possa estendersi anche all’attaccamento di una persona a un lavoro, a un progetto, al proprio ruolo, a qualche interesse o qualsiasi cosa dotata di scopo o avente un significato percepito, che porta il soggetto a investire nella propria vita. Il senso di connessione risulta importante perché, anche se qualcuno dovesse provare dolore e disperazione e potesse considerare l’idea del suicidio, l’idea rimarrà moderata (“a volte penso che potrei stare meglio se morissi”) piuttosto che forte (“mi ucciderei se ne avessi la possibilità”). Fintanto che la connessione alla vita è maggiore del proprio dolore e della propria disperazione, il soggetto non andrà oltre l’ideazione (Klonsky & May, 2015).
Il terzo step
Il terzo step riguarda la capacità di trasformare i pensieri in agiti, poiché gli autori vedono come fattore determinante la capacità (capability) di mettere in atto un tentativo di suicidio. Come sostiene Joiner (2005), infatti, le persone sono biologicamente ed evolutivamente predisposte per evitare dolore, lesioni e la morte, motivo per cui è estremamente complesso e drammatico tentare il suicidio, anche in presenza di forti idee suicidarie. Grazie al prezioso lavoro di Klonsky & May (2015) e all’ampliamento del lavoro di Joiner (2005), il concetto di capacità si può declinare in capacità acquisita, capacità disposizionale o genetica e capacità pratica.
- Capacità acquisita: fa riferimento all’abituazione di un individuo al dolore, alla paura e alla morte, attraverso l’esposizione a esperienze di vita negative.
- Capacità disposizioneale: fa riferimento a variabili rilevanti che sono guidate in gran parte dalla genetica, come la sensibilità al dolore; ad esempio (Czajkowski et al, 2011) si pensa che coloro che hanno una bassa sensibilità al dolore avranno maggior capacità di eseguire un tentativo di suicidio (Klonsky & May, 2015).
- Capacità pratica: racchiude i fattori concreti che facilitano un tentativo di suicidio, quali ad esempio la conoscenza e/o l’accesso a mezzi letali. La ricerca evidenzia come anestesisti e altri specialisti in medicina abbiano, per elevata capacità pratica, una maggior possibilità di portare a termine un suicidio.
La teoria di Klonsky & May (2015) suggerisce quindi che anche i fattori acquisiti, disposizionali e pratici contribuiscano alla capacità di porre fine alla propria vita.
Riconoscere i segnali di rischio suicidario con la Three-Step Theory
Sebbene ogni storia sia unica e irripetibile, esistono degli elementi comuni, ed è sul riconoscimento degli stessi che la comunità scientifica deve concentrarsi. In questo senso, l’elemento fondante è imparare a riconoscere i segnali di pericolo, e la Three-Step Theory (Klonsky & May, 2015) prende in considerazione 4 degli elementi chiave nell’assessment del rischio suicidario, già presenti, seppur chiamati diversamente, nella maggior parte delle teorie riguardanti la valutazione e la prevenzione del rischio suicidario.
Infatti, secondo Freud la pulsione di morte alla base dell’atto suicidario è diretta alla riduzione della tensione associata ai bisogni di sopravvivenza frustrati (Freud, 1920). Il ritorno alla quiescenza era già presente nel modello psicosociale di Shneidman (1993), padre mondiale della suicidologia: la volontà del soggetto di rimuovere dalla propria esistenza il “dolore mentale”, da lui denominato psychache, inteso come ricerca di soluzione, cessazione del dolore psicologico intollerabile, allontanamento dalla vita stessa tramite l’estrema fuga (Shneidman, 1993). L’idea di suicidio egoistico durkemiano pertanto sembra supportata: il soggetto ricerca la pace nella fuga da una società in cui non si sente integrato (Durkheim, 1952).
La disperazione è stata intesa, da un punto di vista sociologico durkemiano, come la sensazione di costrizione in una situazione dalla quale non si può uscire e l’unica via di fuga possibile è il suicidio (Durkheim, 1952; Floor, 2010). Inoltre la disperazione gioca un ruolo chiave anche nel modello di A.T. Beck negli studi condotti sulla Depressione Maggiore, secondo i quali le persone con tendenze suicidarie interpretano negativamente la loro situazione di vita, avvertono assenza di speranza e considerano il suicidio come unica soluzione (Beck et al., 1990). Dal punto di vista cognitivo, la caratteristica saliente del modello suicidario (Rudd et al., 2000) è il mediatore cognitivo, l’interpretazione soggettiva della realtà, dominata da mancanza di speranza rispetto a sé, al mondo ed al futuro. Tuttavia, a sua volta, il concetto di disperazione è un costrutto molto ampio e complesso, che può guidarci, nel lavoro clinico con il paziente, soltanto se soggettivamente approfondito.
L’ipotesi circa il ruolo protettivo del senso di connessione è stato analizzato anche da Litman (1963) nel trattamento per il rischio suicidario mentre per quanto riguarda il costrutto di capacità, se per “capacità” si intende l’insieme di fattori biologici, genetici e ambientali che portano il soggetto a una maggiore predisposizione al tentativo di suicidio, non si può non fare riferimento alla sovrapposizione dei 5 domini di Blumenthal (1988), alla predisposizione dissociativa di Orbach (1996), alla modalità suicida di Rudd (2006) e al più recente concetto di “schemi disadattivi” di Wenzel & Beck (2008).
In conclusione, il suicidio è una perdita del potenziale umano, una perdita di amore e intimità, una perdita di creatività e speranza, una perdita della preziosità della vita. Piuttosto che porre fine alla sofferenza emotiva, il suicidio si trasforma in qualcosa di diverso, un nuovo tipo di sofferenza, è un’eredità del dolore e della perdita (Shneidman, 1993) e solo imparando a riconoscere i fattori predominanti all’interno di questo triste processo, possiamo tentare di prevenirlo.