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Il suicidio: una lettura storica

Attorno al fenomeno del suicidio vi sono molte credenze, come sono cambiate nella storia e nelle diverse culture?

Di Gioacchino Mazzola, Giorgia Flammia, enricoroccodimaio, Serena Giunta

Pubblicato il 17 Gen. 2024

La tematica del suicidio

Il suicidio e la sua prevenzione costituiscono un tema rilevante, al quale non sempre l’ambito sanitario ha dato la necessaria rilevanza. Le cifre del fenomeno sono impressionanti se si considera che circa un milione di persone ogni anno muore per suicidio e che a livello mondiale negli ultimi 45 anni si è assistito a un incremento del 60%; se a questi dati si aggiungono quelli relativi ai tentati suicidi il numero finale va aumentato fino a 20 volte. 

Attorno a questo fenomeno vi sono molte credenze che non sempre hanno fondamento scientifico o un riscontro epidemiologico. Quello che caratterizza il fenomeno è che il soggetto vive una condizione di dolore insostenibile e per rispondere alla quale il gesto anticonservativo è visto come la soluzione perfetta. Il “dolore mentale”, così come definito da Edwin Shneidman, è l’elemento portante del suicidio che viene percepito come unica strada per allontanarsi da tale condizione: in quest’ottica il suicidio non è un andare incontro alla morte ma un allontanarsi da un’angoscia senza fine. La presenza di un disturbo psichiatrico pregresso costituisce solo una delle dimensioni del fenomeno ma non è una condizione sufficiente per condurre un soggetto al suicidio, tant’è che oltre il 50% dei pazienti psichiatrici non ha mai tentato il suicidio.   

Le origini del termine suicidio

Dal punto di vista storico il termine suicidio è abbastanza giovane, viene inserito nel 1752 nel dizionario francese di Trevoux. Sebbene sembrerebbe essere una parola composta dal pronome latino “se” e il verbo “uccidere” in realtà i romani utilizzavano espressioni come “procurarsi la morte” (mortem sibi consciscere) o “usare violenza contro se stessi” (vim sibi inferi). L’idea, tutta occidentale, che il suicidio sia, in qualche maniera, un prodotto della civiltà, trova le sue radici nel mito del buon selvaggio del filosofo Jean-Jeacques Rousseau (1712-1778). Diverse prove dimostrerebbero la fallacia di tale idea: il fenomeno era presente in numerose tribù primitive indifferentemente dalla loro collocazione geografica dall’America del nord agli indonesiani, dal pacifico occidentale agli africani. 

Dal punto di vista sociologico, il suicidio può essere distinto in quello sociale o individuale. Un esempio del suicidio sociale è quello rappresentato in alcune tribù di eschimesi dove anziani e malati agivano l’atto anticonservativo per contribuire alla sopravvivenza del gruppo; altro esempio è quanto avveniva in alcune isole al largo della nuova Guinea dove il suicidio era un modo socialmente codificato per esprimere la rabbia e agire una vendetta quando si veniva accusati di aver infranto un tabù tribale. Di contro il suicido individuale è stato a volte codificato anche come uno strumento per fuggire ad un dramma, per non cadere in mani nemiche preservando il proprio onore. 

Il suicidio dall’antico Egitto al mondo greco-romano e all’Oriente

In ogni caso differenti culture, nel tempo, hanno assunto uno specifico atteggiamento nei confronti del fenomeno: nell’antico Egitto, ad esempio, il fenomeno, visto come una forma di fuga da un disagio non più sostenibile, era accolto con una certa neutralità, forti della convinzione che la morte altro non fosse che il passaggio ad un’altra vita. 

Differente lettura era quella degli ebrei per i quali l’operato di Dio, di cui loro erano il popolo eletto, non doveva essere valutato mai negativamente e quindi il suicidio poteva essere solo considerato come azione di un folle; ad onor del vero non mancavano delle deroghe codificate. Nel caso in cui si verificassero eventi che costringessero a rinnegare la propria fede, allora il suicidio era considerato come una soluzione possibile. In ogni caso, nei testi sacri per il popolo ebreo nei non vi sono esplicite condanne o proibizioni: il vecchio testamento riporta sette casi di suicidi.

Presso i greci e i romani il concetto di onore era molto forte e il suicidio era una possibile soluzione al disonore che poteva essere anche legato, ad esempio, alla cattura in guerra. Anche l’amore non ricambiato o la morte di una persona cara potevano essere alla base dell’estremo atto. 

Nel mondo ellenico non mancarono episodi famosi: la cicuta, introdotta nel 403 a.c fu data a Socrate nel 399 a.c come trattamento di favore. Seneca invece considera il suicidio come ultimo rimedio contro una non più sostenibile sofferenza. Presso i romani il suicidio non era incoraggiato sebbene in alcuni dei Senati la cicuta veniva messa a disposizione qualora venisse fornito un valido motivo. 

Anche dal punto di vista legislativo si è assistito ad un cambiamento nel mondo romano nel quale si passò dalla conservazione dei beni del suicida a una loro confisca. 

Con l’avvento del cristinesimo l’approccio cambiò con una forte condanna del gesto anticonservativo, anche se nel primo periodo dell’era cristiana il suicidio, quando legato al mantenimento della propria fede, era considerato atto ammirato e perseguito anche dai primi martiri. Già nel quarto secolo Sant’Agostino ribadì i principi contro il suicidio e la sofferenza come strumento per avvicinarsi a Dio che è l’unico che può donare e togliere la vita. Un’ulteriore stretta, relativamente alla posizione del cristianesimo sul suicidio, fu quella ad opera di San Tommaso d’Aquino che definì il suicidio come peccato mortale poiché tendente a togliere il potere di Dio sulla vita. Stesso atteggiamento, peraltro, che si riscontra nel mondo islamico.

In oriente le posizioni sono state differenti: l’harakiri, originariamente concesso come pratica ai samurai in alternativa alla condanna a morte in caso di colpe, nel tempo venne adottato anche per motivazioni differenti e non era più esclusivamente riservato ai guerrieri. 

Nella religione indù il suicidio ha avuto una valutazione non sempre coerente: non accettato in determinati casi e approvato in altri, si pensi all’auto immolazione della vedova dopo la morte del marito. 

Ritornando in occidente con la riforma e le nuove dottrine introdotte da Lutero e da Calvino, il valore personale e della vita venne amplificato e il suicidio considerato come atto biasimevole. Non mancarono certo pensatori come Montaigne e Burton che mostrarono un atteggiamento più caritatevole rimettendo a Dio il compito di valutare l’atto. 

Il suicidio dal ‘600 al ‘900

È solo nel 1637 che John Sym, nella sua opera “Lives preservatives against self killing” (1637), mette in evidenza segnali predittori del suicidio, tra questi: un’insolita solitudine, una modifica comportamentale e una tendenza a tralasciare i propri doveri. Nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo i suicidi venivano giudicati e, nel caso in cui venissero considerati colpevoli, ossia nel caso in cui si riconoscesse loro la pienezza delle facoltà mentali del deceduto, questi erano assimilati ai criminali, i loro averi passavano al re e le loro salme non potevano godere di alcun rito sacro. 

Il periodo industriale portò con sé l’identificazione del suicidio con la malattia mentale ipotizzata come condizione necessaria del gesto anticonservativo. Accanto a questa convinzione non si può non rilevare come le numerose crisi economiche dell’epoca siano state accompagnate da un aumento dei suicidi. 

Nel XVIII secolo, ad opera del filosofo scozzese David Hume, viene messa in dubbio l’idea che il suicidio sia un crimine contro Dio, contro se stessi e contro la società. Lo studioso argomenta tali affermazioni considerando che il suicidio non è un crimine contro Dio, perché se l’uomo ha la facoltà di togliersi la vita, questa facoltà gli è stata data dal creatore; non è un crimine contro la società perché se è vero che con il suicidio si determina un ritiro dalla vita sociale a questa non si reca alcun danno se non in termini residui di mancato bene; infine non è un crimine contro di sé perché nessun uomo rinuncerebbe alla propria vita se fosse degna di essere vissuta.  

Durante il romanticismo, il suicidio ebbe una duplice lettura: accanto alla sua visione come risposta a una visione cupa del mondo, continuava a persistere il concetto secondo cui il dolore e la sofferenza erano uno strumento per rendere la persona migliore.

Nell’ottocento l’atto suicidario è stato spesso associato alla follia: Osiander (1813) addebita l’atto anticonservativo all’esito di una debilitazione del cervello. Anche Farret (1822), nei fatti, considera il suicidio un’espressione della follia. Una voce discordante, per quel periodo fu quella di De Boismont per il quale le cause del suicidio andavano ricercate in due direzioni: cause predisponenti e determinanti. Tra le prime annoverò fattori quali il sesso, l’età, lo stato civile, e tra le seconde problemi familiari, povertà, miseria e malattia (non necessariamente di tipo psichiatrico). Non mancò il contributo italiano con il pensiero di Morselli, che riteneva il suicidio una conseguenza della lotta per la vita. Durkheim lega all’organizzazione della società l’atto suicidario e ne distingue due tipi: quelli “egoisti”, nei quali il soggetto si sente alienato e separato dalla società, e quelli “altruisti”, nei quali si riscontra un’eccessiva identificazione con la società tanto da giustificare il proprio gesto come sacrificio per un bene collettivo maggiore. 

Bisogna attendere la metà del novecento affinché il fenomeno del suicidio sia scientificamente affrontato anche attraverso gli strumenti che il pensiero psicoanalitico aveva nel tempo affinato: è del 1920 la teorizzazione della pulsione di morte da parte di Freud. 

Menniger (1938) a partire da questa teorizzazione identificò tre elementi rintracciabili negli agiti autodistruttivi: la volontà di uccidere; il desiderio di essere ucciso; il desiderio di morire. 

Una svolta importante fu quella data da Shneidman (1949), che a partire dallo studio delle note dei suicidi, contenute nei loro fascicoli, avviò un vero e proprio studio mettendoli a confronto con note scritte da persone che non avevano tentato il suicidio. La concettualizzazione dello psicologo clinico statunitense ruota attorno all’idea portante che il suicidio è il tentativo di porre fine a un tormento, a un dolore psicologico insopportabile. Un suo importante contributo fu l’introduzione dell’autopsia psicologica, ossia un’intervista condotta sui familiari e sui sanitari che avevano in cura il suicida, al fine di rilevare dati di natura psichiatrica e psicologica (presenza di agitazione, perdita di appetito, cambiamento delle abitudini o verbalizzazioni circa la crescente difficoltà di vivere). 

Il suicidio è un fenomeno complesso nel quale le singole variabili (ad esempio la presenza di un disturbo psichiatrico) non sono sufficienti a spiegare il fenomeno, che per sua natura è multifattoriale. 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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