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Quando la normalità diventa anormale: il caso dei “normotici” 

Nei soggetti normotici l’esigenza primaria è volta a mantenere un pedissequo conformismo, annullando nella troppa normalità il Sé individuale

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 04 Apr. 2023

Aggiornato il 07 Apr. 2023 12:57

È questo il nucleo patologico del normotico: non riuscire a distaccarsi da un eccesso di normalità con il quale contamina ogni aspetto della sua esistenza.

 La credenza collettiva associa al concetto di normalità un’accezione prettamente positiva, identificando in essa caratteristiche affini al benessere, alla tranquillità, al buon vivere civile. È normale ciò che è giusto, socialmente adeguato, conforme alla legge e alla prassi consolidata. Alla normalità si accompagna un senso di sicurezza, che mette al riparo da sensi di colpa, minaccia ed estraneità, dovuto alla convinzione di aver compiuto il proprio dovere. Di converso, allontanarsi da comportamenti collettivamente approvati costringe a confrontarsi con una dimensione non conosciuta e potenzialmente stigmatizzante. Conseguenza particolarmente critica, quest’ultima, soprattutto per certi individui che avvertono con intensità maggiore il bisogno di adeguarsi alle regole sociali, per non violare quell’accettabile livello di conformismo che li fa sentire parte di un gruppo.

Ma in certi casi l’adeguamento sociale può diventare un pensiero ossessivo, un dovere al quale non si può derogare, e non soltanto per una questione di buon vivere civile: essere e sentirsi normali si tramuta in una condizione indispensabile alla sopravvivenza.

È il caso dei c.d. normotici (Bollas, 1989).

“Malati” di normalità: chi sono i normotici

La psicologia considera patologico un eccesso di normalità. È Bollas, (1989) nel suo testo “L’ombra dell’oggetto”, a definire normotica una dimensione esistenziale in cui la normalità diventa l’espressione sintomatica di un disagio, data la connotazione di rigidità compulsiva con cui viene applicata. In un simile contesto la normalità perde le proprie connotazioni funzionali e degenera in un fattore patologico tutt’altro che adattivo, risultando unicamente finalizzato all’elusione dell’identità individuale.

Nei soggetti normotici l’esigenza primaria è volta a mantenere un pedissequo conformismo, un’adesione ai canoni del comportamento sociale necessaria a sentirsi inseriti in una massa nella quale si identificano totalmente, annullando in essa il Sé individuale. Si verifica così un’abdicazione – totale ed egosintonica – del proprio nucleo identitario, che va a confluire in un coacervo indifferenziato in cui ogni elemento soggettivante perde valore e riconoscibilità, per venir sacrificato alla causa di un’omologazione indiscriminata (MacDougall, 1992).

Una persona normotica è “anormalmente normale”: troppo stabile, sicura, tranquilla ed educata. Sempre di buon umore, senza passioni particolari, equilibrata perché priva di emozioni e attenta ai soli aspetti materiali dell’esistenza. Agli oggetti, che colleziona in una routine rassicurante proprio perché inflessibile. Immutabile. Sempre uguale e se stessa.

Il normotico si immerge inconsapevolmente in una dimensione di vita banale e prosaica, improntata all’agire più che al fare, al compiere più che all’elaborare, all’imitare più che al creare (Bollas,1989; Mac Dougall, 1992).

Giovacchini (1972) parla a ragione di Sé vuoti, personalità organizzatrici in grado soltanto di raccogliere, enumerare, collezionare dati di fatto. Egli non crea comportamenti, piuttosto li imita. Non decide, non crea, non agisce. Più che vivere esegue la vita, muovendosi all’interno di scenari stereotipati costruiti ad hoc, sulla base di esperienze che si limita a mutuare dagli altri, in una volontà emulativa dietro la quale cela una nudità di intenti e di pulsioni.

Tutto è programmato, tutto è meccanizzato nella sua condizione vitale: all’inizio di ogni giornata sa esattamente cosa mangerà, come si vestirà, quali acquisti effettuerà, nel timore di andare incontro ad una perdita di controllo che potrebbe destabilizzarlo. Le sue condotte non si discostano, in contenuti e orientamenti, da quelle della collettività: lavorare, sposarsi, fare figli, ma anche semplicemente fare acquisti o andare in vacanza, sono azioni che compie sotto l’influenza di una richiesta sociale cui si adegua adesivamente, in ottemperanza ad un istinto di emulazione che lo invade senza riserve.

Vivendo sulla scia delle opinioni e delle azioni altrui, egli costruisce un modello comportamentale parassitario che attinge passivamente da ciò che la maggioranza ha compiuto prima di lui. È il comportamento degli altri a designare l’andamento del proprio, così da rendere ogni sua decisione, anche apparentemente riflettuta, la mera replica di abitudini socialmente consolidate. Per questo non matura opinioni o punti di vista autonomi, preferendo utilizzare frasi fatte, espressioni di convenienza, luoghi comuni condivisi dalla massa, dai quali è sicuro di ricevere facile approvazione.

Egli rifugge il pensiero, la vita onirica, la dimensione emotiva e persino le pulsioni aggressive – non si arrabbia facilmente –  lasciandosi inghiottire in un vortice di ovvietà privo di stimoli.

Per quanto cortese e ben educato, è un interlocutore assolutamente banale. Se si ammala si preoccupa più di cercare informazioni concrete che una cura alla malattia, se perde qualcuno di caro si consolerà dicendo che prima o poi a tutti tocca morire. Parlando del tempo dirà probabilmente che non ci sono più le mezze stagioni, se accade una tragedia dirà che gli dispiace, ma si sa, in fondo, che certe cose non si possono evitare, se c’è una crisi dirà che tutti attraversiamo, in fondo, degli alti e bassi.

Il suo linguaggio si mostra in linea con questo connotato di impersonalità, essendo costruito su parole svuotate di ogni significato simbolico, per divenire la rappresentazione stereotipata di termini meccanici privi di ispirazione. Le conversazioni vengono ridotte così a cortesi scambi di convenevoli, inconsistenti e privi di contenuti saturanti, la replica avvilente di espressioni già dette (Bollas, 1989).

E se mai si arrischia a produrre un pensiero meno artificiale, è solo in conformità a quel mondo inautentico che lo ispira. Dunque può chiedersi cosa può fare per risultare più uguale agli altri, cosa può comprare per sentirsi nella norma, o con quali beni materiali può riuscire ad acquietare la sua insaziabile sete di normalità.

È capace di trascorrere ore all’interno di supermercati, magazzini, negozi colmi di quella concretezza che riempie il suo vuoto esistenziale e lo avvolge in una sorta di reverie, piacevole e tuttavia superficiale, come è superficiale l’ammirazione che prova verso oggetti di cui può apprezzare soltanto l’aspetto estetico – e che alla fine deciderà di acquistare non per il loro valore intrinseco o per l’utilizzo che potrà farne, ma soltanto per la loro gradevolezza estetica, o per la capacità che avranno di farlo sentire più uguale agli altri.

Incapace di vivere i propri stati soggettivi, egli manca di fantasia e di capacità rappresentativa. Per lui esiste solo ciò che riesce a percepire con i canali sensoriali. Un colore è un colore, una forma è una forma. Non c’è nulla oltre a ciò che può essere visto o toccato. Nulla riesce a scalfire la superficialità dietro cui si trincera, e che lo rende capace soltanto di imitare, di riprodurre, poiché teme letteralmente di creare qualcosa di esclusivamente suo.

…Vi sono persone che possono essere malate in senso psichiatrico per uno scarso senso della realtà. per equlibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da esser malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà (Winnicott, 1971, pp. 121-122).

Il normotico è “straordinariamente vuoto” (Bollas, 1989). Così non esiste nulla che gli appartenga davvero: il suo stesso Sé diventa il mero prolungamento di una massa dominante, rappresentata come un oggetto superegoico che punisce ogni velleità differenziante, e il Sé dell’altro perde ogni valenza individuale per venir inserito all’interno di questa massa informe, nella quale lui stesso si dissolve alla ricerca di un rifugio, un’imago paterna idealizzata che protegge e rassicura dalla terribile “minaccia identitaria”.

Incapace di realizzare, ma anche di desiderare qualcosa di più profondo, egli si sente in dovere di ritrarsi ogniqualvolta un legame sociale rischia di valicare quel confine di normale conoscenza che tanto lo rassicura, facendolo sentire nulla più di un’identità mescolata in mezzo a tante altre.

Non c’è dunque da stupirsi se non riesce a costruire amicizie e neppure inimicizie. Un pensiero ossessivamente conformistico lo preserva dallo stesso concetto di invidia, intesa come quella pulsione di odio distruttivo che spinge a desiderare i beni altrui per sentirsi ed apparire migliori. L’invidia presuppone infatti il riconoscimento di un confine tra il Sé e l’oggetto invidiato, e soprattutto implica la consapevolezza di un Sé narcisistico che ambisce ad emergere, a superare gli altri in potere e dominio (Klein, 1957).

 Al contrario il normotico non vuole apparire migliore di nessuno. Vuole essere come gli altri. Nulla di più, né di meno. Il suo desiderio non è ispirato da un narcisismo autocompiacente, ma soltanto alla volontà di lasciarsi inghiottire in un vuoto privo di identità che, avviluppandolo, lo rassicura, mettendolo al riparo da quell’elemento creativo imprescindibilmente connesso alla vita.

La sua è un’esistenza massificata, in cui la massa non rappresenta soltanto una parte del Sé, ma è lo stesso Sè, in una sovrapposizione patologica che impedisce la relazione oggettuale e la simbolizzazione, rendendolo ostaggio di una bidimensionalità ontologica, epistemofilica ed emotiva.

Più che alla norma, il normotico è fedele alla normalità. E in questo “cimitero dell’immaginario” la normalità la sua unica legge.

L’origine del non Sé normotico. L’infanzia e i genitori

La nudità identitaria del normotico rappresenta il retaggio di una disfunzionalità dell’ambiente evolutivo, originata da un oggetto genitoriale incapace di costruire una dimensione relazionale sintonizzante, in cui l‘emozione viene conosciuta, riconosciuta e soprattutto ricambiata. Se la nascita del Sé non può prescindere da una intersoggettività funzionale, è infatti ovvio come la presenza di legami emotivamente inconsistenti provochi il consolidarsi di un Sé altrettanto vuoto, una sorta di contenitore senza contenuto, in cui ogni potenzialità o sfumatura creativa viene abortita da istanze siderate e sideranti (Bowlby, 1988; Stern, 1992; Stern, 1987).

La madre del bambino normotico non mostra verso di lui alcuna tensione desiderante. Non lo fa sentire presente all’interno della propria mente, mostrandogli una partecipazione affettiva costruita sulla mera esteriorità e priva di una reale partecipazione empatica. Lo sguardo vede ma non riconosce, l’abbraccio tiene e non riscalda, l’holding non contiene. Sorrisi e carezze, ove presenti, vengono semplicemente eseguiti, mancando di ogni connotazione empatica (Fava Vizziello, Stern, 1992; Stern, 1979).

Tuttavia il genitore normotico non è totalmente assente, né il suo atteggiamento può essere definito maltrattante, perlomeno non nel senso più distruttivo. È più corretto affermare che egli oggettivizza il figlio, gratificandone soltanto i bisogni materiali. Molto probabilmente se ne prende cura, ma lo fa attraverso condotte stereotipate, meccanizzate, prive di ogni identità affettiva, ispirate da parametri educativi in linea con una personalità prosaica in cui i bisogni affettivi e di vicinanza vengono totalmente ignorati, pur senza nessun intento sadico o dispregiativo.

La cosa di cui si preoccupa di più è che il bambino sia normale, e non vuole che si comporti in modi che possano essere interpretati come strani o irregolari, e per questo diverso dagli altri (Bollas, p. 121).

Il genitore normotico costruisce una genitorialità coerente con il proprio Sé: in altre parole, è genitore nel solo modo in cui riesce ad esserlo. Così non è per noncuranza se non interagisce con le invenzioni del figlio, se non partecipa responsivamente ai suoi giochi, se non nutre una dimensione immaginativa da cui può originarsi il pensiero simbolico. Se di fronte ad una sedia egli dirà semplicemente questa è una sedia….elaborando una biblioteca di oggetti concreti e senza identità (Bollas, 1989, p. 127); è soltanto perché egli stesso non riesce ad oltrepassare il confine di una mera esteriorità valutativa, né può ammettere che esista un’altra realtà al di là di quella materialmente percepita.

L’inosservanza del codice emotivo è assoluta. Ma ad ispirarla non è la compiacenza adesiva che ritroviamo nel Falso Sé, in cui un nucleo identitario, per quanto schermato da una dimensione difensiva fittizia, è comunque presente (Winnicott, 1971). Nel caso del disturbo normotico il Sé fa difetto in toto, essendo stato abortito da un sabotaggio inconsapevole – un attacco al Sé, secondo la definizione di Bollas – con cui il genitore ha scotomizzato la dimensione emotiva dalla vita del figlio, impendendogli di riconoscerla in se stesso e negli altri. Le emozioni sono state così svilite alla categoria di oggetti, elementi beta evacuabili unicamente a mezzo di condotte alessitimiche e acting out, come escreto di un disagio non verbalizzato e non riconosciuto perché neppure pensato ( Ogden, 2016).

Lo stile educazionale, all’interno di una famiglia normotica, è in linea con un ossessivo rispetto della normalità e dell’apparenza: ci si comporta bene soltanto se si fa quello che fanno gli altri, stando bene attenti a non distinguersi da nessuno.

L’ossequio a questa dimensione omologante è anche la condizione per ricevere l’apprezzamento dei genitori: ed è questo aspetto che contribuisce a conferire alla normalità una connotazione superegoica, trasformandola in un legislatore interno da cui far dipendere la stessa dimensione di autostima.

Il bambino si sente in pace con se stesso soltanto ove avrà ottemperato fedelmente il codice normotico che ha appreso. La sua massima aspirazione è quella di essere considerato, dagli adulti e dai pari, una persona amabile e cortese, di cui fa piacere essere amici e di cui tutti hanno una buona opinione. Qualcuno di normalmente buono, normalmente piacevole, normalmente intelligente (Bollas, 1989). Tutto quello che oltrepassa questa banalità depauperante viene rifuggito come una minaccia.

Ad un simile “affollamento” di concretezza consegue la totale assenza di oggetti affettivi, intesi come entità cui relazionarsi tensivamente. Al bambino normotico non vengono forniti modelli affettivi da introiettare, ma soltanto da imitare esteriormente, per rispecchiarne il riflesso nella propria superficie. Trattato come un oggetto, alla fine lui stesso si percepisce come tale, e come tale si presenta al mondo, elencando le proprie doti come se si trattasse di beni da annoverare e di cui far bella mostra per convincere gli altri del proprio status di normalità. E sono questi stessi modelli che una volta adulto trasmetterà al proprio figlio, dando vita ad un circolo vizioso transgenerazionale in cui la tridimensionalità viene soppiantata da un bidimensionale senza spazio in cui nulla può essere realmente contenuto.

La vita del normotico diventa così il mero riflesso di se stessa. Il banale replicarsi di contenuti decisi da qualcun altro e presi in prestito solo per essere imitati.

La fuga dalle profondità del Sé come angoscia di separazione

L’intuizione di Bollas ha consentito di identificare un concetto di normalità anormale, perché inflessibile ed invasiva. Ed è esattamente questo il nucleo patologico del normotico: non riuscire a distaccarsi da un eccesso di normalità con il quale contamina ogni aspetto della sua esistenza, finendo col trincerarsi dietro un artificialismo in cui l’elemento differenziante ostacola il mantenimento di un equilibrio intra ed interindividuale (Pesare, 2016).

Il riconoscimento del nucleo identitario potrebbe comportare l’allontanamento dai propri confini psichici, e con esso la traumatica scoperta del non Sé. Dunque viene rifuggito. Questo non soltanto comporta l’impossibilità di costruire relazioni con il Sé e con l’altro, ma impedisce anche una lettura del proprio mondo emotivo che, totalmente scotomizzato nei suoi aspetti più autentici, viene sostituito da una materialità compensativa, posta in essere al solo fine di difendersi dalla minaccia di scoprire il Sé autentico. Quello che differenzia gli uni dagli altri, rendendo unici.

Ma al di là della fuga dal proprio nucleo identitario, dietro questo disturbo potrebbe celarsi un’arcaica angoscia di separazione, una solitudine non addomesticata in cui la vicinanza con l’altro, inteso come massa non personificata, consente di sentirsi parte di un gruppo onnipotente, una sorta di genitore idealizzato che custodisce e guida, pur a scapito del Sé individuale e di ogni istanza narcisistica.

L’affiliazione, che in un utilizzo funzionale contribuisce alla costruzione di un buon adattamento sociale, in questo caso viene svilita ad omologazione desertificante, finalizzata non a rafforzare, ma ad annullare il Sé (Madeddu e Lingiardi, 1999).

La fuga nell’apparenza come “non pensabilità” del mondo emotivo

Il disturbo normotico è piuttosto trascurato per la sua attitudine a celarsi dietro atteggiamenti conformistici considerati, per l’appunto, “normali” (Winnicott, 1965). È difficile riconoscere un normopatico in una persona che agisce esclusivamente sulla base dell’agito altrui. È più facile scambiarlo con qualcuno che segue la moda e le tendenze del momento, un soggetto sensibile all’adattabilità sociale o caratterialmente tendente ad omologarsi alla maggioranza, ma senza nessun significato patologico.

In una società come quella attuale, votata al rispetto di canoni estetici oggettivanti e all’osservanza di un perfezionismo idealizzante, è anzi la mancata osservanza di condotte socialmente approvate ad essere considerata fuori dal normale, e per questo patologica.

Il culto della normalità post moderna è indubbiamente legato al rispetto di una dimensione in cui l’apparire conta più dell’essere, e spesso si sostituisce a quest’ultimo, riducendo l’esistenza al riflesso di qualcosa che può essere soltanto visto, ma non afferrato. Ed è possibile che dietro questa fame di esteriorità si celi l’esigenza difensiva di nascondersi negli altri per sfuggire a se stessi, ed evitare il confronto con un’emotività minacciosa perché priva di un’apparenza percepibile. L’iperinvestimento compensativo nell’esteriorità potrebbe così rappresentare l’effetto degenerato di una società meramente apparente, spaventata da una profondità che teme di esprimere ma ha il coraggio cancellare.

Il normotico richiama l’immagine dell’“uomo senza lacrime” che, non essendo capace di piangere il proprio dolore psichico, lo soffoca al di là di meccanismi artificialmente acquisiti, arrendendosi ad un’avvilente superficialità che lo appaga e lo rassicura (Pesare, 2016). Terrorizzato dal buio di un’interiorità inconoscibile egli si rifugia nel fulgore illusorio della luce esterna, accettando di percorrere sentieri già battuti, di cui altri hanno deciso il nome e la direzione. Il suo nucleo mortifero sembra allora prendere vita, tingendo di colori sbiaditi un’esistenza che potrebbe scoprire l’arcobaleno, ma si accontenta del bianco e nero.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bowlby, J. (1988) Una base sicura: Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento. Milano, Raffaello Cortina
  • Bollas, C. (1989) L’ombra dell’oggetto, Psicoanalisi del conosciuto non pensato,  Raffaello Cortina, Milano;
  • Fava Vizziello, G. Stern, D.N., (1992) Dalle cure materne all’interpretazione, Raffaello Cortina, Milano;
  • Freud, S. (1919) Introduzione al narcisismo, OSF, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Giovacchini, P.L. (1972), The blank self, in Tactics and Techniques in Psychoanalytic Therapy, Hogarth, London;
  • Klein, M. (1957)  Invidia e Gratitudine, Giunti Firenze;
  • MacDougall, J. (1992) Plae for a measure of abnormality, Brunner- Mazel, London;
  • Madeddu, F. Lingiardi, V. (2002) I meccanismi di difesa: teoria e valutazione clinica, Raffaello Cortina, Milano;
  • Ogden, T.H. (2016) Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano;
  • Pesare, M. (2016) Il Soggetto senza lacrime: la personalità normotica come metafora psicopedagogica dell’impensabilità del mondo emotivo.
  • Stern D. (1979) Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Armando, Roma;
  • Stern, D. (1987) Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Winnicott, D.W. (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970;
  • Winnicott, D.W. ( 1971) Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.
  • Quando la normalità diventa normopatia.
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