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Sintomi della normalità. Mente e mentalità dell’epoca contemporanea (2021) – Recensione

Come spiegato in 'Sintomi della normalità', il cambiamento linguistico riflette una scarsa attitudine ad andare oltre ciò che automaticamente viene fornito

Di Cristi Marcì

Pubblicato il 16 Gen. 2023

Nel libro “Sintomi della normalità”, edito dalla casa editrice milanese Mimesis, l’autore Fabio Monguzzi offre, a chi scelga di leggerlo, una descrizione approfondita del mondo contemporaneo e di ciò che lo caratterizza, con una panoramica di quegli stili comunicativi che in maniera implicita e spesso automatica (da troppo tempo) sembrano imporre le azioni che ciascuno di noi si trova a compiere nel quotidiano.

 

 Introducendo un’analisi retrospettiva sotto il profilo sociologico e antropologico, vengono evidenziati quei cambiamenti nevralgici inerenti all’area tecnologica, economica e culturale capaci di offrire al lettore una nuova chiave di lettura rispetto alla quale il tempo inizia ad assumere una fisionomia capace di assorbire le nostre vere predisposizioni, sottoposte al vaglio del giudizio esterno.

L’autore pertanto, pagina dopo pagina, sembra offrire la possibilità di prendere coscienza, ma ancor più consapevolezza, circa quella responsabilità che ognuno di noi non solo dovrebbe riscoprire, ma che di contro rischia di glissarsi a favore di quelle leggi normative emanate da una società alla quale abbiamo delegato il permesso, se non il diritto, di privarci della nostra parola. Soppiantata da regole socio culturali in grado di insinuarsi nella propria sfera intima e privata. Influenzando le nostre relazioni, il proprio modo di stare con noi stessi e ancor più il nostro stile comunicativo. Eliminando quel dialogo interiore che purtroppo rischiamo pian piano di perdere, di dimenticare. Ma che più di ogni altra cosa caratterizza la nostra autenticità.

A ciascuno di noi spetterebbe dunque il gravoso compito di non cedere a quella pigrizia linguistica dove tutto è già stato scelto, bensì di dar vita a quelle creature viventi, dalle quali non dovremmo mai smettere di lasciarci guidare.

Il cambiamento linguistico dunque sembra riflette non solo un mutamento storico e al contempo cognitivo, piuttosto uno stile unilaterale connotato da una scarsa attitudine a saper andare oltre quello che automaticamente viene fornito sotto forma di risposta. Confermando in tal modo la presenza di uno stato mentale privo di quella autenticità in grado di farci scegliere cosa sia realmente idoneo alla nostra persona.

Un grande contributo sembra peraltro provenire da un tempo non troppo lontano dal nostro, rispetto al quale una persistente afasia caratterizza e deteriora sempre più le nostre capacità comunicative che, se un tempo erano adornate di “un gergo ricco di invenzioni quasi poetiche a cui contribuivano tutti giorno per giorno, una parola imprevista era il preludio di una meravigliosità linguistica”, oggi al contrario sembrano dover fare i conti con l’imprevedibilità (Pasolini, P, P., 1975). Secondo l’autore quest’ultima altro non rappresentava se non una chiave in grado di promuovere il giusto equilibrio tra il senso di stupore e la curiosità per il mistero; che seppur non conosciuto rappresentava tuttavia qualcosa verso cui rivolgere uno sguardo privo di schemi prestabiliti. La realtà secondo Pasolini era il frutto di una rappresentazione simbolica ove il concetto di limite sembrava non intaccare la propria economia psichica.

Oggi, al contrario, la predisposizione all’imprevedibilità sembra non trovare una sua collocazione all’interno della normale vita quotidiana, poiché sembra aver ceduto il posto ad un controllo eccessivo in cui le nostre emozioni, le nostre relazioni e ancor più il proprio modo di dar vita alle parole che ci abitano, rischiano di sgretolarsi in funzione di un predominio esterno alla nostra natura autentica.

L’automatismo linguistico rischia così di essere adornato di quella normalità che secondo l’autore può sancirne l’esistenza, legittimando così il suo uso distorto, perverso e privo di quella spinta che oggigiorno si scontra con una censura poco disposta a spendere qualche parola in più!

 Allo stato attuale dunque il linguaggio sembra aver perso quella profondità e quella unicità quali validi promotori di emozioni, sentimenti e vissuti esperienziali in sintonia con quanto di più profondo ci abita. Il linguaggio parlato e scritto sembrano aver vissuto un radicale cambiamento, poiché quello che più ci caratterizza si trova a fare i conti con “i codici di significato automatici socialmente accettati” (Monguzzi, F., 2021). Ciò significa che le modalità espressive si trovano incanalate in quei vettori unilaterali e sempre pronti a tradurre il loro contenuto sulla base delle richieste provenienti dall’esterno; uno spazio (quest’ultimo) che sembra soppiantare le “connotazioni soggettive”. Questa funzione, dunque, sembra essersi tramutata in un fragile mezzo attraverso il quale comunicare non tanto quello che realmente sentiamo di esprimere, quanto piuttosto rispondere automaticamente e in maniera prevedibile dinanzi a quanto ci si aspetti di sentire dal nostro interlocutore. Uniformare il linguaggio a leggi che ne governano l’espressività significherebbe impoverirlo della sua più autentica natura, del suo reale valore a discapito di una “rappresentatività emotiva” soffocata da un limite da seguire, e di fronte al quale la nostra predisposizione non risentirebbe del valore che le compete. Significherebbe dunque cedere ad un atteggiamento socio culturale che sembra racchiudere delle norme comportamentali e comunicative da seguire inderogabilmente (Monguzzi, F., 2021).

Qual è il rischio principale?

Secondo l’autore quello di farsi rappresentare da qualcosa che non ci appartiene, di delegare a qualcuno all’infuori di noi il senso di appartenenza, escludendo a priori la possibilità di entrare a contatto con le nostre emozioni più autentiche. Nondimeno i nostri automatismi linguistici rischiano di innescare una rigidità mentale correlata peraltro ad una scarsa capacità simbolico-rappresentativa, connotata ad una carenza nell’attribuire un significato alle proprie esperienze, soffocate da un vero e proprio “linguaggio di copertura” (Monguzzi, F., 2021).

Un fenomeno sempre crescente e accompagnato da una solitudine della parola attraverso la quale attingere un contenuto immaginifico diviene impossibile. Quest’ultimo infatti non solo rispecchia una risorsa, ma descrive una chiave di lettura in grado di fare del linguaggio stesso un ventaglio di valenze metaforiche e analogiche.

Secondo le figure di Jung ed Hillman, infatti, immaginare vuol dire attivare quell’energia ancestrale capace di allontanarci dalla superficie nella quale siamo soliti sostare (Jung, C, G., 2014; Hillma, J., 2019).

Purtroppo le stesse capacità immaginative che dovrebbero nutrire ciò che più ci caratterizza, risultano ad oggi soppiantate da un insieme di rappresentazioni esterne alle quali ciascuno di noi sembra affidare il proprio valore, facendo dei modelli e delle relazioni culturalmente accettabili una dipendenza di fronte alla quale la propria parola non conta più nulla. Dove il pensiero e la riflessione subiscono un’inversione di rotta a favore di un condizionamento normativo al quale paradossalmente siamo obbligati a rispondere.

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Cristi Marcì
Cristi Marcì

Psicologo, Specializzando in Psicoterapia

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Monguzzi, F., (2021), “Sintomi della normalità, mente e mentalità dell’epoca contemporanea”, Mimesis edizioni, Milano.
  • Jung, C. G., (2013), “Sogni dei bambini”, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Hillman, J., (2019), “Re-Visione della psicologia”, Adelphi Editore, Milano.
  • Pasolini, P, P., (1975), “Scritti corsari”, Garzanti, Milano.
  • La lettura può ripristinare la nostra autenticità linguistica?
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