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Psicologia del giudicare: tra ragione e sentimento 

Nella seguente esemplificazione vogliamo provare, nella rilettura del caso Tortora, a identificare i possibili processi legati agli errori giuridici

Di Gioacchino Mazzola, Bernadetta Rosato, Serena Giunta

Pubblicato il 12 Gen. 2023

Il presente contributo vuole rappresentare uno spunto di riflessione psicologica che punta al superamento della dicotomia tra ragione ed emozione approfondendo il contesto della psicologia giuridica.

 

Abstract

 La sfera emotiva, infatti, rappresenta un contributo indispensabile per la razionalità, una mente senza emozioni non è per nulla una mente (Le Doux J, 1998). Pur riconoscendo la reale possibilità che influenze emotive possono essere alla base di ragionamenti sbagliati, non si può non considerare quello che gli studi psicologici (De Groot 1965; Chase e Simon 1973; Kahnemann 2011) hanno consolidato da tempo, ossia che è l’apporto emotivo a dare inizio al processo decisionale. Allora il focus non è più da considerarsi in termini di esclusione della dimensione emotiva, quanto di una sua indispensabile integrazione che deve passare dalla consapevolezza che l’emotività possa avere aspetti devianti ma anche virtuosi.

Alcune bussole per orientarsi

Per secoli le emozioni sono state contrapposte alla razionalità, ma mantenere questo atteggiamento mentale non permette di avere accesso alle dimensione emotiva che è sempre presente in ogni atto della ragione: negandole non si elimina certo il peso, anzi lo si rende un’incognita.

La difficoltà ad includere le emozioni all’interno del processo decisionale si evince anche dall’analisi delle teorie scientifiche proposte fino agli anni cinquanta. La principale teoria faceva riferimento ai principi della coerenza​ e della massimizzazione, invocando l’indipendenza dal contesto e la massima utilità. È solo a partire dagli anni 70 che con Simon, Premio Nobel dell’economia nel 1978, si inizia a comprendere come la complessità dei dati e i limiti cognitivi dell’uomo non permettono di operare solo e sempre attraverso logiche deduttive, ma è più vicina alla realtà quotidiana parlare di decisioni soddisfacenti. Nascono così le prime teorie descrittive che cercano di delineare il come in realtà gli individui prendono le decisioni. Si evidenzia l’importanza del ragionamento induttivo che consente di utilizzare l’esperienza passata per orientare il comportamento presente. Questo processo permette di arrivare a conclusioni plausibili e probabilmente vera. Ecco che la dimensione esperienziale inizia a palesarsi nel processo decisionale.

Kahneman e Tversky nel 1974 identificano delle scorciatoie che ognuno di noi utilizza nell’uso della propria esperienza: queste scorciatoie prendono il nome di euristiche. Gli autori ne rintracciano alcune: l’euristica della disponibilità in forza della quale gli eventi più facili da ricordare solo più disponibili. Un esempio è costituito da quanto ci sta accadendo: se dovessimo chiedere se nel 2020 in Italia ci siano stati più morti per Covid o di tumori molti risponderebbero di Covid ma non perché questo corrisponda al vero, ma solo perché la nostra esposizione mediatica rende più disponibile le informazioni relative ai decessi da SARS-2.

Un’altra scorciatoia è rappresentata dall’euristica della rappresentatività ossia più l’evento esaminato assomiglia alle caratteristiche di una determinata classe, più ne farà parte. Un esempio classico che spiega quest’euristica è dato da una serie di interviste nelle quali veniva chiesto a un soggetto di immaginare un cittadino a caso con gli occhiali che parlava in maniera pacata, che è ordinato e che legge molto; veniva poi chiesto loro di dire se tale individuo fosse un bibliotecario o un agricoltore. La maggior parte degli intervistati rispose che il soggetto era un bibliotecario laddove è evidente che per numero di abitanti il numero di agricoltori è di molto superiore a quello dei bibliotecari.

Un’altra euristica individuata dagli autori e quella dell’ancoraggio in forza della quale quando ci troviamo a valutare una serie di eventi i primi hanno su di noi, e sulla nostra scelta, un peso molto superiore ai successivi. Le euristiche descritte non sono artifici teorici, ma sono trappole cognitive, errori sistematici a cui tutti siamo esposti.

Di quanto la dimensione emotiva sia necessaria in ogni processo decisionale se n’è avuta prontezza anche dal punto di vista clinico: soggetti con danno prefrontale ventro mediale, nei quali era stata rilevata una incapacità a provare emozioni, non riuscivano più a prendere delle decisioni, a fronte dell’integrale capacità intellettiva, attentiva e mnestica (Damasio, 1995). Le predette osservazioni portarono Damasio e il suo gruppo di lavoro ad ipotizzare che le emozioni svolgessero una funzione di guida cognitiva nel processo decisionale.

Altro interessante spunto di riflessione sulle emozioni è quello dato da Michael Brady (2014), che sottolinea il valore epistemico delle emozioni in forza delle loro caratteristiche di riflessività. In altre parole la possibilità che il soggetto ha di riflettere sulle proprie decisioni, avendo consapevolezza dello stato un motivo che ha provato, permetterebbe un ulteriore approfondimento epistemico da parte del soggetto stesso. In quest’ottica le emozioni, attraverso pratiche virtuose, possono restituire credenze giustificate: questa riflessione aiuterebbe a correggere certi pregiudizi affinando il giudizio o mettendo a tacere certe considerazioni.

Accertato che la dimensione emotiva costituisce un elemento importante nei processi decisionali come possiamo però determinare il suo peso? E come questo varia da persona a persona?

Davinson (2012) prova a rispondere a queste domande definendo il concetto di stile emozionale come particolarità unica che caratterizza ogni persona. Tale stile, identificato come un pool affettivo del quale ognuno di noi è portatore, secondo l’autore sarebbe la combinazione di 6 dimensioni: resilienza, istinto sociale, autoconsapevolezza, sensibilità al contesto e attenzione. Per ognuna di queste dimensioni Davidson definisce specifiche caratteristiche neuronali e, benché lo stile emozionale rimanga piuttosto stabile nel tempo, esso può tuttavia essere modificato da esperienze contingenti.

La particolare combinazione tra elementi emotivi individuali, informazioni acquisite e modalità di elaborazione porterebbe a definire quelli che Susan Scott (1995) ha identificato come stili decisionali. L’autrice ne ha individuati cinque: lo stile razionale contraddistinto dalla ricerca completa delle informazioni per l’analisi delle alternative possibili e delle conseguenze; lo stile intuitivo con una particolare attenzione agli aspetti globali e la tendenza a decidere in base alle sensazioni; uno stile dipendente nel quale si tende a ricorrere a suggerimenti degli altri; uno stile esitante ed, infine, quello spontaneo caratterizzato dalla tendenza a decidere più velocemente possibile. Particolari eventi nella vita di ognuno determinano la costruzione del nostro assetto emotivo di base e questo esercita un peso sia nel processo decisionale che nella formulazione di un giudizio.

Altri elementi influenzano i nostri processi decisionali come l’umore, l’ansia, lo stress. Generalmente le nostre decisioni tendono a perpetrare il nostro umore. Ad esempio i soggetti ansiosi tenderebbero, nel processo decisionale, ad utilizzare un minor numero di informazioni e salterebbero alle conclusioni; inoltre, questi soggetti presenterebbero una maggiore difficoltà nell’apprendere dalle esperienze e sarebbero propensi a vivere ogni evento come nuovo.

Oltre alla dimensione emotiva, altre insidie possono determinare una involontaria faziosità del giudizio: sono tutte quelle serie di convinzioni di cui ognuno di noi è portatore. Parliamo della psicologia implicita intesa come quell’insieme di credenze e teorie che ognuno matura sul comportamento del prossimo, e della teorie della mente ossia la tendenza del soggetto ad attribuire stati mentali agli altri. Convinzioni, ad esempio, quali: i bambini specie se piccoli non sanno mentire; le prime dichiarazioni dei bambini sono quelle più genuine; se due testimoni dello stesso fatto dicono cose diverse uno dei due dice falso; sono spesso il frutto di queste trappole cognitive.

Questi elementi possono, inoltre, essere alla base di uno schema mentale che costruiamo ogni volta che veniamo in contatto con le informazioni o con una persona nuova. Numerosi studi (Willis, Torow; 2006) hanno mostrato come questi schemi tendono a resistere al cambiamento influendo sulle interpretazioni che il soggetto fornisce degli eventi (bias della conferma), ma vi è più: se si considera l’effetto priorità, in base al quale l’informazione che giunge per prima ha maggiore impatto rispetto a quella successiva, tali schemi possono far risentire i propri effetti anche quando si scopre che l’impressione iniziale è palesemente sbagliata.

In una visione ecologica del processo decisionale, inoltre devono introdursi anche elementi contestuali che incidono sul nostro funzionamento e si fa riferimento alla pressione sociale che in determinati casi può essere associata ad un particolare processo. Il quadro si complessifica ancor di più se si pensa che in ogni passo del processo del giudicare si possono introdurre elementi distorcenti ed ognuna proporre una propria specifica narrazione. Appare esemplificativo quanto ci ricorda Rovelli (2014) “noi non conosciamo il mondo com’è, costruiamo narrazioni che ci danno una struttura per concettualizzare il mondo, ma queste non possono essere prese per fondamento di una certezza poiché esistono altre narrazioni possibili”.

L’atto del giudicare

Probabilmente il pensare che giudicare non significa essere insensibili, ma essere in ascolto ci aiuta maggiormente a non pensare ragione e sentimento come entità separate. Colui che giudica, infatti, dovrebbe lasciarsi muovere dalla specifica esperienza nella quale è processualmente immerso perché tutti gli attori processuali sono anche attori emotivi. E ogni attore tende naturalmente a “punteggiare” in maniera personale la sequenza comunicativa organizzando secondo una specifica prospettiva. Per esempio il marito dirà che picchia la moglie perché questa lo insulta ma lei dirà che lei lo insulta perché lui la picchia. Il Pubblico Ministero giustificherà il proprio rigore con il ‘cattivo’ comportamento processuale dell’imputato il quale invece spiegherà la propria condotta come giustificata dal rigore del Pubblico Ministero ecc.” (Gulotta, 1987).

L’emotività è non solo un dato innegabile, ma è anche un qualcosa che può e deve essere integrato positivamente nell’iter decisionale.

Ragione e sentimento possono essere intesi, secondo la teorizzazione proposta da Kahneman (2011) come due sistemi a velocità differenti; due vie che guidano il nostro modo di decidere, un Sistema Euristico (Sistema 1) e un Sistema Analitico (Sistema 2).

Il primo sistema opera con modalità caratterizzate da rapidità, impulsività e automatismi; tutti funzionamenti difficili da controllare o modificare. Esempi del suo funzionamento sono i ragionamenti esplorativi nei quali si salta velocemente alle conclusioni. Nel mondo anglosassone, quando si vuol definire una decisione intuitiva, si fa ricorso all’espressione gut feeling. L’immagine evoca un modo di sentire viscerale. Questo sistema euristico può essere pensato come un inconscio cognitivo, un pilota automatico che, acquisito evolutivamente, ci permette di avere elementi per muoverci agevolmente nel mondo in maniera sufficientemente efficiente e senza sforzo, è il sistema che Altavilla (1948) annovera tra le “esperienze subcoscienti”. È in questo sistema che la dimensione emozionale rappresenta un elemento estremamente importante.

Il secondo sistema implica processi consapevoli, più ponderati e lenti, come quelli messi in campo quando si affronta un calcolo matematico.

Secondo questa teorizzazione S1 si farebbe carico del problema azzardando una soluzione che poi passerebbe al vaglio del sistema S2. In quest’ottica gli errori di giudizio sarebbero da ricercare nella difettosità del controllo operato da S2. Già Altavilla ammoniva: “l’intuito, proprio per questa sua origine, può alle volte dare risultati preziosi, alle volte creare un uniformismo pericoloso per il giudice. L’intuito è certamente una voce che sorge dall’incosciente, in cui si è accumulata la nostra esperienza e anche quella della razza, che precedendo ogni processo analitico di ragionamento, ci fa sentire come un avvenimento ha dovuto verificarsi. Ed alle volte questo giudizio anticipato si cristallizza così prepotentemente nella coscienza del giudice, che non soltanto le risultanze processuali non varranno a modificarlo ma egli, inconsapevolmente, si sforza di adattare questi risultati al suo convincimento”.

Trovare un giusto equilibrio tra ragione e sentimento è fondamentale per aumentare le probabilità di successo quando bisogna prendere una decisione. Ogni posizione estrema è espressione di una rigidità che diventa incapacità e limitatezza.

Tutto porta verso un inevitabile superamento della dicotomia classica tra emotivo e cognitivo, poiché l’emozione diviene parte fondamentale della cognizione. I sistemi neurofisiologici alla base di questi due circuiti sono interconnessi e grazie alla loro interazione permettono di scegliere le alternative comportamentali più adatte ad una specifica situazione. Emerge dunque da tale interconnessione la necessità delle componenti emotive per attuare un processo decisionale (Forza et al., 2017).

Lo stesso affidarci esclusivamente alla razionalità nei fatti porterebbe ad una stortura del funzionamento umano e con esso alla capacità di decidere. Essere dei signor Spock, come il personaggio della serie Star Trek, nei fatti costituirebbe una mortificazione del nostro stesso essere. Quasi alla ricerca di un’integrazione possibile il dott. Spock, teso a funzionare solo con la ragione è, nella rappresentazione narrativa, un vulcaniano; come se le sue origini riportassero comunque ad una necessaria integrazione emotiva.

 Come ricorda Gulotta “il pensatore logico e razionale non è affatto colui che è in grado di controllare e mitigare il peso delle emozioni, in quanto senza queste il processo decisionale sarebbe molto meno efficace ed adattivo. Gli stati emotivi, infatti, sono qualcosa di intrinsecamente legato al processo decisionale: nel prendere una decisione, e nel memorizzare il suo esito, va ad accrescersi in noi una ‘memoria emozionale’ che permetterà, in situazioni successive, di generare decisioni più rapide ed efficaci grazie all’attivazione del medesimo stato emozionale”. …Pertanto, ‘liberarsi’ dalle emozioni per diventare decisore migliore non solo non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile. Piuttosto, risulta utile conoscere ed essere consapevoli del funzionamento specifico delle reazioni emotive e del modo in cui queste si manifestano (Gulotta, 2018)

Esemplificazione clinica: il caso Tortora

Ogni teorizzazione, e non fanno eccezione quelle proposte nel presente contributo, propone un modo per leggere la realtà nella consapevolezza che ogni esperienza di vita mai si adatterà pienamente ad una definizione univoca o ad un modello seppur complesso.

Con questa premessa, nella seguente esemplificazione vogliamo provare, nella rilettura del caso Tortora, a identificare i possibili processi che probabilmente hanno sotteso alcune fasi di quello che venne definito da Giorgio Bocca (2010) come “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato dal nostro paese”. L’analisi proposta assume un ulteriore valore se si considera il costo che gli errori giudiziari hanno per l’erario del nostro Paese.

In Italia, solo per l’anno 2018 sono stati versati 33 milioni di euro per 895 casi di ingiusta detenzione. Si intende qui fare riferimento a coloro che subiscono una misura cautelare intramuraria o domiciliare per andare poi incontro ad una assoluzione. Per gli errori giudiziari sono stati versati, invece, circa 48 milioni di euro a fronte di 913 innocenti ingiustamente condannati. Si consideri errore giudiziario il caso in cui dal 1992 al 2017, a causa di condanne errate sono stati erogati quasi 700 milioni di euro; se si considerano anche gli errori giudiziari la somma ammonta a 768 milioni per un totale di 26 mila persone ingiustamente condannate (Gulotta, 2018).

Enzo Tortora è stato un giornalista, un conduttore (radiofonico e televisivo) e un politico. La carriera di Tortora viene bruscamente interrotta il 17 giugno 1983, quando viene arrestato con l’accusa di “associazione per delinquere di stampo camorristico”; viene accusato di essere un membro della Nuova Camorra Organizzata e di essere dedito allo spaccio di stupefacenti. Le accuse furono avanzate dalla Procura di Napoli, dai pubblici ministeri Di Pietro e Di Persia in seguito alle dichiarazioni di pregiudicati, assassini e camorristi: se ne contarono più di undici.

Su alcuni di questi personaggi appare opportuno spendere poche parole solo per identificare possibili “storture del giudicare”. Giovanni Pandico, uno dei primi a fare il nome di Tortora è per gli inquirenti “un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare ”. È probabile che lui diventa nella mente dei giudici una figura rappresentativa, un prototipo del “pentito”; ogni sua parola diventa fonte di preziosa informazione. A conferma di ciò ecco cosa dichiareranno i giudici nelle motivazioni del processo di primo grado “deve darsi atto al Pandico, al di là di qualsiasi valutazione critica sulla reale entità del suo contributo, di aver dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia, sposata con impeto e senza vie di mezzo”.

L’euristica della rappresentatività, come già precedentemente espresso nel presente contributo, nei fatti congela l’idea che si ha di una persona addebitandole caratteristiche che potrebbe non possedere.

Altri magistrati, quelli del così detto terzo troncone dell’inchiesta, probabilmente meno invischiati dall’euristica della rappresentatività su Pandico diranno “(…) non è stato mai affiliato alla Nco, Pandico ha dato corpo a sue personali convinzioni o a suoi personali risentimenti, che nel corso di questo procedimento non hanno risparmiato nessuna delle persone che hanno avuto un qualche rapporto con lui”. Ed è lo stesso Giovanni Pandico che ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, e che per i medici è “schizoide e paranoico”. Ritornando ai fatti: l’accusa prende corpo, di fatto, unicamente da un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con su scritto a penna un nome che appare essere, all’inizio, quello di “Tortora”, con a fianco un numero di telefono; nome che, a una perizia calligrafica, risulterà non essere il suo, bensì quello di tale “Tortona”.

Nemmeno il recapito telefonico risulterà appartenere al presentatore. Dal nostro vertice di osservazione la narrazione, probabilmente nella mente della procura inizia proprio con una fascinazione che la presenza di quel nome porta con sé: non a caso tutta l’operazione porta il nome Portobello, il nome della trasmissione televisiva. Una ponderosa operazione più di 850 mandati di cattura e 4000 arresti. All’epoca dei fatti il conduttore televisivo veniva seguito nella sua trasmissione da una media di 18.900.000 spettatori.

A partire da quello che potrebbe essere un banale errore di lettura di una grafia incerta, si innescano tutta una serie di dichiarazioni di pregiudicati che vanno a corroborare quella che Cecchin (1997) avrebbe definito “un’idea perfetta”.

Sull’importanza delle prime informazioni e sul loro peso si è già parlato quando si è fatto riferimento all’euristica dell’ancoraggio e all’effetto priorità. Le informazioni successive non si vanno mai a sommare algebricamente a quelle precedenti, secondo un principio commutativo; ma rimangono subordinate alle prime.

Il funzionamento della mente inquirente, come più volte descritto nel presente contributo, alla ricerca di coerenze nei fatti selezionerà solo le informazioni che corroborano l’ipotesi iniziale. Non sono sufficienti le dichiarazioni del proprietario dell’agendina che affermerà che il nome non è Tortora ma Tortona con tanto di numero telefonico associato; non saranno sufficienti le vistose incoerenze di luoghi e di tempi nei racconti dei pentiti.

Fissata l’idea che il noto presentatore fosse un camorrista questa diventa, probabilmente, l’immagine maggiormente disponibile (euristica della disponibilità) e quella alla quale più facilmente si farà riferimento tanto nella costruzione della narrazione degli inquirenti che dei pentiti.

A complicare quello che può essere definito un castello “autoportante” degli equivoci anche una lettera che un carcerato aveva scritto alla trasmissione condotta da Tortora: la redazione riceveva circa duemila lettere al giorno. Il detenuto aveva spedito una serie di centrini fatti a mano con la speranza che potessero essere venduti in trasmissione; questi manufatti vennero dispersi e dopo una serie di lamentazioni epistolari la trasmissione propose un risarcimento per la perdita del pacco. Questo carteggio nella visione ad imbuto degli inquirenti diventa un segno tangibile della compromissione di Tortora: i centrini all’uncinetto diventano linguaggio in codice per intendere gli stupefacenti e il debito reclamato diventa quello che il presentatore dovrebbe a seguito di una partita di droga sottratta all’organizzazione criminale di cui avrebbe fatto parte. Lo stesso detenuto confermerà che l’oggetto delle missive erano centrini e non altro, ma i magistrati ormai innamorati della loro tesi non solo non prendono in considerazione queste affermazioni, ma asseriranno che l’autore delle lettere sia un altro detenuto omonimo rispetto al dichiarante. Il 17 settembre del 1985 Tortora viene condannato a 10 anni di carcere e a cinquanta milioni di lire di multa. Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli: i giudici smontarono le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia.

Conclusioni

Tutti gli individui indipendentemente dall’ambito nel quale operano sono esposti a commettere errori sistematici per effetto dei naturali limiti della mente. La componente emotiva, lungi dall’essere sempre un elemento peggiorativo e distorcente, svolgerà una parte costruttiva nel processo decisionale. La razionalità, come ricorda Sutherland (2010), di una decisione deriva dalla pienezza del quadro conoscitivo che si possiede. Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni. L’obbligo della motivazione, relativamente ad un giudizio esprime, ed al tempo stesso garantisce, la natura cognitiva anziché discrezionale del giudizio stesso. È in forza della motivazione che la decisione risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. L’apporto di nuove conoscenze che le neuroscienze stanno dando al mondo del processo è destinato dunque a mettere in tensione categorie consolidate e tra queste forse anche quella del libero convincimento del giudicante. Scienza e giudizio non costituiscono, dunque, due entità separate ed indipendenti, bensì contesti esposti a una reciproca integrazione possibile alla luce di una epistemologia complessa.

 

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