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Il superamento della paura nelle Leggi di Platone

Riflettendo sul pensiero di Platone si notano diversi principi in comune con la terapia cognitivo-comportamentale nella cura dei disturbi fobici e ossessivi

Di Francesco Luigi Gallo

Pubblicato il 02 Gen. 2023

Esistono metodi, come quelli della psicoterapia cognitivo-comportamentale, che permettono di “insegnare alla nostra neocorteccia a controllare dei sistemi emotivi che risalgono molto indietro nell’evoluzione” (J. Ledoux, Il cervello emotivo, p. 25) o, per utilizzare il linguaggio di Platone, permettono al cocchiere dell’auriga di governare l’indomabile cavallo nero.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale

 Un momento fondamentale ed imprescindibile della strategia terapeutica cognitivo-comportamentale mirata alla cura dei disturbi fobici e ossessivi è la prescrizione di “una serie di esercizi di induzione del sintomo” al soggetto così da riuscire, passo dopo passo e non senza sforzi, ad alzare la soglia di tolleranza di determinati sintomi (cfr. D. A. Clark, A. T. Beck, “Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni”, pp. 227-232). Perché l’induzione dei sintomi temuti risulta essere un momento addirittura imprescindibile della terapia cognitiva?

Ecco la risposta degli esperti:

  • Producendo la sensazione di disagio, l’esercizio attiva la vostra paura centrale e il pensiero collegato alla minaccia, e avrete così l’opportunità di gestirla;
  • Mette in discussione l’interpretazione errata catastrofica per cui la sensazione fisica è pericolosa, fornendo esperienze in cui essa non porta all’esito temuto (p. es.: soffocamento, attacco cardiaco, attacco epilettico, panico conclamato);
  • Dà un maggiore senso di controllo sul vostro stato emotivo perché siete voi ad accendere e spegnere il sintomo (ivi, p. 228).

In quest’ultima risposta compare la parola chiave per la comprensione profonda dei disturbi fobici e ossessivi: controllo. Se è vero che la condizione esistenziale di ogni singolo uomo è unica e irripetibile e che la declinazione di un medesimo disturbo d’ansia può assumere forme radicalmente diverse in due individui diversi, è altrettanto vero, però, che è possibile ricondurre l’infinita varietà dei disturbi d’ansia in generale ad un’unica – fondamentale – paura che, come un denominatore comune, funge da sfondo di queste condizioni esistenziali sofferenti: la paura di perdere il controllo.

Secondo la concezione cognitiva, l’uomo ha il controllo (o, perlomeno, crede di averlo!) quando la sua ragione riesce ad elaborare correttamente le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno (“via alta”) senza che le emozioni deviino il loro tragitto (“via breve”) producendo interpretazioni errate, esagerate, catastrofiche e disadattive.

Ciò non toglie, però, che il controllo assoluto è e rimarrà sempre più un “ideale regolativo” che una reale condizione conseguibile dall’uomo (motivo per cui è essenziale che il governo della ragione non si tramuti mai in iper-razionalismo schematizzante e calcolante, chiuso alle imprevedibilità quotidiane della vita).

Nella concezione cognitiva il governo della ragione risulta essere, quindi, fondamentale per assicurare il controllo (pur con tutte le riserve accennate sopra) dell’individuo sulla sua vita interiore e sociale. Una delle cause per cui l’uomo può temere di perdere il controllo è l’esplosione incontrollata delle emozioni non regolate dalla ragione.

Le radici antiche della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Nel “Fedro” Platone si riconferma uno dei più grandi conoscitori dello spirito umano quando descrive il cavallo nero (anima concupiscibile – il paleo-encefalo diremmo oggi) in questi termini: “[…] l’altro cavallo è invece storto, grosso, mal formato, di dura cervice, di collo massiccio, di naso schiacciato, di pelo nero, di occhi grigi, iniettati di sangue, amico della protervia e dell’impostura, villoso intorno alle orecchie, sordo, a stento ubbidisce a una frusta munita di pungoli” (Fedro, 253 E). Il cavallo nero è quasi completamente sordo ad ogni richiamo e “a stento ubbidisce a una frusta munita di pungoli”. Quando le emozioni prendono il sopravvento, infatti, sappiamo bene quanto sia difficile non tanto reprimerle (questo davvero sarebbe veramente impossibile), ma regolarle e governarle. Negli attacchi di panico, ad esempio, “il sintomo devastante principale” è per l’appunto “l’incapacità di controllare i propri sintomi mentali, fisici ed emotivi” (A. T. Beck, G. Emery, L’ansia e le fobie, p.133).

Platone e la psicoterapia cognitivo comportamentale punti in comune Fig 1

Tuttavia, esistono metodi, come quelli della psicoterapia cognitivo-comportamentale ad esempio, che permettono di “insegnare alla nostra neocorteccia a controllare dei sistemi emotivi che risalgono molto indietro nell’evoluzione” (J. Ledoux, Il cervello emotivo, p. 25) – nel linguaggio scientifico contemporaneo – permettendo al cocchiere dell’auriga di governare l’indomabile cavallo nero – nel linguaggio platonico.

L’esposizione graduale alla situazione temuta e gli esercizi per l’induzione dei sintomi avvertiti come terrificanti dal soggetto sofferente hanno l’obiettivo di ridargli il controllo cognitivo così da regolare le risposte emotive e renderle adattive. È stato interessante scoprire che nell’inesauribile tesoro contenuto nelle opere platoniche è possibile rintracciare una primissima – ma allo stesso tempo accuratissima – strategia terapeutica d’esposizione che, oltre a riconfermarsi come una strategia universale riconosciuta come particolarmente efficace nella Grecia classica, (di)mostra la stretta vicinanza (a tratti sovrapposizione) tra metodologia psicoterapeutica e pratica filosofica.

Nelle “Leggi” (644 D – 645 C) Platone ci presenta un’immagine davvero emblematica per descrivere la natura umana e l’equilibrio interiore dell’uomo: quella del burattino. Secondo il grande filosofo ateniese due sono le tipologie di fili che governano questo particolarissimo burattino: c’è un filo d’oro, che è quello della ragione, e ci sono fili di ferro, rigidi, multiformi che “applicando forze fra loro antagoniste, ci tirano verso quei comportamenti opposti che valgono a determinare la virtù e il vizio  nelle loro differenze”: questi, è chiaro, sono i fili delle passioni incontrollate. Il primo compito dell’uomo è quello di acquisire una solida consapevolezza dei fili che lo governano: “[…] dovrà interiormente appropriarsi dell’autentico significato dei fili che muovono il burattino e dovrà altresì vivere in coerenza con esso” (Leggi, 645 B).

Il percorso terapeutico

 La presa di coscienza dei fili interni, però, seppure sia un momento imprescindibile, resta comunque il primo passo (conditio sine qua non) del percorso terapeutico dell’anima. Il secondo – particolarissimo – ‘step’ proposto dal filosofo ateniese, invece, è una vera e propria prova di forza psicologica: indurre nel soggetto uno stato alterato (ubriachezza) per studiare e correggere i suoi vizi e superare le sue paure.

Questa pratica proposta dal grande filosofo ateniese, che in prima facie potrebbe sembrare bizzarra, non si differenzia affatto – almeno in linea di principio – dagli “esercizi d’induzione del sintomo” utilizzati oggi dagli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali:

“Iperventilare per 1-2 minuti: affanno, sensazione di soffocamento; Trattenere il respiro per 30 secondi: affanno, sensazione di soffocamento; Correre sul posto per 1 minuto: battito cardiaco accelerato, martellante” Ecc. (cfr. D. A. Clark, A. T. Beck, “Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni”, p. 229)

Gli esercizi d’induzione del sintomo inducono artificialmente una serie di alterazioni fisiologiche nell’organismo del soggetto e, simultaneamente, una serie di distorti pensieri cognitivi ansiogeni, causando un episodio d’ansia in piena regola cosicché, in vivo, il terapeuta può aiutare il soggetto a correggere le sue distorsioni cognitive decatastrofizzando le sue interpretazioni (al battito cardiaco accelerato non segue necessariamente la morte, alla sensazione di stordimento non segue necessariamente la follia, alla debolezza non segue necessariamente lo svenimento e così via). Il soggetto è condotto dal terapeuta non su un campo di battaglia neutrale, ma proprio sul terreno favorevole alla paura.

Ma Platone, con l’ubriachezza, cosa intendeva indurre? La risposta è: la perdita del controllo quasi totale:

Ateniese: […] Per essere più chiari io mi pongo questo problema: piaceri, dolori, scatti d’ira, amori, crescono di intensità a causa del vino?
Clinia: Certo, di molto.
Ateniese: E le sensazioni, i ricordi, le opinioni e i pensieri, anche questi crescono in proporzione, oppure vanno del tutto perduti quando uno è completamente ubriaco?
Clinia: Vanno del tutto perduti.
Ateniese: E non è forse vero che in questi casi l’anima regredisce a livello infantile?
Clinia: Ebbene?
Ateniese: Dico che in tali condizioni uno non ha la minima padronanza di sé (Leggi, 645 D- E).

Nello specifico, il discorso di Platone si articola a partire due paure fondamentali: a) quella dei mali incombenti e b) la “paura che sovente abbiamo della gente, temendo di essere stimati malvagi, quando diciamo o facciamo qualcosa di male” (senso del pudore, particolarmente sentito nella Grecia classica), per poi concentrarsi esclusivamente su quest’ultima. Come rendere un uomo pudico, capace di “dominare i suoi impulsi” e i suoi piaceri più abietti? È nella risposta a questa domanda che la riflessione platonica mostra tutta la sua profondità psicologica:

Ateniese: […] Non è forse quando spingendolo a forza verso l’impudenza che lo esercitiamo a vincerla, costringendolo ad accettare la lotta contro i piaceri?
Ora, posto che per essere perfettamente coraggioso uno deve combattere e vincere la viltà che ha in sé – e d’altra parte, se non avesse esperienza e non si fosse cimentato con essa in questi tipi di scontri non potrebbe sfruttare, nei rapporti con la virtù neppure la metà delle sue potenzialità -, come potrà mai essere un perfetto saggio chi non ha combattuto e vinto con l’intelligenza, la forza, la disciplina, sia nella finzione che nella realtà, gli innumerevoli piaceri e desideri che ci sospingono alla impudicizia e alla immoralità e s’è tenuto lontano da tutti, indistintamente? (Leggi, 647C-D).

Siamo di fronte probabilmente al primo tentativo di ideazione di una strategia di desensibilizzazione della paura mediante l’esposizione in vivo. Platone aveva quindi compreso perfettamente che per poter vincere una paura e ristabilire l’ordine nell’anima (che, nella sua concezione, coincideva con il benessere interiore) bisognava ricreare una ben determinata situazione fobica all’interno della quale si doveva permettere al soggetto di esporsi alla paura, combatterla e vincerla sul suo stesso terreno, grazie al ristabilimento del governo dell’intelletto sulle passioni incontrollate.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Beck A. T., Emery G., L’ansia e le fobie.Una prospettiva cognitiva, Editrice Astrolabio, Roma, 1988.
  • Clark D. A., Beck A. T., Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni,Positive Press, Verona, 2016.
  • Ledoux J., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini&Castoldi, trad. it. di S. Coyaud, Milano, 2015.
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