Una meta-analisi pubblicata di recente su The Lancet Psychiatry (Geoffroy et al., 2022) evidenzia non solo la gravità e la rilevanza del suicidio infantile, ma anche l’attuale scarsità di dati a disposizione.
Introduzione
Il suicidio, inteso come un comportamento emesso con una certa consapevolezza che potrebbe esitare e che in effetti esita nella morte (De Leo et al., 2021), è un problema rilevante per la salute pubblica: globalmente ogni anno muoiono circa 800000 persone (World Health Organization, 2019) e ogni tentativo di suicidio ne coinvolge diverse centinaia (Cerel et al., 2019). Sebbene spesso associabile alla psicopatologia (Baldessarini e Tondo, 2020; Turecki et al., 2019), tentativi e ideazioni suicidarie riguardano la popolazione in senso ampio, con il 3.1% che tenta il suicidio e un ancor più significativo 9.2% che fa pensieri al riguardo – ovvero, che sperimenta ideazione suicidaria (Nock et al., 2008). A riprova di ciò, negli ultimi anni sono emersi dati che ne evidenziano basi biologiche sovrapponibili solo in parte con quelle dei disturbi mentali (ad es., Mullins et al., 2022; Vasupanrajit et al., 2021), completando un quadro nel quale non tutti quelli con una diagnosi psichiatrica tentano il suicidio né tutti quelli che tentano il suicidio hanno un disturbo mentale (Turecki et al., 2019).
Nonostante la rilevanza di questo fenomeno, che rimane una condizione difficilmente prevedibile (Franklin et al., 2017) e trattabile (Fox et al., 2020; Harris et al., 2022), la sua presenza nei bambini è stata molto trascurata. Una meta-analisi pubblicata di recente su The Lancet Psychiatry (Geoffroy et al., 2022) evidenzia non solo la gravità e la rilevanza del fenomeno, ma anche l’attuale scarsità di dati a disposizione.
Lo studio
Lo studio condotto da Geoffroy e colleghi (2022) è una meta-analisi di dati ottenuti da 28 pubblicazioni (per un totale di 30 studi) che hanno incluso 98044 bambini totali tra i 6 e i 12 anni (46980 [50.5%] femmine, 46136 [49.5%] maschi; età media di 9.5±1.4 anni) provenienti dal Nord America, dall’Asia, dall’Europa e da Israele. Le variabili di interesse sono state ideazione suicidaria (compreso l’aver progettato un piano per suicidarsi), tentativi di suicidio e comportamenti autolesivi in generale, inclusi quelli non suicidari (non-suicidal self-injury, NSSI).
La prevalenza di ideazione suicidaria nei 28 studi (per un totale di 97512 partecipanti) che l’hanno valutata è complessivamente risultata del 7.5% (intervallo di confidenza [confidence interval, C.I.] al 95%: 5.9–9.6), con un’elevata eterogeneità (I2=98.1%, 95% C.I.: 97.7–98.4), e simili percentuali sono state riscontrate facendo analisi separate per ideazione suicidaria negli ultimi 12 mesi (6.3%, 95% C.I.: 4.3–9.3) e nell’intero arco di vita (9.2%, 95% C.I.: 7.2–11.7). La prevalenza tra maschi e femmine è risultata simile (7.9% [95% C.I.: 5.2–12] per i maschi, 6.4% [95% C.I.: 3.7–10.7] per le femmine), mentre le percentuali risultano maggiori quando i bambini sono stati direttamente analizzati (10.9% [95% C.I.: 8.1–14.5] con solo bambini e 10.4% [95% C.I.: 6.8–15.5] con bambini e genitori) rispetto a quando vengono considerati solo i genitori (4.7%, 95% C.I.: 3.4–6.6). Inoltre, l’uso di interviste restituisce percentuali maggiori (10%, 95% C.I.: 7.3–13.5) rispetto all’uso di questionari (6.5%, 95% C.I.: 4.7–9). Le percentuali per continente hanno rilevato una prevalenza minore per l’Asia (5.3%, 95% C.I.: 4.1–6.7) rispetto a Nord America (8.1%, 95% C.I.: 6–11) ed Europa (8.7%, 95% C.I.: 3.9–18.4). Il punteggio alle analisi del rischio di bias e l’anno di pubblicazione non giustificano l’eterogeneità nei dati. Inoltre, i progetti suicidari sono stati considerati solo in 3 studi (11945 partecipanti) e complessivamente la loro prevalenza è risultata essere del 2.2% (95% C.I.: 2–2.5).
Per quanto riguarda invece i comportamenti autolesivi nel loro complesso (categorizzati in inglese sotto il termine “self-harm”), 11 studi (e 70562 partecipanti) hanno restituito una prevalenza complessiva del 2% (95% C.I.: 0.8–5) e un’elevata eterogeneità (I2=99.4%, 95% C.I.: 99.3–99.5). La prevalenza del self-harm globale non differisce per genere, periodo di vita considerato, fonte delle informazioni, metodo di valutazione o continente di provenienza. Inoltre, il rischio di bias, l’età media dei bambini e l’anno di pubblicazione non sono risultati responsabili dell’eterogeneità. Più nello specifico, 6 studi hanno direttamente indagato la prevalenza dei tentativi di suicidio, pari a 1.3% (95% C.I.: 1–1.9). Altri quattro studi, i quali non hanno effettuato una distinzione specifica tra ideazione e tentativi di suicidio, riferendosi invece a concetti più ampi come self-harm o suicidalità, hanno riportato una prevalenza di questi dell’1.4% (95% C.I.: 0.4–4.7). Infine, solo due studi hanno riportato dati in merito ai comportamenti autolesivi non suicidari, con una prevalenza complessiva del 21.9% (95% C.I.: 6.2–54.4), tuttavia frutto di un’ampia variabilità (9.1% in uno studio e 44.6% nell’altro).
Conclusioni
La meta-analisi di Geoffroy e colleghi (2022) evidenzia come ideazione suicidaria e tentativi di suicidio non siano solo un problema degli adulti: un allarmante 7.5% di bambini presenta ideazione suicidaria prima del tredicesimo compleanno, il 2.2% ha progettato un modo per uccidersi e l’1.3% ha tentato il suicidio. Oltretutto, è significativo il fatto che la prevalenza aumenti se i bambini vengono direttamente coinvolti nella ricerca rispetto a quando vengono considerati solo i genitori, forse sottolineando, tra le possibili spiegazioni, come lo stigma sociale condizioni ancora la trattazione del tema.
Sebbene da un lato questi dati siano da interpretare con cautela, in quanto è presente un’elevata eterogeneità metodologica e in generale gli studi non siano molti, segnalano comunque che il rischio suicidario è presente nei bambini e costituisce una seria questione che è necessario approfondire.