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La realizzazione di sé nella prospettiva di Carl Rogers 

L’uomo deve appropriarsi della propria vita raggiungendo la realizzazione di sè e, per farlo, deve agire attivamente su se stesso

Di Francesco Luigi Gallo

Pubblicato il 22 Nov. 2022

Aggiornato il 24 Nov. 2022 15:50

Perché ad un certo punto della sua parabola vitale il processo di realizzazione di sé si arresta e il locus delle scelte e delle valutazioni si sposta dall’interno all’esterno?

 

Γένοιο οἷος εἷ.

Divieni ciò che sei.

Nell’Etica Nicomachea (I,8) Aristotele suddivise i beni della vita umana in: beni esterni, beni dell’anima e beni del corpo. Schopenhauer apportò alcune modifiche concettuali alla tripartizione aristotelica definendo queste tre macro-aree:

  • Ciò che uno è: vale a dire la personalità, nel senso più ampio del termine. Rientrano in questa categoria i seguenti beni: la salute, la forza, la bellezza, il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza e la sua educazione.
  • Ciò che uno ha: vale a dire, proprietà e possessi.
  • Ciò che uno rappresenta: questa espressione, come è noto, vuol dire «ciò che uno è nella rappresentazione altrui»; si tratta dunque, veramente, del modo in cui egli viene rappresentato dagli altri. Ciò che uno rappresenta consiste, quindi, nell’opinione che gli altri hanno di lui, e si suddivide in onore, rango e fama (A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 23).

Il filosofo di Danzica non ha alcun dubbio circa il fatto che i beni appartenenti al primo gruppo, ciò che uno è, siano i più importanti per il benessere dell’uomo:

E senza dubbio, per il benessere dell’uomo – anzi, per ogni aspetto della sua esistenza -, ciò che più conta è, evidentemente, quanto è in lui stesso o avviene entro lui; ciò determina, direttamente, il suo stato interiore di benessere o di malessere, in quanto risultante, senza altri interventi, dalle sue facoltà: sentire, volere e pensare, mentre tutto quello che è esterno non ha su quello stato, che un’influenza indiretta (ibidem). 

Per quanto siano importanti e, addirittura, imprescindibili per il benessere psicologico e la serenità interiore, i beni appartenenti al primo gruppo, che pure c’interessano così da vicino, non conseguono direttamente dal fatto stesso di esistere perché, come ha giustamente osservato il filosofo italiano S. Natoli, l’uomo deve appropriarsi della propria vita realizzandola al massimo delle sue possibilità e, per far questo, deve agire attivamente su se stesso:

La vita l’abbiamo ricevuta e la possiamo perdere, tuttavia dal momento in cui abbiamo preso a esistere siamo vita e perciò tendiamo naturalmente a conservarci e a espanderci: siamo e abbiamo potenza a esistere. D’altra parte, nulla sussisterebbe se non fosse nella condizione di conservare se stesso. Tuttavia nulla di ciò che esiste è potenza infinita. Se così fosse nessuna determinazione perirebbe. Noi uomini, in quanto entità singolari, siamo potenze finite e per valorizzare al meglio la potenza che siamo dobbiamo saperla amministrare, divenirne padroni. [Questo e non altro significa appropriarsi della propria vita]. La vita, infatti, non è un semplice fluire, ma è un fiorire di forme e di forme viventi. E noi siamo una di queste. Per questo una vita – come già insegnava Aristotele – può definirsi riuscita se realizza la propria forma. Per farlo è necessario scoprire le nostre propensioni e latenze, e attivarle: in breve dobbiamo apprendere a padroneggiare la vita e, più esattamente, a divenire padroni di noi stessi (S. Natoli, L’edificazione di sé, pp. 8-9).

Nel significativo passo appena citato, il filosofo italiano sottopone alla nostra riflessione almeno tre temi di fondamentale importanza sia sotto il profilo genuinamente filosofico, sia sotto il profilo della prassi terapeutica di matrice rogersiana:

  • La vita (quella umana soprattutto) non è potenza infinita che si autorealizza spontaneamente.
  • Per autorealizzarsi l’uomo deve faticosamente appropriarsi della sua vita.
  • Per appropriarsi della sua vita l’uomo deve imparare a conoscersi perché “quanto più guadagniamo cognizione dei processi che ci determinano, tanto più riusciamo a essere liberi” (ivi, p. 8).

Se l’uomo fosse “potenza infinita” sarebbe superfluo conoscersi e risulterebbe inutile ogni prassi psicoterapeutica perché non ci sarebbero più esistenze bloccate, disturbate e dirottate verso condizioni inessenziali ed inautentiche. Ogni uomo diventerebbe naturalmente e, quindi, spontaneamente ciò che è destinato ad essere. Ma l’uomo, non essendo “potenza infinita”, ma anzi caratterizzandosi per la sua fragilità e per le sue insicurezze deve, ad ogni piè sospinto, lottare contro una serie di condizionamenti (interni ed esterni) per realizzare la sua forma, sbloccando e superando situazioni difficili, in vista di un avvicinamento a quel Sé ideale che rappresenta la condizione di benessere per ogni uomo. Ad ogni passo, inoltre, tutti gli uomini devono conquistare maggiore consapevolezza sulla loro natura.

Carl Rogers e la realizzazione di Sé

Quasi certamente Carl Rogers avrebbe apprezzato il passo di Natoli, anche se, con ogni probabilità, avrebbe specificato che a ben vedere c’è, nella parabola evolutiva della vita umana, un periodo in cui la vita fluisce liberamente in accordo ai piaceri e ai bisogni dell’individuo e in cui le cose esterne (condizionamenti, obblighi ecc.) sono messi in secondo piano rispetto a ciò che per lui, in quel preciso momento, risulta importante: il periodo in questione è compreso tra la prima infanzia e la tarda fanciullezza.

In questo particolare periodo della vita umana, spiega Rogers, “il locus del processo di valutazione è chiaramente dentro di lui” (Carl Rogers, Da persona a persona, p. 21):

A differenza di molti di noi, egli sa ciò che gli piace e non gli piace, e l’origine di queste scelte di valori è nettamente dentro di lui. Egli è il centro del processo di valutazione; e la prova delle sue scelte gli è data dai propri sensi. Egli non è a questo punto influenzato da ciò che i genitori pensano debba preferire, o da quello che dice la Chiesa, o dall’opinione dell’ultimo ‘esperto’ del campo, o dai persuasivi pareri di un’agenzia di pubblicità. È dall’interno della propria esperienza che il suo organismo dice in termini non verbali: “Questo è buono per me”, “Questo è cattivo per me”, “Questo mi piace”, “Questo non mi piace per niente”. Egli riderebbe della nostra preoccupazione riguardo ai valori, se potesse capirla. Come può una persona non sapere ciò che le piace e ciò che non le piace, ciò che è bene per lei e ciò che non lo è? (ivi, pp. 21-22).

Ma perché, allora, ad un certo punto della sua parabola vitale il processo di realizzazione di sé si arresta e il locus delle scelte e delle valutazioni si sposta dall’interno all’esterno? In altri termini: perché ad un certo punto l’uomo rinuncia alla sua fiducia in se stesso ignorando quella “saggezza fisiologica” che il bambino assecondava spontaneamente e naturalmente?

La risposta di Carl Rogers è che ad un certo punto della sua parabola vitale il giovane comincia ad “introiettare” una serie di valori fissati da altri così poter «ricevere amore» e apprezzamenti come ricompensa di un “giusto comportamento”. Il giovane comincia a rinunciare a se stesso per adeguarsi ad un quadro assiologico (im)posto da altri e che funge da modello “oggettivo” del comportamento. Ecco un esempio:

Anche se forse non a livello consapevole, un ragazzo avverte di essere più amato e valutato dai genitori se prevede di divenire medico, piuttosto che un artista. Gradualmente egli introietterà i valori connessi all’essere un medico. Giungerà a volere soprattutto essere un medico. Poi all’università rimane sconcertato dal fatto di essere ripetutamente bocciato in chimica, materia assolutamente necessaria per divenire medico, malgrado lo psicologo scolastico lo rassicuri sulla sua capacità di superare quell’esame (ivi, p. 22). 

Quest’esempio diventa davvero emblematico se lo si ricollega alle illuminanti riflessioni di U. Galimberti che, in “Psiche e techne”, ha giustamente rilevato come nell’età della tecnica l’individuo non trova più la sua identità nella sua anima ma nella sua “professionalità” (U. Galimberti, Psiche e techne, p. 557). Se non si dà, nell’età della tecnica, “altra soggettività se non quella prodotta dall’apparato tecnico nella forma della competenza” (ivi, p. 558) è vero allora che ogni forma di “approdo umanistico” dell’esistenza umana viene messa fuori gioco e l’uomo diventa straniero a se stesso, viene, in altri termini, deidentificato (ivi, p. 563). Nel “regime della funzionalità”, spiega ancora Galimberti, le “psicologie dell’adattamento” sono diventate egemoni:

Questo spiega perché egemoni diventano nell’età della tecnica quelle psicologie dell’adattamento il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all’apparato. Non diversamente si spiega il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo, e il successo del cognitivismo e del comportamentismo. Il primo per aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto “originale” della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’“autenticità”, l’“essere se stesso”, il “conoscere se stesso”, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della saluta dell’anima, diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico (ivi, p. 657-658).

Tra l’orizzonte dispiegato dalle riflessioni di Galimberti e le tematiche affrontate da Carl Rogers il passo è breve. Nel passo appena letto, il filosofo non fa altro che rilevare quella “deidentificazione” dell’uomo che Rogers, da un’altra prospettiva, comprende a partire dallo spostamento del locus di valutazione dall’interno all’esterno dell’uomo. Non è un caso, infatti, che l’illustre psicologo statunitense, nella sua lista di valori introiettati dall’uomo contemporaneo (C. Rogers, Verso un moderno approccio ai valori, pp. 23-24), citi una serie di cose riconducibili al “regime della funzionalità” a cui fa riferimento Galimberti, e che s’impongono all’uomo così intensamente da fargli dimenticare che non tanto ciò che uno ha, ma ciò che uno è (distinzione di Schopenhauer), è la causa del benessere interiore:

La maggior pare di questi valori è introiettato da altri individui o gruppi significanti per l’individuo, ma sono considerati da lui come propri. 

La fonte o locus della valutazione sulla maggior parte degli argomenti risiede al di fuori di lui. 

Il criterio attraverso il quale vengono fissati questi valori è la misura in cui faranno sì che l’individuo sia amato o accettato. 

Queste preferenze ideali o non sono affatto collegate, o non sono ben collegate al processo di esperienza dell’individuo. 

Vi è spesso un’ampia e non riconosciuta discrepanza tra i dati di realtà forniti dall’esperienza dell’individuo e questi valori ideali. […]

Se l’individuo ha assorbito dalla comunità il concetto che il denaro è il sommo bene, e dalla Chiesa il concetto che l’amore per il prossimo è il valore massimo, non ha alcun modo di scoprire quale delle due cose abbia maggior valore per lui (C. Rogers, Verso un moderno approccio ai valori, p. 25). 

“Lui”, la sua identità, la possibilità della sua realizzazione risultano interamente compromesse laddove il “valore dei soggetti viene definito dai dispositivi che li organizzano” (S. Natoli, L’edificazione di sé, p. 63). L’allontanamento da sé, l’appassimento delle proprie possibilità inespresse, “l’impersonalità della serie” che destina l’uomo alla deidentificazione costituiscono quella serie di elementi eziopatogenetici che la terapia centrata sul cliente cerca, invece, di invertire in vista di un ritorno genuino e riconciliante al Sé in quanto fulcro esistenziale e snodo principale delle forze spirituali che attendono di essere liberate per realizzarsi in un progetto compiuto di vita.

Un passo interessantissimo dell’opera di Carl Rogers che, in conclusione, riconferma dal punto di vista non più filosofico ma terapeutico quanto scritto fino a questo punto è il seguente:

[Nel corso della terapia] appare chiaro che si verifica un movimento dai sintomi al sé. L’esplorazione del cliente in un primo momento tocca svariati aspetti, ma a poco a poco viene concentrandosi sempre di più sul sé. Che tipo di persona sono? Quali sono i miei veri sentimenti? Qual è il mio vero sé? La conversazione è centrata sempre più su questi argomenti. Non soltanto c’è movimento dai sintomi al sé, ma dall’ambiente al sé e dagli altri al sé. Cioè il cliente manipola verbalmente la sua situazione, dedicando parecchio tempo all’analisi sia degli elementi diversi ed estranei al sé, sia di quelli che sono dentro lui stesso. A poco a poco egli arriva a esplorare prevalentemente se stesso fino quasi a escludere ciò che non fa parte del sé (C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, pp. 128-129).

Un consapevole “ripiegamento su di sé” finalizzato al ristabilimento del contatto dell’uomo con la sua esperienza interiore – come nell’infanzia – e il trasferimento del locus di valutazione dall’esterno all’interno dell’individuo appaiono come gli unici rimedi per ricostruire dai frammenti sparsi e, si spera, non annichilati, quell’identità perduta la cui assenza è motivo di indicibili sofferenze. In conclusione si può affermare che lo splendido verso di D. Walcott, “Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io”, coglie perfettamente il cuore della terapia rogersiana finalizzata alla restituzione dell’uomo a se stesso.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Galimberti U. (2011). Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano.
  • Natoli S. (2015). L’edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore, Laterza, Roma-Bari.
  • Rogers C. R. (2007). Terapia centrata sul cliente, Fabbri Editori, Milano.
  • Rogers C. R. (2007). Verso un moderno approccio ai valori: il processo di assegnazione di valore nella persona umana in C. R. Rogers, B. Stevens, Da persona a persona. Il problema di essere umani, trad. it. di S. Maddaloni, Fabbri Editori, Milano.
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