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Dalla filosofia della medicina alla psicologia della cura: la prevenzione dell’errore diagnostico-clinico

L’errore diagnostico-clinico può assumere differenti morfologie e fenomenologie, è causato da svariati fattori ed esistono diverse modalità per prevenirlo

Di Vincenzo Amendolagine

Pubblicato il 16 Feb. 2022

Frequentemente l’errore diagnostico-clinico è legato al numero elevato di decisioni che l’operatore sanitario deve prendere contemporaneamente.

 

Abstract

La scienza nel suo percorso evolutivo, attraverso l’epistemologia, ha sempre sottoposto al processo di verificazione o di falsificazione i suoi assiomi. In base alla datità empirica via via riscontrata, alcuni paradigmi sono venuti meno per lasciare il posto a cognizioni sintoniche con i nuovi saperi scientifici reperiti. Nell’ambito sanitario un ruolo di rilievo lo riveste l’errore diagnostico-clinico, che spesso inficia le buone prassi terapeutiche. L’errore diagnostico-clinico può assumere differenti morfologie e fenomenologie ed essere causato da svariati fattori. Esistono molteplici modalità per prevenirli, fra esse è di notevole importanza la relazionalità che si struttura tra operatore sanitario e utente, che diviene l’archetipo fondante di una psicologia della cura, attenta a prevenire l’errore diagnostico – clinico.

Keywords: epistemologia, errore diagnostico-clinico, psicologia della cura.

La filosofia della medicina: dalla prevenzione dell’errore diagnostico-clinico al principio di causazione della patologia

Una delle problematiche che la filosofia della scienza, in generale, e la filosofia della medicina, in particolare, hanno dovuto sempre affrontare è stata quella di superare i propri errori per giungere a dei saperi che trascendessero queste mistificazioni con l’intento di costruire dei saperi scientifici euristicamente veri, che si differenziassero dagli assunti della pseudoscienza (Amendolagine, 2020). Questo riveste una particolare valenza euristica soprattutto nel campo diagnostico – clinico, in quanto l’errore medico può inficiare sia la diagnostica, fuorviando e alterando l’accertamento della patologia, ma soprattutto il percorso terapeutico, non aiutando il paziente a superare la propria malattia per raggiungere la guarigione.

Solitamente l’iter terapeutico – diagnostico ha una sua metodologia, che si estrinseca in alcune tappe procedurali, quali:

inserimento del paziente all’interno di un quadro nosografico consolidato;
ricerca delle cause scatenanti del morbo e spiegazioni attraverso modelli biologici;
formulazione della prognosi;
formulazione di una strategia terapeutica più o meno complessa (Lo Sapio, 2012, pp. 206).

La formulazione di una diagnosi ha in sé un margine di fallacia, in quanto malgrado le osservazioni cliniche, le indagini ematochimiche e i risultati della diagnostica strumentale non si può essere certi in maniera assoluta del quadro clinico ipotizzato, per cui la diagnosi può essere definita probabilistica, in quanto quella reperita è la più probabile.

L’errore clinico può nascere in ambito diagnostico per incompletezza dell’osservazione, confusione tra l’osservazione di un fenomeno e interpretazione della stessa […], ancora per enumerazione incompleta delle ipotesi diagnostiche plausibili e infine dall’errata interpretazione dei quadri sintomatologici (Ibidem, pp. 208).

Una procedura importante nella filosofia della medicina, dal punto di vista epidemiologico, è quella di stabilire un processo di causazione, ovvero determinare la causa di una patologia per evitare che la malattia sorga con maggiore frequenza e si abbia, quindi, una maggiore conoscenza dei meccanismi patogenetici che la determinano ai fini della prevenzione dell’errore diagnostico-clinico.

A questo riguardo Evans (1978) propose alla fine degli anni Settanta del secolo scorso

un suo fecondo modello di interpretazione e di gestione dei complessi causali suddiviso in otto punti:

  • la malattia deve avere prevalenza più alta nei soggetti esposti al fattore;
  • la presenza dell’esposizione è riscontrata con maggiore frequenza nei malati che nei sani;
  • l’incidenza deve essere più alta negli esposti;
  • l’esposizione deve precedere la malattia;
  • si deve poter misurare un gradiente biologico nelle reazioni dei soggetti;
  • la malattia deve essere riproducibile sperimentalmente;
  • l’eliminazione della ipotetica causa deve far diminuire l’incidenza della malattia;
  • la modificazione di caratteristiche dell’ospite deve far registrare diminuzioni dei casi di malattia (in caso di trattamento terapeutico) (Ibidem, pp. 212).

Le differenti tipologie degli errori diagnostico-clinici

Diversi Autori si sono occupati degli errori diagnostico-clinici, classificandoli secondo nomenclature differenti. A questo riguardo, Rasmussen, Duncan e Leplat (1987) suddividono gli errori in:

  • skill-based behaviour: sono gli errori che in ambito medico possono derivare da condotte automatiche, fatte senza pensarci. All’individuo si propone uno stimolo cui reagisce meccanicamente senza porsi problemi d’interpretazione (Commissione Tecnica sul Rischio Clinico, 2004, pp. 5);
  • ruled-based behaviour: si mettono in atto dei comportamenti, prescritti da regole, che sono state definite in quanto ritenute più idonee da applicare in una particolare circostanza. Il problema che si pone all’individuo è di identificare la giusta norma per ogni specifica situazione attenendosi ad un modello mentale di tipo causale (Ibidem);
  • knowledge-based behaviour: si tratta di comportamenti messi in atto quando ci si trova davanti ad una situazione sconosciuta e si deve attuare un piano per superarla. È la situazione che richiede il maggiore impiego di conoscenza e l’attivazione di una serie di processi mentali che dai simboli porteranno all’elaborazione di un piano per raggiungere gli obiettivi (Ibidem).

Secondo Reason (1990), gli errori diagnostico-clinici possono essere classificati in:

  • errori di esecuzione che si verificano a livello di abilità (slips): in questa categoria vengono classificate tutte quelle azioni che vengono eseguite in modo diverso da come pianificato (Ibidem, pp. 6);
  • errori di esecuzione provocati da un fallimento della memoria (lapsus): questi errori sono generati da lacune che si strutturano nell’ambito della memoria dell’operatore sanitario;
  • errori non commessi durante l’esecuzione pratica dell’azione (mistakes): si tratta di errori pregressi che si sviluppano durante i processi di pianificazione di strategie: l’obiettivo non viene raggiunto perché le tattiche ed i mezzi attuati per raggiungerlo non lo permettono (Ibidem).

Il rapporto della Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (2004) suddivide gli errori diagnostico-clinici in due categorie, ovvero la categoria generale e la categoria specifica.

La categoria generale comprende:

  • errori di commissione: questa categoria raggruppa tutti gli errori dovuti all’esecuzione di atti medici o assistenziali non dovuti o praticati in modo scorretto (Ibidem, pp. 8);
  • errori di omissione: questa categoria raggruppa tutti gli errori dovuti alla mancata esecuzione di atti medici ed assistenziali ritenuti, in base alle conoscenze e all’esperienza professionale, necessari per la cura del paziente (Ibidem).

La categoria specifica include alcuni errori che possono verificarsi in situazioni particolari, quali:

  • errori nell’uso dei farmaci;
  • errori durante le procedure chirurgiche;
  • errori nell’uso di apparecchiature diagnostiche;
  • errori nelle procedure diagnostiche;
  • errori nella tempistica della cura.

Frequentemente gli errori in ambito diagnostico – clinico, secondo Cricelli e Zaninelli (2019), sono legati al numero elevato di decisioni che l’operatore sanitario deve prendere contemporaneamente. Tali decisioni includono la diagnosi iniziale, le opzioni di trattamento, cura, assistenza post-ospedaliera, proseguimento della cura e riabilitazione, decisioni cliniche (Cricelli e Zaninelli, 2019, pp. 34).

Molti degli errori diagnostico-clinici possono essere superati implementando alcune abilità che il sanitario deve possedere, quali:

il possesso di conoscenze teoriche aggiornate (il sapere);
il possesso di abilità tecniche o manuali (il fare);
il possesso di capacità comunicative e relazionali (l’essere) (Ibidem).

La psicologia della cura: la prevenzione dell’errore diagnostico-clinico

Sovente alcuni degli errori che sono commessi in ambito diagnostico – clinico sono imputabili all’alterata relazionalità che si struttura fra curante e curato: infatti, una relazione positiva che si instaura fra il medico e il suo paziente consente di diminuire il margine di errore e le complicanze che si instaurano nel percorso di cura. In molte situazioni la relazionalità fra le due alterità si finalizza esclusivamente alla determinazione della diagnosi e alla gestione del percorso clinico, escludendo altri fattori comunque importanti.

Quando il medico entra in relazione con un paziente, deve tener conto del fatto che le sue reazioni e i suoi comportamenti saranno condizionati da diversi fattori:

  • la concezione che ciascun paziente ha di salute e di malattia;
  • le esperienze che il paziente ha vissuto nel corso della vita, in base alle quali ha sviluppato le proprie conoscenze, aspettative e credenze;
  • le regole del sistema familiare a cui appartiene, che determinano ruoli, funzioni e comportamenti suoi e degli altri membri;
  • le abitudini consolidate, che ritiene di non poter cambiare;
  • le conseguenze per se stesso e per gli altri provocate dagli eventuali cambiamenti nelle abitudini e nello stile di vita determinati dalla malattia (Ripamonti, 2015, pp. 184).

La relazionalità, quindi, fra il medico e il paziente è condizionata da differenti fattori, che frequentemente hanno l’archetipo fondante nelle passate storie di vita, negli stereotipi e nei pregiudizi che costituiscono la mappa cognitiva di ciascuno e nell’emotività individuale.

Le reazioni emotive del medico sovente elicitano condizioni di scarsa lucidità, responsabili di errori in ambito diagnostico – clinico. Fra di esse si possono citare l’ansia, la depressione, la negazione e la proiezione (Ripamonti, op. cit.).

Frequentemente l’ansia nel sanitario che si interfaccia con il paziente può nascere dalla paura di commettere uno sbaglio, facendo, ad esempio, una diagnosi non esatta con un conseguente errato percorso terapeutico. Per ovviare a questa emozione dolorosa il medico prende le distanze dal paziente, trincerandosi dietro la considerazione esclusiva della diagnosi e della terapia, escludendo ogni fattore umano implicato nel percorso diagnostico – terapeutico.

La depressione provata dal medico può essere alla base di una sua mistificazione diagnostico – terapeutica, allorquando si rende conto di poter fare molto poco per il paziente e per la sua guarigione.

La negazione subentra nel momento in cui il medico nega il diritto di cittadinanza alle sue emozioni: il riconoscerle e l’elaborarle è un modo per non permettere ad esse di inficiare la sua lucidità mentale, il cui venir meno è alla base di molti errori diagnostico-terapeutici.

Altra modalità che permette un alto margine di errore è rappresentata dalla proiezione. In altri termini il medico proietta sul paziente le proprie conflittualità interiori, ascrivendo al curato vissuti, emozioni e cognizioni che non gli appartengono.

La relazionalità fra medico e paziente: i differenti modelli operativi nel percorso diagnostico – terapeutico

Emanuel ed Emanuel (1992), citati in Ripamonti (op. cit.), hanno individuato cinque relazionalità che si possono strutturare fra medico e paziente, ovvero:

  • la relazionalità informativa;
  • la relazionalità paternalistica;
  • la relazionalità interpretativa;
  • la relazionalità deliberativa;
  • la relazionalità assertiva.

Nella relazionalità informativa viene sviluppato il polo razionale, ovvero il medico fornisce al paziente tutte le informazioni che a livello scientifico possono essere elicitate per fornire delucidazioni riguardo alla diagnosi della patologia e al percorso clinico. La criticità di tale modello è che il paziente viene inondato di informazioni che spesso non è in grado di comprendere fino in fondo.

Nella relazionalità paternalistica il medico si pone nei confronti del paziente come se fosse una vicariazione di una figura genitoriale positiva e in questa circostanza decide per lui, rassicurandolo sull’eventuale insorgenza di problematicità nell’ambito del percorso diagnostico e curativo. Il rischio che questa relazionalità corre è quella di sottovalutare la realtà oggettiva in una sorta di paternalismo poco realistico.

Nella relazionalità interpretativa il medico si interfaccia con il soggetto come se fosse un consigliere che interpreta le cognizioni, le emozioni e i comportamenti del paziente, conducendolo a delle decisioni che sembrano l’interpretazione euristica del suo pensiero.

Nella relazionalità deliberativa il medico spinge il paziente verso un’autonomia decisionale, fornendo tutti gli elementi che dal punto di vista cognitivo, emotivo ed esperenziale possono spingere il curato a prendere la migliore decisione in quel momento, partendo dalla convinzione che il migliore medico di sé è proprio il soggetto stesso.

Nella relazionalità assertiva il medico giunge subitaneamente alla diagnosi e alla terapia e, nell’ambito di un singolo incontro, comunica al paziente le sue convinzioni riguardo al percorso diagnostico – terapeutico, non ammettendo repliche o dissensi riguardo a ciò.

In conclusione, per prevenire l’errore diagnostico terapeutico sarebbe opportuno seguire alcune indicazioni, quali:

ascoltare il paziente senza dare nulla per scontato;
cercare il senso di quello che sta comunicando il paziente;
non essere frettolosi nel fare una diagnosi;
astenersi dal giudicare;
non porsi su un piano di contrapposizione (Ripamonti, op. cit., pag. 199).

 

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Vincenzo Amendolagine
Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta psicopedagogista. Insegna come Professore a contratto presso la Facoltà/Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Amendolagine, V. (2020). Elementi di filosofia della scienza. Lecce: Libellula Edizioni Universitarie.
  • Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (2004). Risk management in Sanità. Il problema degli errori. Roma: Ministero della Salute. Dipartimento della Qualità. Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, dei Livelli Essenziali di Assistenza e dei Principi Etici di Sistema. Ufficio III.
  • Cricelli, C., Zaninelli, A. (2019). La prevenzione dell’errore in medicina e l’impiego della simulazione medica. Rivista Società Italiana di Medicina Generale, 1 (26), pp. 34 - 37.
  • Emanuel, E., J., Emanuel, L., L. (1992). Four models of the physician-patient relationship. JAMA, 267, 16, pp. 2221 - 2226.
  • Evans, A., S. (1978). Causation and Disease: a Chronological Journey. American Journal of Epidemiology, 108 (4), pp. 249 - 258.
  • Lo Sapio, L. (2012). Filosofia della Medicina: spunti di riflessione e modelli teorici. S&F, 8, pp. 203 - 220.
  • Rasmussen, J., Duncan, K., Leplat, J. (1987). New technology and human error. Chichester (GB): Wiley.
  • Reason, J. (1990). Human error. Cambridge (GB): Cambridge University Press.
  • Ripamonti, C., A. (2015). Manuale di psicologia della salute. Bologna: Il Mulino.
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