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I veri bisogni personali al tempo del Covid, la scoperta del Sé come regolatore dell’ansia

Quali ricadute emotive possono sperimentare bambini e ragazzi in pandemia? Com’è possibile attuare un supporto adeguato alla loro età e alle loro esigenze?

Di Maria Cristina Arpaia

Pubblicato il 22 Dic. 2021

Aggiornato il 23 Dic. 2021 14:00

Sono gli adulti che hanno trovato un equilibrio tra ansia e paure ad essere in grado di aiutare bambini e adolescenti ad esprimere e gestire le emozioni suscitate dalla pandemia.

 

Il modello globale della società contemporanea è stato notevolmente messo in crisi dalla pandemia Covid, non solo per il ridimensionamento della sua aspirazione all’allargamento dei confini fisici ma anche per la frustrazione dei bisogni intrinseci, afferenti alla sfera del soggetto in rapporto con se stesso. Come Maslow ci ricorda, (in Motivation and Personality del 1954) i bisogni sono il propulsore della persona e in base al loro ordine gerarchico influenzano più o meno ampiamente i suoi vari aspetti: da quelli esclusivamente fisiologici fino ad arrivare alla psiche. Con la nuova situazione emergenziale che siamo stati tutti costretti a vivere, dalla famosa piramide con cui Maslow li ha classificati, i veri bisogni emergenti non sono stati quelli di base (mangiare, bere, dormire), bensì i bisogni sociali e di realizzazione del Sé. In particolare, gli adolescenti e i bambini sono stati travolti dall’emergenza sanitaria e menomati nelle loro più ordinarie ed esistenziali aspirazioni: la socialità, l’educazione, il movimento fisico, il gioco, le attività ricreative, ma anche la motivazione a fare, la paura. Quali ricadute emotive ci possono essere sui ragazzi? Com’è possibile attuare un supporto adeguato alla loro età e alle loro esigenze per affrontare le conseguenze delle ripercussioni della pandemia?

Pandemia e bisogni in età evolutiva

La risposta a queste domande non è un fare, non una strategia, un modello di comportamenti da applicare, ma la riscoperta che l’origine del senso di sicurezza nel bambino è in una relazione.

È in essa, esprimendosi in una riflessione apparentemente assai elementare, l’unica possibilità di accorgersi primariamente dei loro bisogni.

Chi deve accorgersi dei loro bisogni primari? Quegli adulti che, avendo trovato un personale equilibrio tra ansia e paure, possano aiutare i minori ad esprimere le loro emozioni e affrontare rispettive paura e ansia. Si tratta qui di bisogni altrettanto primari, anche se non sono come il mangiare e il bere.

Non è affatto scontato che questi adulti siano i genitori, ma questi possono essere messi in grado attraverso un sostegno alla genitorialità, ad ampio spettro, di acquisire la consapevolezza dei loro limiti e dei loro punti di forza. Per i più piccoli, in particolare, è fondamentale la possibilità di immedesimazione con le potenzialità riparatrici dell’adulto: da questi essi possono imparare, non tanto dei comportamenti, quanto lo sguardo con cui essi si muovono nella realtà. I bambini imparano per osmosi, respirano l’essere dei genitori più che assimilare i loro precetti, seppure saggi e legittimi, funzionali, in molte situazioni. Infatti, i piccoli sono più spaventati dalla paura dell’adulto che dalla paura che nasce direttamente dal pericolo.

L’esperienza mostra con evidenza quanto sia fondamentale restare su un piano di realtà: i genitori non sono invincibili, non sono super-eroi, ma persone che mostrano come si possa stare umanamente di fronte ai pericoli, anche quelli invisibili dei virus. Come si evince, in programma non c’è un fare, delle regole da applicare e far applicare, ma la consapevolezza di una relazione, di essere in relazione con i propri figli. Da questa consapevolezza nasce pure un fare, ma secondariamente.

Come ci ricorda Kohut (e la sua Psicologia del Sé), il punto centrale dell’educazione (che è quel tipo peculiare di relazione che intercorre tra genitori e figli) è porre il focus sulle relazioni esterne come condizione per l’autostima e la coesione del Sé.

Possiamo capire di più di questa relazione se ne consideriamo l’elemento centrale: il Sé, fulcro della teorizzazione di Kohut. Si tratta di un concetto che si riferisce ad un aspetto molto reale e concreto della personalità – di un adulto e di un bambino –  perché la vita psicologica fin dal suo inizio è una relazione tra il Sé e l’oggetto-Sé. Quest’ultimo è, nel tema che stiamo trattando, il genitore, ed ha una funzione di supporto narcisistico allo sviluppo dell’identità del bambino.

Ci viene in soccorso la psicoanalisi per mostrare un dato di realtà: i genitori (o il caregiver in generale) concorrono sia al mantenimento degli investimenti del Sé, sia all’esperienza nei figli di sentire i genitori stessi come parte del proprio Sé. Kohut chiama internalizzazione trasmutante quel processo naturale attraverso cui il bambino assimila a poco a poco le funzioni psicologiche, che gli sono fornite inizialmente dall’oggetto esterno.

Prima di un evento terrorizzante, come può essere lo stravolgimento dello stile di vita causato dalla pandemia, vi è pertanto la personalità; l’evento terrorizzante non infierisce su un terreno incolto, ma su un campo con una sua precisa destinazione a coltura, coltivata dalla relazione genitoriale: una personalità che, nel rapporto con i genitori, ha potuto prendere una direzione piuttosto che un’altra.

Lo sviluppo equilibrato e funzionale si appoggia su un ambiente responsivo nei confronti dei bisogni del bambino, ma questi bisogni sono innanzitutto di legame e di appoggio.

Dopo Freud, sia esso investito di libido o di affetti, che sia interno oppure esterno, è incontestabile che l’oggetto (in psicoanalisi si intende la persona, qui il genitore) svolga una funzione essenziale nel processo di maturazione e sviluppo del bambino, attraverso cui passa quel nutrimento emozionale, primario bisogno.

Emozioni e pandemia

Sono proprio le emozioni il tema dominante in questa pandemia. Le emozioni possono essere contenute se il genitore fa l’esperienza di essere il contenitore adeguato al bambino. Come il terapeuta nella psicoterapia non deve sostituire la posizione narcisistica del paziente con un amore oggettuale (cioè frustrare l’espressione del Sé del paziente perché la scelta oggettuale sembrerebbe più matura), così il genitore può calmare il bambino non innanzitutto insegnandogli/imponendogli dei comportamenti esteriori di fronte a una difficoltà, ma facendo emergere, conoscendo le risorse del bambino, i suoi aspetti personali (per alcuni bambini può essere la curiosità di conoscere, per altri la rassicurazione di un abbraccio, per altri ancora la conoscenza logica di un fatto, ecc ecc, a seconda delle caratteristiche evolutive specifiche di ciascun bambino, nel momento preciso del suo sviluppo) così da convogliare queste caratteristiche verso una integrazione di quelle che sono strutture psicologiche primitive del bambino. L’integrazione cioè nasce dall’equilibrio delle diverse funzioni fisiologiche: la paura può non essere esclusivamente guidata dall’auriga dell’emotività, ma accompagnata alle altre funzioni della mente, facendo leva sulle caratteristiche del bambino. Appare ovvio che si tratti di un lavoro/strategia eminentemente personale, ad hoc per ciascuna relazione bambino/adulto. Nella vita ordinaria, non stravolta da eventi drammatici, è attraverso un rapporto che si stabilisce il Sé del bambino, nella misura in cui i caregiver rispondono empaticamante a certe sue potenzialità. Le risposte empatiche dell’ambiente sono quindi determinanti al fine di un funzionale ed equilibrato sviluppo psicologico del bambino. La ragione sta nel fatto che il genitore possiede un’organizzazione psicologica matura che può supportare l’organizzazione psichica del bambino, ancora incompleta e immatura. Per questo è importante innanzitutto come l’adulto affronta l’evento drammatico per sé, perché il come passa per osmosi al figlio.

La configurazione psicologica primaria del bambino, infatti, è costituita dal suo bisogno di un oggetto-Sé, per dirla con Kohut; non il desiderio del cibo, primariamente, ma il bisogno che la persona che si prende cura di lui gli fornisca il cibo, ossia il bisogno di essere nutrito in maniera empaticamente modulata.

Nei casi in cui si lasci insoddisfatto questo bisogno è l’intera configurazione psicologica del bambino, la sua unitarietà, che viene esperita come disintegrata.

Ovviamente, non si richiede ai genitori che sappiano rispondere in maniera empatica sempre e perfettamente, oppure che mostrino una ammirazione irrealistica per i propri figli.

Nello sviluppo ordinario o straordinario (come nel caso di pericoli dall’esterno) il Sé sano nasce dalla capacità dell’adulto di avere una risonanza speculare adeguata almeno per la maggior parte del tempo: infatti, come ci ricorda sempre Kohut, ciò che non è funzionale non è il fallimento occasionale dell’adulto, ma la sua incapacità cronica di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino. La risposta alla domanda iniziale, almeno nelle sue determinazione generali, sta dunque nella considerazione che il primo compito di un genitore non sia il  progetto educativo del bambino, ma una tentata consapevolezza di sé, come polo autonomo di giudizio e relazione.

Il vero ed essenziale bisogno è dunque crescere in un rapporto empatico e comprensivo (cum prehendere: tenere insieme, contenere elementi eterogenei) dove il bambino si senta accolto e contenuto nell’interezza della sua persona, premessa indispensabile per la realizzazione di un nuovo adulto.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Kohut, H. (1980). La ricerca del sé, Bollati Boringhieri.
  • Maslow, A. (2010). Motivation and Personality del 1954 Armando Editore.
  • Rayner, E. (1995). Gli indipendenti nella psicoanalisi britannica, Cortina.
  • Green, A. (1990). La pulsione e l’oggetto, in B. Brusset, La psicoanalisi del legame. La relazione d’oggetto, Borla.
  • Kohut, H. (2012). Introspezione, empatia e psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e teoria, in La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri.
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