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Il concetto di morte per chi soffre di anoressia

In chi soffre di anoressia, l’avvicinarsi sempre di più ad un futuro morente a causa del deperimento fisico, non viene percepito, e neanche compreso

Di Rossella Ottaviani

Pubblicato il 13 Dic. 2021

Aggiornato il 08 Feb. 2024 14:52

L’anoressia porta la persona che ne soffre ad avere un rapporto emblematico con la morte stessa.

 

L’uomo solitamente dà alla morte un significato che va ben oltre il suo reale aspetto naturale. La morte può infatti essere pensata, ragionata, fantasticata, temuta ed anche idealizzata (Morin & Bellusci, 2021).

In alcune menti, come in quelle di chi soffre di anoressia, l’avvicinarsi sempre di più ad un futuro morente a causa del deperimento fisico, non viene percepito, e neanche compreso, come uno degli scenari futuri possibili. Questo ci pone di fronte ad una vera e propria contraddizione: chi soffre di anoressia, nonostante abbia in mente il concetto di morte e le diverse condizioni che possono portare ad essa, decide inconsapevolmente di andarle incontro in modo del tutto spontaneo e graduale (De Clerq & Birattari, 2013).

Caratteristiche dell’anoressia

Partendo da questo presupposto, al fine di affrontare tale questione, è fondamentale andare ad analizzare il termine anoressia, il cui significato etimologico è mancanza di appetito, di fame (Treccani, 2017).

Una fame non unicamente legata al cibo, ma anche al desiderio di vita.

Una persona che desidera vivere è una persona in grado di “diventare corpo”, di acquisire forma e sostanza, è qualcuno capace di dar forma ai propri desideri ed obiettivi, capace di evolvere e dunque di diventare altro rispetto a quello che è nel presente. Tale processo evolutivo è differente in quei soggetti in cui prevalgono dinamiche di violenza, trascuratezza o in cui prevale una ricerca ossessiva al perfezionismo (Ciccolini & Cosenza, 2015).

In questi ultimi la spinta nel voler “prendere corpo” non esiste, perché bloccata da quanto vissuto, così l’impossibilità di “prendere corpo” nel tempo si trasforma in un rifiuto di quest’ultimo.

Procedendo in questo modo, il concetto di crescita prende forma nel suo opposto: si può “prendere corpo” solo nel momento in cui lo si perde. Matura così l’idea di dover diventare più magri.

Ed è qui che tutto questo si trasforma nella possibilità di una nuova rinascita, nella possibilità di poter essere quello che si vorrebbe essere o quello che non si è riusciti ad essere. Questa aspirazione può così portare l’anoressica ad intraprendere tale “carriera suicida” (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Chi osserva dall’esterno un corpo anoressico può notare come questo incarni la morte, di cui prende così le sembianze: il volto scavato, il corpo quasi inesistente (De Clerq & Birattari, 2013).

Un’immagine corporea che però non assume lo stesso significato per chi soffre di tale disturbo che, invece, guardandosi allo specchio, non vede un corpo in fin di vita, ma un corpo vitale capace di esistere solo nel momento in cui ha raggiunto un peso specifico (Cosenza, 2008).

Il corpo anoressico, rappresenta così quello che non si è riusciti ad essere, un insieme di tentativi falliti, rappresenta l’incapacità di poter dare voce alla propria persona e dunque alla propria essenza, l’incapacità di esistere e stare al mondo ma, allo stesso tempo, è l’unica modalità attraverso cui la persona riesce a comunicare tutto questo. Si tratta quindi di una sofferenza radicata e profonda che l’individuo nasconde dietro una forte dinamica di controllo personale.

Il corpo riflette l’identità della persona ed è il palcoscenico su cui prendono forma tutti gli elementi psichici espressi dalla sua mente (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Attraverso la perdita di peso, la persona acquisisce una forte carica vitale, capace di darle l’illusione di avere tutto sotto controllo.

Anoressia e restrizione

Alcuni studi hanno dimostrato come nel comportamento di rifiuto del cibo, sia coinvolto il circuito dopaminergico di reward, ovvero un sistema di connessioni cerebrali capaci di promuovere comportamenti volti a favorire un buon adattamento dell’individuo all’ambiente, garantendone così la sopravvivenza. È stato osservato come le aree cerebrali che si attivano in chi soffre di anoressia, siano le stesse presenti in chi fa uso di droghe e dunque capaci di favorire lo sviluppo di una vera e propria dipendenza. Nel caso del sintomo anoressico, parliamo però di una “dipendenza da privazione” ed è proprio questa che rende le anoressiche capaci di resistere e quindi di non rispondere alle proprie esigenze corporee. L’organismo infatti, nelle prime fasi di privazione da cibo, si attiva, andando ad innalzare il livello di funzionamento del soggetto, rendendolo in questo modo pieno di energie ed iperattivo; il tutto con lo scopo di favorirne la sopravvivenza (Fakhour, 2021).

Tali risvolti fisici, accompagnati dai tratti psichici della persona, non fanno che intensificare il comportamento anoressico e dunque il disturbo stesso, intrappolando così l’individuo all’interno di un mortale circolo vizioso.

Davanti a questo scenario è però importante rivolgere il proprio sguardo anche ai modelli proposti dalla società in cui viviamo. Ogni giorno veniamo bombardati da immagini preconfezionate di corpi perfetti che ci spingono a voler raggiungere standard inesistenti, anche quando questi non sono altro che la rappresentazione di persone incapaci di prendersi cura di sé, di nutrirsi e sostenersi.

Tali modelli non fanno che creare un senso di inadeguatezza ed insoddisfazione per la propria immagine corporea, andando in questo modo ad incentivare sempre di più il sintomo anoressico, direzionando così l’individuo ad un rischio di mortalità sempre più alto (De Clerq & Birattari, 2013).

Chi soffre di anoressia non percepisce il pericolo di vita, ma nel momento stesso in cui si rende conto di aver raggiunto il limite, allora percepisce di aver raggiunto il giusto livello di magrezza, quella magrezza che ora gli permette di poter “prendere corpo” e di poter così affrontare il mondo, nonostante la sua condizione fisica reale sia molto lontana dall’immagine di un corpo sano ed energico (De Clerq & Birattari, 2013).

L’anoressia è dunque la manifestazione di un disagio interiore che viene ribaltato all’esterno, così facendo il soggetto identifica il proprio corpo come una scala attraverso cui valutarsi e darsi o levarsi valore, con cui affrontare le proprie paure e ciò che lo circonda. Una scala valoriale che, se portata all’estremo, può condurre alla morte stessa (Siegel & Brisman, Judith & Weinshel, Margot., 1995).

Partendo da questo presupposto, possiamo notare come il sintomo anoressico non sia quindi la manifestazione di un tentato suicidio da parte dell’individuo, ma risulti essere l’unico mezzo attraverso cui il soggetto riesce effettivamente ad esistere, a “prender corpo”. L’individuo dà così un significato alla propria identità basandosi sul livello di magrezza raggiunto e questo perché il disturbo si manifesta attraverso il corpo, ma allo stesso tempo ne è infettata anche la psiche, condizionando tutti quei costrutti con cui il soggetto crea le rappresentazioni che ha di sé. Così la battaglia che intraprende chi soffre di anoressia nei confronti del proprio corpo, rappresenta un fallimento dei processi di rappresentazione e simbolizzazione mentale. In questi casi, il corpo diventa il capro espiatorio da poter colpire in ogni momento (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Il problema di fondo quindi non è il corpo, l’essere magri o grassi, ma è il significato ed il valore che l’individuo attribuisce alla propria identità.

Attraverso il lavoro clinico è dunque possibile accedere alle rappresentazioni mentali che il soggetto ha di sé e del suo “sentire”. Un sentire non costituito solo da affetti o pensieri ma da forti reazioni corporee, che spesso infastidiscono il soggetto e lo costringono a dar loro ascolto con rabbia e falsa comprensione.

Il lavoro clinico eseguito da un’equipe multidisciplinare integrata, permette di agire su tali rappresentazioni mentali andando a modificarle e aiuta la persona a divenire consapevole del pericolo mortale a cui sta andando incontro. Si può così scardinare la convinzione secondo cui si riesce a “vivere” solo raggiungendo un peso specifico, aiutando in questo modo l’individuo a divenire realmente corpo senza invece perderlo del tutto (Ciccolini & Cosenza, 2015).

 


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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ciccolini, L., & Cosenza, D. (2015). Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali. Milano: Franco Angeli.
  • Cosenza, D. (2008). Il muro dell'anoressia. Roma: Astrolabio.
  • De Clerq, F., & Birattari, M. (2013). Fame d'amore: Donne oltre l'anoressia e la bulimia (6. ed.). Milano: BUR Rizzoli.
  • Fakhour, M. (2021). The Brain Reward System: Humana Pr inc.
  • Morin, E., & Bellusci, F. (2021). L'uomo e la morte. Trento: Il margine.
  • Siegel, M., & Brisman, Judith & Weinshel, Margot. (1995). Come sopravvivere all'anoressia e alla bulimia: Strategie per famiglie e amici. Verona: Positive Press.
  • Treccani: Dizionario della lingua italiana (2017). Roma, Firenze: Istituto della Enciclopedia italiana; Giunti T.V.P.
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