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Giornata mondiale della salute mentale: commercializzazione o sensibilizzazione?

Per quanto la Giornata Mondiale della Salute Mentale sia un'occasione di apertura al dialogo sul tema, non è esente dal rischio di essere strumentalizzata

Di Matteo Bessone

Pubblicato il 17 Nov. 2021

Ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale.

 

Le giornate internazionali sono una recente istituzione occidentale, costituiscono insieme uno degli esiti e degli strumenti di un processo di globalizzazione della cultura dei diritti umani nel tentativo di definire le sfide più rilevanti per la comunità globale sensibilizzando l’opinione pubblica rispetto ai temi più disparati. In questo sforzo, i risultati sono paradossali: le giornate si sono moltiplicate così come le soggettività che rivendicano un’attenzione particolare, talvolta senza alcuna connessione o interesse ai problemi reali delle società.

Non è un segreto che queste ricorrenze costituiscano un’occasione importantissima all’interno delle strategie di marketing per molti grandi attori privati, oltre che per affrontare temi talvolta negletti nel dibattito pubblico, come è stato, per lungo tempo, quello della salute mentale.

Così, ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale e mobilitare gli sforzi a sostegno della salute mentale dei cittadini, promuovere azioni di advocacy e lotta allo stigma. La giornata, sostenuta sempre più attivamente dall’OMS, è nata su iniziativa della World Federation for Mental Health, ONG composta da operatori, volontari e utenti e, a partire dal 1994, le migliaia di iniziative si concentrano sul tema che, di anno in anno, ne costituisce il fils-rouge.

Ad ogni modo, il tema scelto per l’edizione del 2021 della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stato “la salute mentale in un mondo diseguale” e la giornata è stata accompagnata dal lancio della campagna “Insieme per la salute mentale”, con la partecipazione di molte società scientifiche, associazioni di utenti, onlus e testimonials, numerose iniziative in molti territori e grandissima risonanza mediatica. Si è trattato di un’occasione importante per portare un tema tanto delicato e urgente all’opinione pubblica, in un momento storico particolare in cui la salute mentale della popolazione è fortemente logorata dalla pandemia e dalle misure necessarie al suo contenimento, che esacerbano le preesistenti disuguaglianze sociali e sanitarie e logorano lo stato di salute dei servizi pubblici, già pesantemente definanziati da anni di tagli.

La salute mentale però costituisce un ambito complesso. I cosiddetti disturbi mentali non costituiscono entità reali, oggettivamente presenti in natura, ma rappresentano l’esito finale di un processo, storicamente situato all’interno di un contenitore sociale dotato di forze culturali, economiche, politiche, attraverso cui gruppi di ricercatori arrivano ad un accordo rispetto alla definizione dei criteri necessari per poter far rientrare un insieme di manifestazioni osservabili entro specifici quadri diagnostici, le cosiddette “malattie”. Per altro le fonti e i dati utilizzati in questo processo non sono neutre ma costituiscono anch’essi il prodotto della ricerca e dell’influenza su questa esercitata da varie pressioni, anche economiche, che ne indirizzano contenuti, qualità, validità e spesso trasparenza.

In natura non esistono i disturbi mentali, che costituiscono, a tutti gli effetti, una convenzione arbitraria, storicamente determinata, un prodotto sociale.

L’etichetta oggi utilizzata per descrivere un certo tipo di sofferenza potrebbe scomparire tra qualche decina di anni e, viceversa, più probabilmente, forme della sofferenza che non soddisfacevano tutti criteri per essere definiti come disturbi potranno soddisfarli in futuro, oppure nuove categorie diagnostiche possono sorgere in base ai bisogni sociali e alle nuove forme di sofferenze prevalenti, oppure ancora una sofferenza oggi definita come particolare disturbo, rispondente a determinati criteri, potrebbe in futuro essere esclusa da quella definizione e inclusa in altre.

Salute mentale e sistemi diagnostici

La storia dei sistemi diagnostici è piena zeppa di tali meravigliose bizzarrie che parlano in maniera equivocabile del rapporto tra l’ordine sociale, il mondo reale e i sistemi di diagnosi e cura e loro funzioni: la scomparsa della diagnosi di isteria, o di omosessualità, la nascita della diagnosi di PTSD (è molto interessante ricostruire la genesi storica delle teorie sui traumi che sottolineano l’importanza dei meccanisimi assicurativi americani nella produzione e nell’affermarsi della diagnosi di PTSD per i reduci della guerra del Vietnam), l’affermarsi e il proliferare della diagnosi di ADHD, con differenze di prevalenza e incidenza enormi tra paesi differenti, non ascrivibili a differenze così ampie nel disagio nei diversi stati.

Non solo cambiano le forme della sofferenza reale come conseguenza del cambiamento degli stimoli ambientali (ad esempio la sofferenza connessa ai nuovi stimoli digitali), ma si trasformano anche le modalità che abbiamo per nominarle, identificarle e gli strumenti di cura e di diagnosi, insieme all’atteggiamento verso la sofferenza e determinate sue forme.

ICD e DSM costituiscono i principali classificatori che sanciscono l’esistenza di particolari quadri diagnostici e “malattie“. Entrambe nati dopo la Seconda Guerra Mondiale per usi statistici e risentono inevitabilmente degli schemi e delle funzioni amministrative del contenitore in cui sono stati concepiti e sviluppati (l’OMS da una parte e l’American Psychiatric Association dall’altra). Pur essendo il primo utilizzato a livello globale per funzioni di monitoraggio delle condizioni di salute dei differenti paesi e di programmazione degli interventi socio-sanitari, il secondo si è gradualmente affermato come sistema diagnostico di riferimento, con il maggior potere simbolico e pratico, nell’indirizzare lo sviluppo delle discipline nell’ambito della salute mentale e della ricerca, oltre che il linguaggio comune e le concezioni dominanti di salute e malattia. Ma non è l’unico.

La semplificazione e i rischi insiti nella diffusione del DSM hanno fatto sorgere nel tempo sistemi diagnostici “alternativi”. Tra i più celebri sicuramente troviamo il PDM, creato dall’enclave psicanalitica come affermazione della propria lontananza e indipendenza dal modello riduzionista promosso dal DSM. Meno noto invece è il PTM- Framework, il POWER THREAT MEANING FRAMEWORK, creato dalla BPS, la British Psychological Society, in risposta alla pubblicazione del DSM 5. Il punto di partenza di questo lavoro è una lunga critica epistemologica e pratica del concetto di diagnosi medica, in particolare quella psichiatrica, mostrandone la debolezza empirica e teoretica da un lato, ma anche evidenziando come essa persista nei servizi e nei sistemi di cura per ragioni culturali, sociali, economiche e professionali e proponendone un superamento pratico. Il Power Threat Meaning Framework si sofferma sulla necessità di sviluppare, insieme ai cosiddetti esperti per esperienza, un approccio multifattoriale al disagio, che contempli i determinanti sociali e psicologici e le variabili biologiche con il significato personale. Il gruppo di lavoro promotore aggregato intorno a questo obiettivo ha prodotto nel 2018 una pubblicazione di oltre 400 pagine, fruibile gratuitamente da chiunque scaricando il testo dal sito della BPS e attualmente in traduzione in Italia a cura di alcuni attivisti.

Storicamente, da quando la salute mentale si è costituita come ambito e corpo scientifico, si osserva un continuo aumento di diagnosi disponibili (definito da Allen Frances (2013), capo della Task Force per la stesura del DSM- IV-tr, inflazione diagnostica) che, se da una parte consente una maggior precisione nell’identificazione sempre più sottile delle forme di disagio, migliorando l’accuratezza dell’atto diagnostico, dall’altra rischia di creare una frammentazione e un’iperspecializzazione sterili e vacue, allargando a dismisura i confini del diagnosticabile. Nella realtà storica, ciò che spinge il numero di diagnosi a crescere rendendo possibile un trattamento di precisione, è in parte riconducibile ad un processo relativamente recente, ben noto e studiato, il disease mongering (Moynihan, 2002): forme dell’esperienza, prima ritenute nella “norma medica”, quindi non oggetto di trattamento specialistico, vengono gradualmente patologizzate e medicalizzate, spesso sotto l’influenza di grandi produttori di farmaci con un grande potere nell’influenzare la ricerca e grandi interessi nell’ampliamento del bacino di consumatori. Nuove malattie vengono create e definite come tali anche perché nuovi farmaci devono essere venduti. Basti pensare alla medicalizzazione e patologizzazione di flatulenza, calvizie, impotenza: occorre, innanzitutto, la costruzione e la vendita di una particolare “condizione patologica”, ovvero “la commercializzazione della salute e della malattia”. Il fenomeno, affrontato e contrastato in molti ambiti della medicina e dell’attivisimo per la salute, interseca e influenza da vicinissimo il campo della psicologia, delle sue teorie, del mercato della formazione, e delle sue pratiche e le concezioni sociali che questa veicola.

Ma Vygotskij, il Buddha e Lacan, ci insegnano che le parole creano la mente. Ed è anche attraverso la condivisione di sistemi simbolici e di appartenenze che si creano le comunità. Così, dopo aver definito la sofferenza delle persone attraverso un disturbo in uno specifico quadro nosografico, convenzionale, artefatto e arbitrario, le persone tendono ad identificarsi con l’etichetta utilizzata dagli operatori di un determinato sistema di cure, ancor più se questa identificazione è conforme al quadro culturale dominante e l’insicurezza che accompagna il disagio è vissuta come eccessiva. Questa identificazione ha ripercussioni significative, non sempre positive, sul decorso clinico, prendendo a prestito un termine in voga dalla letteratura psichiatrica, “recovery”. Svolge alcune funzioni importanti per l’individuo, quali ad esempio quella di poter dare un nome, un senso alla propria sofferenza, e quindi immaginare la possibilità di una cura, contenere l’incertezza che deriverebbe da un’impostazione radicale di fronte ad una sofferenza per cui non esiste un nome. Inoltre, rassicura, fornendo un sollievo alla solitudine, potendo condividere le sorti della propria vita, salute e malattia, con l’insieme di persone le cui manifestazioni della sofferenza sono state fatte rientrare all’interno della medesima categoria diagnostica.

Le implicazioni della diagnosi

Le diagnosi e i disturbi che queste indicano, si trasformano così in uno strumento di soggettivazione, individuale e insieme politico. Identificazione individuale, nel momento in cui le persone, dopo l’atto diagnostico, identificano sé stesse, il proprio sentire, agire, patire, pensare, esperire; gli danno un senso attraverso l’etichetta utilizzata e ogni parte di sé diventa funzione di quella diagnosi a cui viene ridotto e ricondotto. Questo livello di identificazione agisce inoltre permettendo di trovare una causa al proprio patire nel disturbo indicato dall’etichetta. Avendo dato un nome e una spiegazione al proprio sentire, l’etichetta diagnostica utilizzata, smette di essere un prodotto storico e viene percepita essere la causa reale del proprio sentire, in una profezia che si autoavvera.

La diagnosi attiva inoltre un processo di identificazione collettiva, rendendo saliente un’appartenenza comune attraverso cui far valere la propria voce, in cui i vissuti di profonda solitudine e incomunicabilità si dissipano nella vicinanza con tutte le altre identità individuali con cui potersi riconoscere e supportare all’interno di una comunità di uguali, definita e delimitata dai confini diagnostici, che può lottare nella rivendicazione dei propri diritti di malato. È quello a cui Rose (2008) si riferisce parlando di “biosocialità”, ovvero la creazione di spazi di socialità e cittadinanza a partire da una particolare diagnosi, spesso ricondotta a disturbi concepiti come biologicamente determinati (nell’ambito della salute mentale, è stato il DSM III ad accelerare il processo di assimilazione delle entità nosografiche a sottostanti “squilibri chimici”, scotomizzando i cosiddetti determinanti sociali della salute mentale). Ecco così fiorire le associazioni di pari e di pazienti, in salute mentale, frammentate e disunite, spesso ricalcando i criteri diagnostici che li hanno battezzati, talvolta in un’estrema unzione, come tali. Le azioni di tali soggettività diagnostiche espandono e riproducono una concezione della salute mentale che naturalizza costrutti sociali in entità reali che costituiscono la base dei processi di partecipazione e identitaria, riproducendo le concezioni di salute e malattia più diffuse e gli interessi economici ad essi sottostanti.

È a questa natura sociale, costruita, storica, a cui ci si riferisce quando si parla di quella “invenzione delle malattie” che una certa antipsichiatria, nell’opera di legittima contestazione della nocività di alcune pratiche di cura, rischia di trasformare in negazione del bisogno e della realtà di una sofferenza e dell’utilità di ogni intervento tecnico.

Salute mentale e società

Rispetto al calcolo del peso dei disturbi mentali sulle società invece, l’epidemiologia è utilissima consentendo confronti tra paesi o tra condizioni di salute mentale nello stesso paese in tempi diversi, oppure tra diverse fasce di popolazione. Ad esempio, è certo che i paesi più diseguali, divisi e divisivi, siano paesi in cui la salute mentale è peggiore rispetto a paesi più equi. Oppure che nei periodi di recessione economica la salute mentale peggiori. O ancora, che con la pandemia, la salute mentale dei giovani stia peggiorando più di quella di altre fasce della popolazione. Tuttavia gli indici utilizzati sono poco attendibili: misurano solo parzialmente ciò che vorrebbero e godono di un consenso relativo. Per fotografare le condizioni di salute mentale vengono utilizzati dati relativi ai servizi, come il numero di ricoveri. O relativi ai trattamenti erogati, come il consumo di farmaci. O il numero dei suicidi, oppure i trend di ricerca su internet di una data parola. Ma è palese che il numero dei ricoveri o i dati sui consumi dicano di più sulla salute dei sistemi di cura che sulle condizioni reali di salute dei cittadini. In sintesi, nessuno di questi indici riesce a fotografare la realtà della salute mentale della popolazione. Benedetto Saraceno, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS, parla chiaramente del rischio di “un’epidemiologia allarmista” (2017). ovvero di dati che sovrastimano il problema, ad esempio includendo problemi di carattere neurovegetativo all’interno del numero di casi conteggiati.

Parlare di salute mentale

Ciononostante, le condizioni reali di salute mentale della popolazione sono un tema fondamentale oggi. È un bene che se ne parli, anche se il modo in cui questo avviene è spesso importante almeno quanto il parlarne. La difficoltà a parlare in maniera seria è accresciuta da un uso scorretto del linguaggio, che riflette l’impostazione biomedica di una certa psichiatria, che tende a naturalizzare e reificare i disturbi come entità realmente presenti in natura, ma che è anche fortemente influenzata dagli interessi economici di chi vende specifici prodotti medicali per specifici disturbi.

I disturbi e le malattie, tutti, costituiscono anche un miniera d’oro per chi vende prodotti per curarli e l’attuale periodo di disagio postpandemico rappresenta un’occasione imperdibile, e l’indefinitezza che caratterizza l’ambito della salute mentale è un vantaggio enorme per le aziende produttrici. Ma il conteggio delle gambe rotte o di forme particolari di tumori è cosa ben differente dal conteggio, ad esempio, di casi di diagnosi di disturbo bipolare.

E qui torniamo al punto di partenza.

La giornata mondiale della salute mentale

La campagna di sensibilizzazione “Insieme per la salute mentale” in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stata organizzata da una multinazionale danese, di recente definitivamente multata dalla Corte di Giustizia Europea con 93 milioni di euro, che aveva violato nel Regno Unito le norme per i contenuti pubblicitari, a cui è stato rimosso un brevetto per mancanza di requisito di novità e rispetto, su cui autorevoli osservatori fanno sorgere dubbi, più che fondati, sulla contraffazione di dati relativi all’efficacia di alcune sue molecole e sul rischio suicidario in bambini che assumevano alcuni suoi farmaci.

Il mercato degli psicofarmaci ha salutato con grande entusiasmo l’arrivo della pandemia, che ne ha fatto impennare le previsioni di crescita di molti punti percentuali per quasi tutte le classi. Solamente l’anno scorso, i guadagni relativi ad un farmaco antidepressivo di recente immissione della multinazionale danese, sono aumentati del 15%. I dati inoltre indicano un generico aumento delle prescrizioni in tutto l’occidente da alcuni anni a questa parte, amplificato dall’impatto della pandemia e in Italia, ad esempio, il trend di consumo degli antidepressivi, sostiene l’AIFA, è cresciuto del 10% negli ultimi 7 anni.

In Italia non è possibile fare pubblicità diretta verso i consumatori per le aziende produttrici e le “giornate di sensibilizzazione e consapevolezza” (negli USA cresciute da 44 a 401 dal 1997 al 2016, con un aumento di spesa da 177 a 430 milioni di dollari per le multinazionali) rappresentano da sempre uno strumento privilegiato per l’ampliamento del bacino di consumatori a fronte di investimenti enormi, spesso maggiori nel marketing che nella ricerca (ad esempio, Johnson e Johnson nel 2014 spese 6,2 miliardi di dollari in ricerca e 21,9 miliardi per marketing).

Dal punto di vista psicologico, le campagne di sensibilizzazione e consapevolezza offuscando l’arbitrarietà e la fluidità dei costrutti diagnostici e il processo storico che determina la creazione di nuove condizioni patologiche, presentano i disturbi mentali come realtà oggettivamente esistenti, misconoscendo le implicazioni e gli interessi economici che contribuiscono alla diffusione di particolari diagnosi e di una visione di una società malata, massicciamente medicalizzata. L’obiettivo delle campagne è promuovere l’identificazione delle persone in condizioni di sofferenza nella condizione di malato. Il superamento dello stigma e del pregiudizio evocato, ad esempio nella campagna “insieme per la salute mentale”, si muove nella stessa direzione, in modo funzionale all’abbassamento delle difese e delle resistenze che le persone possono frapporre tra sé e il riconoscimento e l’identificazione della condizione di malato, e quindi la richiesta di un trattamento. Per altro, un’impostazione fortemente biologicista alla sofferenza e al disagio, come quella promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che assimila “salute fisica” e “salute mentale” e che identifica nel cervello le cause del disagio, tanto facilita la riduzione dello stigma (se il problema è nel cervello, come un diabetico non sono biasimabile) quanto promuove un uso dei trattamenti che agiscono esclusivamente a questo livello.

Schwartz e Woloshin (2019) sottolineano che tutte le attività di marketing cerchino di plasmare le convinzioni di pubblico e operatori sanitari rispetto sia ai benefici e ai danni dei farmaci da prescrizione, sia alle definizioni delle condizioni che possono essere etichettate come malattia. Gli autori affermano che le campagne di sensibilizzazione delle aziende farmaceutiche possano aumentare la consapevolezza dei cittadini e, insieme, essere controproducenti causando danni, portando a sovradiagnosi e sovratrattamento (con conseguente spreco di risorse) o medicalizzando l’esperienza ordinaria. Le campagne contribuiscono ad ampliare le definizioni di malattia senza che questo porti a benefici reali per la popolazione, e influenzando l’atteggiamento dei cittadini verso il proprio disagio, attraverso l’incoraggiamento a “chiedere al medico”, che costituisce uno degli ingredienti fondamentali di tali campagne

Altri, come Kravitz (2005) si spingono oltre e illustrano come le campagne di sensibilizzazione possano avere effetti diretti, seppur non stimabili, sull’andamento delle prescrizioni dei medici, mediati dalle richieste dei cittadini, che rischiano di alimentare un sovrautilizzo inappropriato dei farmaci.

Sulla stessa linea, Aikin (2016) e Sullivan (2016), mettono in guardia sulla possibilità che tali campagne di sensibilizzazione inducano le persone a confondere erroneamente le informazioni relative alle malattie con i benefici dei farmaci, alimentando il rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento, con benefici evidenti per i produttori di farmaci medicinali, proprio mentre l’obiettivo dichiarato è contrastare sottodiagnosi e sottotrattamento.

Viste le restrizioni imposte dalle misure di contenimento dell’epidemia, le aziende farmaceutiche, hanno dovuto adattare le proprie strategie promozionali. Facebook, che mette a disposizione analisi sui comportamenti degli utenti, con elevato valore predittivo sulle loro condizioni di salute, costituisce il canale privilegiato.

Secondo un articolo del 2020 de “Il Washington Post” inoltre, su Facebook, negli Stati Uniti, dove è possibile fare pubblicità diretta di farmaci alla popolazione, stanno spuntando annunci che promuovono farmaci da prescrizione per la depressione. Pathmatics, afferma che la spesa solo per gli annunci su Facebook da parte di marchi farmaceutici, targettizzata verso campioni selezionati di popolazione, abbia raggiunto quasi un miliardo di dollari nel 2019, quasi triplicando in due anni. Non è un caso che la campagna “Insieme per la salute mentale”, promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale sia stata diffusa largamente su questo social dove, in occasione della pandemia, a qualche mese di distanza, sono state create alcune pagine di sensibilizzazione, gestite da multinazionali produttrici.

Come già ampiamente accaduto in molte altre situazioni simili, molte delle associazioni, sia professionali, che di pazienti, che hanno partecipato all’iniziativa, diffondendola e amplificandola, hanno intrattenuto rapporti più o meno trasparenti e diretti con la multinazionale che ha loro versato, come documenta il sito dell’azienda, notevoli quantità di denaro. Come sottolineò Mosher, già presidente dell’APA dimissionario, in relazione al decadimento denunciato della psichiatria americana, legato al consolidarsi del rapporto con le industrie farmaceutiche, i rapporti tra queste e le associazioni di utenti e familiari costituiscono un tassello chiave nel comprendere le spinte rivendicative e i bisogni di alcune forze della società civile, e il loro effetto sulle pratiche di cura.

Il fenomeno non si limita alla salute mentale; secondo uno studio di McCoy (2017), nel 2017, l’83% delle 104 maggiori organizzazioni in difesa e per i diritti dei pazienti degli Stati Uniti ha ricevuto finanziamenti da aziende farmaceutiche e 14 aziende farmaceutiche hanno donato almeno 116 milioni di euro a 594 gruppi di pazienti nel 2015.

Questo significa che la multinazionale, durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, ha utilizzato le associazioni di pazienti, identificati con il proprio disturbo, come strumento per la diffusione di una campagna, formalmente di sensibilizzazione, ma che risponde sostanzialmente a obiettivi e logiche commerciali attraverso note strategie di marketing amplificando un messaggio distorto e informazioni incomplete, tendenziose e pretestuose. Questo, in Italia, accade mentre i servizi di salute mentale promuovono una cultura e un uso degli psicofarmaci che rischiano di produrre più sofferenza e cronicità di quanto non aiutino ad alleviare e che, come rilevato dalla Conferenza per la Salute Mentale, dovrebbero essere reindirizzati nella direzione di una maggiore appropriatezza prescrittiva.

I messaggi promossi dalla campagna, naturalmente, non possono tenere conto della complessità del tema ma contribuiscono ad una visione semplicistica dei disturbi mentali e della salute mentale. I disturbi sono presentati come entità reali, oggettive, localizzate esclusivamente a livello cerebrale, di cui rappresenterebbero un malfunzionamento. Tale messaggio è funzionale più al profitto dell’azienda che alla promozione di un dibattito pubblico informato o agli interessi di salute pubblica.

Evidentemente e legittimamente, all’interno di un mercato competitivo come quello farmaceutico, una grande azienda con precisi obiettivi commerciali diffonde un’idea di malattia e salute che poco ha a che vedere con la realtà dei fatti. I proclami sul diffondersi dei disturbi mentali sono utilissimi nell’accendere i riflettori su una realtà grave e urgente, quella del diffondersi del disagio, ma ne semplificano la concezione escludendo aspetti determinanti, quali quelli economici e materiali, che stanno alla base di ogni discorso e pratica.

Durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, da tredici anni a questa parte, si celebra la Giornata Nazionale della Psicologia con il rischio di creare un disallineamento, pratico e semantico, tra il mondo della salute mentale, sempre più ritenuto di esclusiva pertinenza delle pratiche e dei saperi psichiatrici, e la psicologia, relegata ad un ambito tanto prezioso quanto limitato e limitante, quello del benessere psicologico. Evidentemente tale giornata ha un’utilità reale nell’affermazione e nell’emancipazione della disciplina psicologica, che a mio parere sarebbe auspicabile potesse avvenire all’interno del medesimo contenitore di cui si è appropriato, colonizzandolo, chi subordina alla salute mentale, o psicologica, delle persone, alle logiche di profitto.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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