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Le metafore di Moro – Recensione di “Le lingue impossibili” (2017) di Andrea Moro

Nel libro 'Le lingue impossibili' viene esplorata l’esistenza delle lingue impossibili, alla ricerca dell’“impronta digitale” del linguaggio umano

Di Alberto Vito

Pubblicato il 28 Ott. 2021

Le lingue impossibili un testo breve ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

 

Andrea Moro, considerato il maggiore erede di Noam Chomsky, coniuga le competenze del linguista con quelle del neuroscienziato. Infatti, è professore di Linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia, dove ha fondato il centro di ricerca in Neuroscienze, epistemologia e sintassi teorica. È stato ordinario per circa 10 anni presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue precedenti pubblicazioni, Breve storia del verbo essere (Adelphi 2010) e Parlo dunque sono (Adelphi 2012). L’ultima sua opera, Il segreto di Pietramala (La nave di Teseo, 2018), è un romanzo giallo in cui descrive le peripezie di un linguista francese che gira il mondo alla ricerca di lingue esotiche e che deve scoprire i misteri che si nascondono in un borgo isolato della Corsica, abbandonato da secoli. La forte cultura umanistica che possiede traspare anche dall’abbondante uso di metafore presenti nell’opera Le lingue impossibili pubblicata nel 2017 in Italia e successivamente tradotta all’estero. Si tratta di un testo breve (circa 120 pagine, se si escludono bibliografie e indice analitico) ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

In questo libro, viene esplorata l’esistenza delle lingue impossibili, alla ricerca dell’“impronta digitale” del linguaggio umano. La linguistica generale si è posta storicamente la questione di individuare le caratteristiche di una ipotetica grammatica universale, rintracciabile in tutte le lingue, che costituisca una sorta di lingua primordiale. Una grammatica generativa, per usare l’espressione di Chomsky. Ma perché si sono sviluppate tante lingue e non parliamo tutti la stessa lingua primordiale? Studiare quante sono, in linea teorica, le lingue possibili porta a chiedersi anche se possono esistere lingue impossibili, in quanto contrarie o non assimilabili  a tali principi generali. Esistono infatti una moltitudine di lingue, più o meno diverse, che condividono alcune regole strutturali essenziali tali da essere decodificate dal nostro cervello secondo dei codici preesistenti, ma non possono esistere un numero infinito di lingue, questa l’opinione di Moro, nel solco del paradigma chomskiano. Ciò pare dipendere da una necessità di economizzare che guida il nostro cervello e la nostra struttura biologica selezionando solo alcune delle informazioni possibili. Una lingua, studiata in una prospettiva esclusivamente fisica e non come codice, vive in due ambienti diversi: fuori del cervello, sottoforma di onde meccaniche d’aria rarefatta, ossia suono, e dentro il cervello, sotto forma di onde elettriche, ovvero il codice che i neuroni utilizzano per scambiarsi informazioni. Pertanto, chiedersi se può esistere una lingua impossibile è in realtà una domanda duplice: una domanda formale, che concerne le regole, e una domanda fisica, che riguarda la materia. Il libro prova a rispondere ad entrambe le questioni.

Di fatto, la questione si può riformulare in tal modo: le lingue devono essere considerate come una costruzione culturale, e quindi in un certo senso arbitraria, o sono una funzione delle proprietà del cervello, dotata di una base biologica? Moro propende per la seconda ipotesi. Ed in questo senso dobbiamo postulare le lingue impossibili, inconcepibili secondo il funzionamento della nostra mente, ovvero che non hanno la possibilità di essere riconosciute dalle nostre reti neuronali. Egli paragona la sintassi al rovescio di un arazzo, che rivela la struttura nascosta e una serie di intrecci non visibili a chi osserva solo la parte nota dell’arazzo, descrive il cervello come un setaccio ma ascolta anche il suono del pensiero attraverso la registrazione dell’attività elettrica encefalica.

Per spiegarci come possiamo comprendere e studiare il linguaggio Moro utilizza nella parte conclusiva del volume una sorprendente metafora con un quadro: l’autoritratto del pittore austriaco di età barocca Gumpp. Nell’opera, riprodotta nel libro, è raffigurato di spalle il pittore mentre dipinge con la mano destra su una tela il proprio ritratto, utilizzando uno specchio che tiene nella mano sinistra. Il quadro così mostra due volte il viso del pittore, che appare identico nello specchio e sul cavalletto, riproduzione dell’attore principale, che è di spalle e il cui viso possiamo solo immaginare. Per Moro, i due volti simboleggiano i due domini che possiamo osservare: le onde sonore e le onde elettriche, per comprendere ciò che ci sfugge: il linguaggio e soprattutto l’uso creativo che ne facciamo. Per quello che riguarda le onde elettriche, la ricerca di Moro utilizza anche le tecniche di neuroimaging, non a disposizione delle precedenti generazioni di linguisti. Tali ricerche mostrano che ci sono aree del cervello dedicate alla sintassi, che si attivano in risposta a un enunciato sintatticamente plausibile, ma privo di significato. Così come, quando si prova ad insegnare una lingua sintatticamente impossibile, si attivano altre aree cerebrali non collegate al linguaggio. Le radici del logos si confermano affondate nella sintassi e in alcune sue proprietà universali, che ricerche come quelle di Moro promettono di ancorare, in un futuro non troppo lontano, alla struttura neurofisiologica del cervello.

Concludo, riportando un’altra metafora accattivante di Moro: le lingue sono come fiocchi di neve, tutti diversi, ma con qualcosa in comune e non infinitamente diversi. E la natura ci ha dotati di una sorta di “setaccio irragionevole” (l’espressione, ancora una volta metaforica, è sempre di Moro) che seleziona ciò che è possibile da ciò che è impossibile, anche se non sappiamo ancora perché certe lingue sono concepibili ed altre no (ad esempio, perché non possa esistere la regola che una certa parola compaia sempre come quarta in ogni frase: regole simili non esistono in nessuna lingua reale).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Moro, A. (2017). Le lingue impossibili. Raffaello Cortina Editore
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