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Identità, genere e consumismo, ri-genderizzazione: riconoscere e destrutturare gli stereotipi sulle diversità di genere nella scuola dell’infanzia

Pink is the new black accompagna il lettore in un lavoro di analisi e riflessione sullo stereotipo e il pregiudizio di genere che invade la nostra società

Di Loredana Paradiso

Pubblicato il 20 Lug. 2021

Pink is the new black. Stereotipi di genere nella scuola dell’infanzia è un libro importante con un titolo forte e incisivo che apre a diverse prospettive di lettura sul significato dei simboli nella società.

 

I colori, black, pink, orange, blue possono veicolare processi di categorizzazione trasformandosi in stereotipi e pregiudizi che sembrano innocui come quel Pink, “di quel bel vestitino regalato per la nascita di una bambina”.  Ecco che in quel colore gentile e rassicurante, invece, si cela una processo di categorizzazione del genere, implicito, invasivo e totalizzante con un impatto importante sugli stili di vita, le scelte, le aspettative, i vincoli  e le opportunità delle bambine e dei bambini.

Le autrici, Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi, accompagnano il lettore in un profondo lavoro di analisi e riflessione sullo stereotipo e il pregiudizio di genere che invade la nostra società.

Pink is the new black presenta un lavoro teorico di descrizione delle teorie sociologiche e dei riferimenti epistemologici che sostengono il dibattito scientifico su questo tema e un approccio empirico con la presentazione di una ricerca in un ambito privilegiato per la costruzione degli stereotipi: la scuola dell’infanzia.

La parte teorica risponde alle domande essenziali per comprendere l’argomento e quindi: che cos’è il genere, l’ordine ad esso connesso? Quali sono le costruzioni sociali ad esso associate? Come viene introiettato il genere? Qual è la funzione della socializzazione nella co-costruzione dell’identità di genere? E la relazione con gli stereotipi e le aspettative? Qual è la relazione con gli stereotipi sessuali o sessisti? Il genere è una struttura sociale? Cosa si intende per genderizzare e ri-genderizzazione? In quali ambienti si sta realizzando? Cosa si intende per maschilità egemonica? E per Pinkizzazione o per gender backlash? Qual è la relazione tra genere  e consumismo?

La parte esperienziale entra nella società per osservare come si forma lo stereotipo di genere nella prima infanzia osservando la relazione diretta tra i processi impliciti e inconsci che alimentano pregiudizi e stereotipi.  Le autrici iniziano a esplorare il tema dal punto di vista sociologico individuando il genere come una costruzione sociale: una “struttura sociale” trasversale e permanente in un determinato momento o periodo storico-sociale che, però, ha in sé la possibilità di cambiamento, a livello individuale nei processi di socializzazione di base, a livello interazionale nel confronto con stereotipi e aspettative sociali, a livello istituzionale nel confronto tra le diverse strutture organizzative. Questo riconoscendo però la complessità del  cambiamento poiché gli stereotipi connessi al genere rassicurano e facilitano i processi di riconoscimento, classificazione e collocamento socio-culturale: è donna quindi “è capace nelle relazioni d’aiuto”, è uomo e quindi ha “maggior attitudine nelle discipline logiche”, è femmina è più tranquilla e studiosa, “ti aiuterà è servizievole”. Una minuziosa segmentazione di valori che parte dagli oggetti e dai colori per abbracciare ogni aspetto della vita della bambina e del bambino, dell’adolescente e dell’adulto, incidendo sui gusti, ma anche sul carattere, sulle aspirazioni e sulle competenze: una cartina di tornasole semplice è l’osservazione della distribuzione dei giovani nei diversi corsi di studio nella scelta universitaria. Il genere, quindi, svela la rappresentazione sociale di cosa ci si aspetta dalle donne e uomini in termini di comportamenti, ruoli e  attitudini giustificando credenze, scelte e azioni delle attrici e degli attori sociali. Lo stereotipo di genere, al pari di tutti gli altri, facilita il riconoscimento poiché permette l’immediata associazione tra categoria (genere) e comportamento, aspettative sociali o vincoli e opportunità associate.

Il carattere binario degli stereotipi, a volte rafforzati dal colore, bianco e nero, azzurro e rosa, nasconde il significato associato a ciascuno lavorando sulle categorie socio-cognitive del bene o del male, dell’opportunità o del vincolo, del positivo o del negativo: questo porta a processi di esclusione o autoesclusione, sino a sbarramenti o stigmatizzazioni per chi cerca di infrangere quelle sottili e implicite traiettorie. Lo stereotipo funziona, infatti, come principio di verità e quindi di ordine, di riduzione delle asimmetrie e disuguaglianze che vengono percepite naturali e addirittura auspicabili, quando, invece, nella realtà le formano e le esaltano: infatti, la classificazione permette immediatamente di riconoscere ciò che è preferibile, che conviene, che semplifica e, quindi, che è positivo o negativo, perché richiama un principio appreso in modo naturale nei primi anni di vita.

Nella prima infanzia nei luoghi di formazione del bambino, nella famiglia e a scuola, gli stereotipi si apprendono in modo naturale, pervasivo e silenzioso: questa constatazione apre alla seconda parte del libro che presenta una ricerca sugli stereotipi di genere realizzata per conto del Comune di Genova all’interno di alcune scuole dell’infanzia. Il focus della ricerca sono gli stereotipi di genere come “strumento essenziale nel processo di semplificazione e ancoraggio dell’ordine di genere”. Gli stereotipi di genere sono una base delle interazioni sociali della scuola dell’infanzia, e i bambini sono attrici e attori e altre volte spettatori della loro continua riproduzione. Le autrici osservano non solo come si presentano gli stereotipi nella scuola dell’infanzia, ma anche il principio del cambiamento poiché gli stereotipi, pur essendo pervasivi e persistenti, non sono  immutabili. In questa riflessione si sviluppa l’osservazione focalizzando l’attenzione sui processi di co-costruzione della realtà dei bambini e delle bambine come soggetti che possono mettere in campo quello che W. A. Corsaro definisce una “riproduzione interpretativa” di un ruolo o di un comportamento. Nella ricerca si rilevano gli atteggiamenti e gli stereotipi di genere delle insegnanti in funzione del loro ruolo di agenti di socializzazione nella parte progettuale di ambienti e pratiche educative e di conduzione e supervisione dei gruppi di bambini. Dato che i modelli e i ruoli di genere sono prodotti e riprodotti in tutti gli ambienti, le  relazioni, ma anche attraverso la scelta degli oggetti, il ruolo dell’insegnante è un campo di osservazione privilegiato per comprenderne i meccanismi che definiscono, sin dalla scuola dell’infanzia, l’ordine sociale di genere: nella scuola, come struttura della società, emerge come il genere sfugge alla consapevolezza stessa dei soggetti che agiscono il proprio ruolo impedendo, quindi, un presidio professionale nella progettazione educativa.

Infine le autrici si dedicano allo studio della rappresentazione sociale dei bambini sul genere ricostruendo le loro visioni e i loro modelli. Le riflessioni confermano l’ipotesi che è in atto un processo di ri-genderizzazione, ovvero un ritorno a stereotipi più marcati sul genere proprio nelle categorie sociali più̀ fragili.

I risultati della ricerca richiamano l’importanza di una Pedagogia del genere che favorisca una riflessione sui modelli e le pratiche, che coinvolge il tema e i processi legati all’identità di genere per prevenire una progettazione educativa che veicola, conferma o esalta stereotipi di genere nelle istituzioni socio-educative responsabili della crescita e formazione dei bambine/i e delle ragazze/i. È essenziale iniziare a riflettere su un’educazione di genere che dovrebbe coinvolgere coloro che hanno una responsabilità educativa e che, in modo consapevole, potrebbero influenzare e incentivare ruoli e relazioni di genere cristallizzate. La possibilità di rilevare e analizzare i modelli impliciti sulla rappresentazione sociale del bambino e della bambina, o le pratiche educative (scelta dei giochi, dei materiali, dei libri, la progettazione e strutturazione degli ambienti ludici o cognitivi o esplorativi) che determinano e rafforzano un orientamento verso stereotipi di genere (l’angolo della Barbie o dei Gormiti) e gli stili di relazione e comunicazione che potenzialmente confinano, stigmatizzano e svalutano (“non fare la femminuccia!”, “non fare il maschiaccio!”) dovrebbe diventare una prassi del lavoro educativo, sociale e pedagogico.

In conclusione Pink is the new black. Stereotipi di genere nella scuola dell’infanzia è una lettura fondamentale  e preziosa per tutti coloro che hanno responsabilità educative e sociali, dai pedagogisti, agli insegnanti, ai genitori, agli operatori, ma anche per coloro che programmano e progettano i servizi socio-educativi e che intendono comprendere il processo di natura sistemica che si sviluppa attorno alle categorizzazioni sociali del genere nelle istituzioni socio-educative. Allo stesso tempo è un prezioso “affresco dal campo”, un’immersione nella società nel punto più profondo dove si creano, strutturano e rafforzano gli stereotipi per ribadire l’importanza di mettersi dalla parte di bambine e bambini per tracciare percorsi di libertà dagli stereotipi  e, in particolare, da quelli di genere: un auspicio affinché le nuove generazioni possano percorrere il proprio percorso di vita secondo le proprie attitudini, orientamenti e desideri.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Abbatecola E. & Stagi L. (2017). Pink is the new black. Stereotipi di genere nella scuola dell’infanzia. Rosenberg & Sellier.
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