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Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità (2020) di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari – Recensione del libro

"Il corpo non dimentica" affronta un campo d’indagine che ha promosso il dialogo tra discipline con posizioni anche molto distanti tra loro.

Di Angela Niro

Pubblicato il 19 Mag. 2021

Sottraendo terreno al divario tra corpo e mente, movimento e cognizione, psicoanalisi e neuroscienze, Il corpo non dimentica propone una prospettiva integrativa che tenta la strada di un audace e auspicabile dialogo proficuo.

 

Il corpo offeso, il mito e l’assenza di cure

 Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, nato dall’integrazione degli interessi e delle competenze di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, è un testo sull’origine e sull’evoluzione della relazionalità, in cui il corpo assume la centralità a lungo negatagli. Sottraendo terreno al divario tra corpo e mente, movimento e cognizione, psicoanalisi e neuroscienze, il testo propone una prospettiva integrativa che tenta la strada di un audace e auspicabile dialogo proficuo.

Gli autori aprono l’itinerario che conduce a scandagliare le origini della relazionalità riconoscendo al mito l’abilità di narrare con perizia il posto assegnato dall’uomo all’“altro” e invitando il lettore a rintracciare nelle storie dei suoi illustri protagonisti un racconto del corpo alle prese con gli urti, i danni, le riparazioni e le possibilità evolutive biologico-sociali cui è andato incontro.

Come fanno notare Ammaniti e Ferrari (2020),

In essi la nascita è al centro dello scenario e nella maggior parte dei casi si tratta di una nascita traumatica segnata dai conflitti e dai misfatti della famiglia e della comunità, e resa ancor più drammatica dall’abbandono e dalla soppressione dei neonati. (p. 3)

In queste storie la nascita, una pericolosa minaccia per il potere paterno, costituisce la costante comune ed è accompagnata dagli abusi e dall’abbandono subiti dai nascituri, mentre non è affrontato l’impatto dell’assenza delle cure nel periodo neonatale.

Infatti, non solo nel mito, e per molto tempo a seguire, è stato piuttosto scarso l’interesse verso le prime interazioni madre-bambino. È stato il pioneristico contributo dello psicoanalista René Spitz ad aprire un interessante campo di osservazione sulla funzione svolta da questa precoce interazione. Segnalando la necessità delle cure materne per la loro capacità di regolare lo sviluppo fisico e psichico del bambino, Spitz denuncia le profonde e talvolta fatali ripercussioni causate dalla sua deprivazione, aprendo la strada a successivi studi.

Se quindi per un certo tempo il corpo non è stato un oggetto di studio attraente, soprattutto relativamente al ruolo ricoperto nella costruzione della relazione madre-bambino, essere riusciti a raccontare la vita che cresce nel grembo materno e il modo in cui si costruisce il nostro essere nel mondo e con l’altro è senz’altro un traguardo che non dobbiamo dimenticare.

Una spinta decisiva alla possibilità di avvicinarsi all’inavvicinabile è stata promossa dall’integrazione dei contributi di diversi ambiti di studio come la psicoanalisi, le neuroscienze, la psicologia dello sviluppo e l’Infant Research, che nello studio della diade umana, e non solo, hanno tentato di definire lo sviluppo, i processi biologici, le specifiche dinamiche interattive, nonché la loro universalità e i successivi adattamenti culturali.

Prendendo in considerazione il primo aspetto, quello che tenta di spiegare le basi e le trasformazioni della relazionalità, una prima considerazione importantissima da fare, prima di procedere oltre, è quella di tenere ben presente l’esistenza di una continuità tra la vita prenatale e post-natale. Ammaniti e Ferrari conducono, infatti, lo sguardo del lettore proprio in questa direzione, collocando in primo piano l’importanza che riveste lo sviluppo del sistema nervoso nella comprensione dello sviluppo motorio, cognitivo e sociale dell’uomo.

L’ambiente materno, lo sviluppo del sistema motorio e della relazionalità

Nel grembo materno il feto manifesta i primi comportamenti esplorativi dell’ambiente uterino, ma anche di se stesso e dell’altro, manifestando precoci abilità motorie che saranno imprescindibili nella vita neonatale. Ribaltando, infatti, le posizioni precedenti, che dichiaravano una presenza esclusiva di riflessi nel feto, l’impiego degli ultrasuoni ha reso possibile osservare la presenza di un’intenzionalità già a partire dalla vita fetale.

Gli studi condotti sull’attività motoria del feto, e in particolare quelli che riguardano la cinematica del movimento, come pure gli studi sulla risposta alla voce materna, hanno rilevato una precocissima ricerca di contatto da parte del feto, rintracciando in questi primissimi comportamenti i precursori delle successive competenze sociali del bambino.

Inoltre, non è passata inosservata la bidirezionalità e la complessità della comunicazione costruita e dunque l’influenza esercitata dall’interazione dei fattori psico-biologici materni e fetali sul successivo sviluppo del bambino.

Tuttavia, per quanto sia noto che le esperienze emotive e stressanti materne possano influenzare la maturazione del feto, membro attivo nella relazione e che manifesta di rispondere in modo specifico a queste esperienze, risultano da chiarire ancora molti aspetti circa i meccanismi responsabili.

Mostrare, dunque, una maggiore sensibilità e attenzione nei confronti del periodo gestazionale potrebbe senz’altro aiutarci a chiarire meglio quello che accade in questa condizione di reciproca influenza in cui sembra verificarsi, come fanno notare Ammaniti e Ferrari (2020), “una modulazione epigenetica dei sistemi sensoriali, scheletrici e cerebrali del feto che prepara la transizione all’ambiente postnatale” (p.36).

Nel passaggio dall’ambiente uterino a quello extra-uterino, infatti, è richiesta al neonato un’elevata e rapida capacità di adattamento che dimostra di possedere. Le modalità interattive ed esplorative sperimentate in utero lo sostengono nel suo processo di adattamento, diventando nel tempo sempre più coordinate e complesse.   Quest’aspetto ha inevitabilmente sollevato un crescente interesse verso l’importanza ricoperta dal sistema motorio nella costruzione delle basi dell’intelligenza sociale.

A questo proposito, è stata importantissima la scoperta del sistema dei neuroni specchio, da parte di Rizzolatti e della sua équipe – cui è seguita un’imponente mole di studi, che ha identificato un loro coinvolgimento nella comprensione delle emozioni e nell’apprendimento per imitazione – per aiutarci a comprendere il ruolo di questo, ormai sistema di cellule, nella costruzione delle nostre competenze sociali.

Un’efficace e sintetica spiegazione della profonda rilevanza di questa scoperta mi sembra ben illustrata nelle parole di Ammaniti e Ferrari (2020) quando sostengono:

Le azioni altrui non sono interpretate, come saremmo portati a credere, attraverso processi cognitivi basati sulla mera analisi sensoriale degli avvenimenti, una sorta di meccanismo inferenziale e induttivo degli stati e degli atteggiamenti altrui, ma attraverso un sistema di rappresentazioni motorie condivise che rimappano sul corpo azioni, emozioni e sensazioni. (p.111)

Quello che, infatti, possiamo facilmente osservare sulla vita postnatale è come l’interazione tra madre e bambino avvenga sin dall’inizio attraverso gli sguardi, le espressioni facciali, i sorrisi, le carezze e i vocalizzi che vanno a costituire quell’intimo dialogo che lega ciascun membro della diade all’altro.

Per aiutare il lettore a comprendere meglio i meccanismi sottostanti a questi primissimi scambi, nei quali possiamo osservare nel tempo una migliore sintonia tra madre e bambino, gli autori selezionano due modelli: il modello di Watson e il modello di Murray e Ferrari.  Il primo, colloca in primo piano la sensibilità dei bambini alla contingenza temporale dei genitori e come una maggiore o minore contingenza influenzerà il comportamento del bambino e la capacità di apprendere dall’esperienza. Il secondo, evidenzia la predisposizione dei bambini a rispondere ad alcuni comportamenti dei genitori, in particolare quelli imitativi e di marking. Quest’ultimo modello – che prende il nome di modello “dell’Architettura Funzionale” – attribuisce la costruzione delle competenze sociali all’integrazione tra la predisposizione del bambino verso specifici comportamenti del genitore e la capacità intuitiva del genitore di rispondere ai comportamenti del bambino.

Come ho anticipato in precedenza, se da una parte le espressioni facciali costituiscono una parte del flusso comunicativo tra madre e bambino che conosciamo, dall’altra, l’aspetto che potrebbe essere meno noto è il ruolo organizzativo di questi specifici comportamenti di rispecchiamento.

L’imitazione da parte della madre del comportamento del bambino, infatti, agisce come promotore di comportamenti sociali positivi come il sorriso. Diversamente, quando la madre invece rimarca il comportamento, è l’introduzione di una rielaborazione del comportamento stesso a consentire al bambino non solo di imparare a dare un significato al proprio comportamento e all’emozione associata, ma anche di comprendere che esiste una la differenza tra se e la madre.

 Le evidenze sino ad ora disponibili, raccolte anche da studi di etologia umana, infatti, hanno rilevato proprio nei sorrisi, negli occhi spalancati e nelle sopracciglia inarcate i comportamenti universali dell’interazione madre-bambino, per quanto la cultura, fattori socioeconomici e individuali possano incidere su di essi determinando la propensione per alcuni comportamenti, piuttosto che altri.

Si comprende bene, allora, quanto la qualità di questi primissimi scambi condizioni non solo lo sviluppo fisico, ma anche lo sviluppo emotivo del bambino e la sua capacità di autoregolarsi.

Più precisamente, in presenza di specifiche condizioni cliniche dei genitori o dei bambini è stata identificata un’alterazione negli scambi con conseguenze anche a lungo termine. Tuttavia, questi studi hanno individuato anche, pensiamo a condizioni come la cecità congenita dei bambini, un aspetto che trovo affascinante ed emozionante allo stesso tempo, e che riguarda l’impiego di altri canali di comunicazione da parte di entrambi membri della diade per compensare il canale deficitario, impedendo a quest’ultimo di compromettere la relazione.

Le interazioni madre bambino e la nascita dell’intersoggettività

Come anticipato in precedenza, la psicoanalisi ha avuto un ruolo sicuramente importante nel richiamare l’attenzione sul legame tra il corpo e la relazionalità. Già Freud aveva pensato all’Io come a “un derivato di sensazioni corporee”, ma la sua posizione, dominata dalla pulsionalità, aveva creato un terreno che si sarebbe rivelato stabile per molto tempo. Solo in un secondo momento, l’attenzione della psicoanalisi è mutata da un prevalente interesse nei confronti della dimensione intrapsichica verso una relazionale, portando alla nascita di nuove correnti che avrebbero nutrito e studiato con un crescente interesse proprio l’importanza delle primissime relazioni sullo sviluppo dell’uomo.

A partire dai contributi degli psicoanalisti Spitz, Mahler e Winnicott, per citarne solo alcuni, la psicoanalisi ha proposto contributi in cui l’intrecciarsi dei mondi soggettivi ha assunto una posizione sempre più dettagliata e centrale definendo la sua influenza sulla costruzione dello sviluppo del sé e nella conoscenza dell’altro.

È stata, però, la corrente intersoggettiva di Stern, Beebe e Lachmann, nata in un’area d’intersezione tra la psicoanalisi e la psicologia dello sviluppo, a richiamare, con una visione che non intendeva penalizzare l’influenza dell’ambiente sullo sviluppo, l’attenzione verso l’esistenza di un costante dialogo intersoggettivo tra madre e bambino. Descrivendolo come il risultato di un complesso coordinarsi di rispecchiamento, ritmo, sincronia, condivisione di stati affettivi, attese, rotture e riparazioni ha chiarito come ciascun membro della diade impara a fare esperienza di se stesso e dell’altro e la organizza per poterla utilizzare successivamente. Più nel dettaglio, quando questa prospettiva sofferma la sua attenzione sul bambino, segnala come quest’ultimo arrivi a questa possibilità interattiva sfruttando la sua capacità di tradurre gli stimoli percepiti in una modalità sensoriale, in una modalità sensoriale differente. In questo complesso scambio non verbale, riconosce la rilevanza rappresentata dall’affetto trasmesso, che viene immagazzinato in uno specifico schema d’interazione e a cui è possibile riconoscere un valore adattivo. Diventa, dunque, sempre più plausibile pensare a una caratteristica predisposizione alla relazione nell’uomo che inevitabilmente ci conduce a riflessioni di ordine ontogenetico, filogenetico ed epigenetico.

Lo sviluppo del sistema nervoso autonomo e il legame di attaccamento

Restando all’interno degli studi sulle interazioni precoci gli autori consegnano al lettore, nell’ultima parte del loro libro, l’analisi dello sviluppo della relazionalità da un punto di vista prevalentemente filogenetico. Non è difficile comprendere come in questo spazio l’attenzione si soffermi sul tema della sopravvivenza della specie e sul legame tra sicurezza e fiducia e attaccamento.

Studiare i primati ha permesso di individuare nell’allattamento, nel lento sviluppo del cucciolo e nel tempo impiegato per la cura parentale, importanti fattori che hanno contribuito allo sviluppo di relazioni sociali più complesse ed estese e che hanno condotto a comportamenti aggregativi e sociali sempre più evoluti.

Non solo, le competenze sociali sembrano essersi evolute in parallelo alla trasformazione del sistema nervoso autonomo e, a questo proposito, Ammaniti e Ferrari segnalano i contributi di Porges, il quale attribuisce al sistema vagale ventrale un importante ruolo nello sviluppo delle competenze sociali.

Per tornare agli studi sulle prime relazioni tra madri e cuccioli, in cui l’etologia ha avuto un ruolo assolutamente centrale, pensiamo alle ricerche condotte da Lorenz, Hinde, Harlow, Hofer, Bowlby è stato possibile osservare un comportamento comune nei cuccioli quando cercano la prossimità con la figura di riferimento o s’impegnano a mantenerla per proteggersi dalle situazioni di pericolo. Un tale comportamento, che non mostra di dipendere dal bisogno di nutrimento, ha consentito agli stessi studiosi di ipotizzare che sia implicato nella sopravvivenza. Non solo, il cucciolo mostra una risposta specifica di attivazione se separato dalla madre e che torna in equilibrio solo nel momento in cui si ricongiunge ad essa. Questi studi, e quelli condotti sull’uomo, hanno condotto Bowlby ad affermare che è possibile riconoscere in questi comportamenti di attaccamento, che accomunano gli uomini e gli animali, un sistema motivazionale innato necessario per la sopravvivenza e capace di segnare il successivo sviluppo.

Dopo questa ricca, e per certi aspetti complessa, rassegna di studi, sen non altro per la densità di dati che Ammaniti e Ferrari propongono al lettore, un ultimo spazio, prima di tradurre le scoperte biologiche sul piano clinico è riservato alla presentazione della trasformazione che ha investito i numerosi ambiti di studio, verso l’emergente interesse nei confronti dello sviluppo delle competenze sociali.

Raccogliendo i contributi provenienti dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla biologia, dalla filosofia e dalle neuroscienze, gli autori presentano al lettore un vasto repertorio di studi in cui, il corpo “rappresenta il primum movens dell’uomo”, da cui nascono e si trasformano le competenze sociali.

In questo nuovo contesto di studi, che riconosce al bambino una predisposizione al contatto sociale molto precoce, il rapporto tra inconscio e la conoscenza implicita ha dato vita a visioni per certi aspetti contrastanti e in costante trasformazione, e coinvolte a richiamare l’attenzione verso le implicazioni cliniche di queste scoperte.  A tale scopo, Ammaniti e Ferrari terminano il loro testo offrendo al lettore la possibilità di cogliere i costrutti teorici presentati osservandoli, anche se solo attraverso un frammento clinico, nel contesto terapeutico.

Conclusioni e possibili aperture

Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, nel suo modo di procedere, a mio avviso, costruito per catturare l’interesse di una platea di professionisti, condensa al suo interno l’intento di farsi promotore di un’attenzione più estesa e minuziosa verso le domande aperte, i punti fermi e le contraddizioni che riguardano, un campo d’indagine, come quello delle relazioni precoci e il suo legame con il corpo, che ha promosso il dialogo tra discipline con posizioni in taluni casi apertamente ostili, in altri più disponibili a un curioso incontro.

Con il suo focus sul legame tra corpo e sviluppo relazionale, Il corpo non dimentica, l’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, rintraccia negli ultimi contributi della cognizione incarnata, una visione che, trasformando completamente le precedenti posizioni sullo sviluppo cognitivo e sociale dell’individuo, riconosce al corpo e alla sua relazione con l’ambiente il suo più affascinante ruolo autoregolatorio e relazionale, la cui conoscenza ha inevitabili ricadute anche nel contesto relazionale terapeutico.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ammaniti, M & Ferrari, P., F. (2020). Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità. Milano: Raffaello Cortina.
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