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L’incontro con l’altro: capacità di accogliere e sviluppare una relazione di lavoro efficace nel colloquio psicologico

Il colloquio psicologico si configura come un incontro in cui riusciamo a conoscere l’altro grazie alla creazione di una relazione

Di Viola Vinciarelli

Pubblicato il 11 Mag. 2021

Aggiornato il 14 Mag. 2021 11:15

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento. 

 

Il termine colloquio, che deriva dal latino cum loqui, parlare insieme, evidenzia già la natura relazionale di questa pratica. Del colloquio psicologico si può sottolineare l’aspetto di facilitazione della comunicazione, data anche dall’uso di tecniche non direttive da parte del conduttore che possono permettere al soggetto di sentirsi accolto, valorizzato, non sottoposto a giudizio e trattato come persona da un’altra di cui percepisce la disponibilità (Lis, Venuti & De Zorzo, 1995, p. 8).

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento.

Gelso e Carter (1994) definiscono la relazione terapeutica come “l’insieme dei sentimenti e degli atteggiamenti che il terapeuta e il paziente hanno l’uno verso l’altro, e il modo in cui questi vengono espressi” mettendo in luce anche la dinamicità del costrutto. Questa relazione deve avere l’obiettivo di facilitare l’espressione di sé nell’altro, non a caso, solitamente, le persone preferiscono sondare la qualità della relazione terapeutica prima di aprirsi (McWilliams, 2009, p. 6). Tutto ciò deve essere favorito anche dal contesto specifico in cui la relazione avviene; si rivelano importanti i fattori ambientali esterni ai due interagenti e ne consegue che una condizione confusa, ostile, che non garantisce la necessaria riservatezza, potrebbe compromettere il risultato del colloquio, ma non solo, ogni messaggio scambiato tra clinico e paziente entrerà a far parte di un particolare “contesto interpersonale” che influenzerà l’interazione successiva (Baldoni, Baldaro & Ravasini, 1994, p.7).

Imprescindibilmente legato al contesto è il setting, che rappresenta la cornice all’interno di cui avviene l’incontro. Questo è costituito dal set, dalle regole del “contratto professionale” e dalle regole della relazione; dunque, da condizioni materiali (luogo, tempo, modalità di pagamento ecc.), ma anche dall’atteggiamento del professionista che, con la propria presenza, contribuisce a determinare l’intera gestalt dell’ambiente. Ascoltare e dialogare in maniera attiva, valorizzando l’esperienza dell’altro è fondamentale da parte del professionista che, se distratto o superiore, reticente o ambiguo, seduttivo e manipolatorio, potrebbe non agevolare la relazione (Baldoni et al., 1994, p.7-10). Nell’ambito dell’incontro, quindi, è fondamentale che il paziente senta valorizzata la sua narrazione e che vi sia un clima relazionale che autorizzi a esprimere sinceramente aspetti di sé.

Per McWilliams (2009) all’inizio di un percorso è importante che il clinico domandi al potenziale paziente come si sente a parlare con lui in modo da trasmettere l’interesse rispetto a come questo esperisca la relazione. Si palesa la natura collaborativa della terapia e viene dato spazio a movimenti transferali sottostanti non evidenti (p. 29).

Riguardo all’atteggiamento del clinico, le dimensioni dell’ascolto e della sospensione del giudizio risultano fondamentali al fine di basare questa relazione sulla fiducia. È importante che l’ascolto sia attivo e finalizzato alla comprensione dell’altro. Tale modalità si basa sulla capacità empatica e su un’apertura affettiva che permette non solo la sintonizzazione sugli stati emotivi, cognitivi e somatici del soggetto, ma anche la comprensione degli elementi affettivi che circolano all’interno della diade e che riguardano sé e l’altro; spesso la valutazione del proprio affetto permette al professionista di fare inferenze critiche anche sull’altro. Di contro, modalità di ascolto selettivo e passivo si rivelano controproducenti.

Risulta fondamentale saper sostare nella sofferenza dell’altro e accettare la sua diversità in modo che il richiedente possa sperimentare la sensazione di essere accolto nella sua individualità e sentirsi lontano da qualsiasi dimensione di tipo valutativo. L’asimmetria relazionale tra richiedente il colloquio e il professionista non deve richiamare infatti uno squilibrio in termini di potere o di valore, ma solo una diversità strutturale in termini di ruolo: l’uno richiede una prestazione esprimendo in varie modalità una domanda d’aiuto, l’altro ha una funzione di ascolto e favorisce l’emergere di significati. La mal interpretazione di questa asimmetria potrebbe comportare atteggiamenti disfunzionali alla relazione, guidati talvolta da difese narcisistiche del professionista o tendenze idealizzanti da parte del paziente, che, se comprese e contenute, potrebbero comunque essere utili in una prima fase dell’incontro per formare quella che viene definita alleanza terapeutica.

La sospensione del giudizio è un’altra condizione imprescindibile affinché l’altro possa aprirsi, percepire l’accoglienza ed esprimere aspetti di sé, ma configura un’opportunità anche per il professionista poiché permette di ampliare l’esperienza e instaura una dinamica e comprensione reciproca che valorizza al tempo stesso i propri bisogni e quelli dell’altro. Tale sospensione necessita di una certa professionalità da parte del clinico tesa allo sforzo di diventare un contenitore sufficientemente vuoto da poter ascoltare il paziente con mente sgombra e libera, senza fretta di intervenire ed essere in grado di evitare di proiettare in lui cose che “già pensa di sapere”, non aspettandosi che l’altro cambi nella direzione che si desidera. Viene compiuta un’epochè in modo che si configuri un ascolto che Bion definirebbe “senza memoria né desiderio”; questo è un atto etico per eccellenza, poiché consente all’altro di dispiegare la propria soggettività.

Le dimensioni della sospensione del giudizio e dell’ascolto sono inoltre strettamente legate all’analisi della domanda, che si rivela importante nell’ottica di costruzione di un’efficace relazione di lavoro poiché fornisce da subito informazioni essenziali legate alle aspettative, alla motivazione, alla dinamica dell’invio, alla consapevolezza, così come alla capacità relazionale (esplicativa delle dinamiche di alleanza) e alle fantasie. Già dal primo contatto con il paziente, che solitamente avviene in maniera telefonica o telematica, iniziano ad affacciarsi fantasie che riguardano anche il professionista, si può dire che emergano operazioni di pre-controtransfert e pre-transfert.

Il tono globale del transfert del paziente permeerà dal primo colloquio e darà modo di valutare le identificazioni primarie (McWilliams, 2009, p.134). I dati sulle interiorizzazioni hanno implicazioni significative e da subito segnalano all’intervistatore come può entrare in contatto con il paziente.

L’instaurarsi di clima relazionale idoneo allo scambio comunicativo e all’espressione di sé è favorito dalla messa in campo da parte del professionista di una sensibilità e delicatezza volte a instaurare un contatto emotivo. Avverrà così il tentativo di cogliere indicatori verbali e non verbali che possano esprimere gli stati emotivi del paziente in modo da valorizzarli esprimendo accoglienza, ma sarà altresì essenziale che il conduttore si concentri ed elabori anche gli stati emotivi propri. All’affacciarsi di eventuali manifestazioni di disagio o ansia è importante che il conduttore non colluda, ma si dimostri comunque aperto, disponibile ed empatico.

Nella conduzione del colloquio il professionista si sforzerà di fare domande adeguate che possano rafforzare la relazione e che, a seconda della modalità con cui vengono poste, possano offrire un clima di lavoro aperto e sereno, quindi dare la possibilità al cliente di rilassarsi, esprimersi ed eventualmente verbalizzare l’origine della propria ansia immediata, stabilendo un contatto emotivo. Il vissuto di comunicazione reciproca che ne deriva permetterà al paziente di “accettare il dialogo e di sentirsi sempre più a suo agio nel parlare” (Baldoni et al., 1994, p.25).

Le persone hanno bisogno di sentirsi capite, rispecchiate, accettate e convalidate nelle loro esperienze soggettive. McWilliams (2009) traccia alcune linee del modo in cui sarebbe opportuno procedere durante una prima fase di incontro, sottolineando gli sforzi per stabilire un rapporto sicuro, minimizzare l’angoscia, comunicare comprensione, suscitare e valutare le reazioni del paziente nei confronti del professionista, dare speranza e affrontare e chiarire tutti gli aspetti pratici del contratto terapeutico.

Data la rilevanza dello sviluppo di una relazione di lavoro efficace ai fini del trattamento, negli ultimi anni sono state indagate, con i metodi della ricerca empirica e per mezzo di strumenti di valutazione costruiti ad hoc, le dimensioni fondamentali della relazione terapeutica e il loro rapporto con il processo e l’esito delle psicoterapie. Tra queste ricordiamo innanzitutto la già citata alleanza terapeutica, il transfert e il controtransfert, ma a connotare la relazione partecipano anche le caratteristiche del paziente, quelle del terapeuta, i sistemi di attaccamento e i sistemi motivazionali interpersonali (Colli & Lingiardi, 2014, p. 626). La necessità di brevità della trattazione non mi permette di descriverle in maniera esaustiva, ma solo di tracciare alcune linee.

Bordin (1979) dà una definizione panteorica di alleanza terapeutica secondo cui risulta come un fattore comune a tutti i modelli psicoterapeutici a prescindere dal modello operativo e l’orientamento teorico e che consiste nel “reciproco accordo riguardo agli Obiettivi (Goals) del cambiamento e ai Compiti (Task) necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi di un Legame (Bond) che mantiene la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico” (Bordin, 1979, p.16).

È importante cogliere la natura dinamica dell’alleanza, un qualcosa di co-costruito e suscettibile di cambiamento, negoziato anche attraverso momenti di tensione, rotture e riparazioni che risultano fisiologiche e diventano a loro volta “finestre relazionali”. La mutevolezza delle qualità dell’alleanza è considerata oggi il fulcro del lavoro terapeutico, le mancate sintonizzazioni o le rotture assumono una connotazione relazionale e diventano uno strumento prezioso per promuovere il cambiamento (Colli & Lingiardi, 2014, p. 629). La rottura può così essere un punto di partenza potenzialmente trasformativo, da riconoscere e gestire adeguatamente; il terapeuta deve essere in grado di cogliere feedback diretti e indiretti dei pazienti per poi agire favorendo la relazione.

Ackerman e Hilsenroth (2001;2003) hanno proposto nelle loro ricerche una serie di fattori in grado di favorire o inibire l’alleanza. Tra i tanti fattori predisponenti si trovano anche la capacità di assumere un ruolo collaborativo, la tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e la capacità di esplorare temi interpersonali, mentre giocano un ruolo negativo lo scarso coinvolgimento emotivo, la tendenza a criticare e l’autoreferenzialità del conduttore.

Altri studi hanno individuato ulteriori variabili: Norcross (2011) evidenzia lo stile di attaccamento del terapeuta come fattore capace di influenzare l’alleanza terapeutica e, di riflesso, l’outcome del lavoro clinico. Ma la relazione stessa che si presenta nel colloquio clinico potrebbe configurarsi come un legame di attaccamento; questa condizione potrebbe essere utile in quanto permetterebbe potenziali esperienze relazionali correttive volte a risolvere relazioni esterne disfunzionali. Va da sé che i pattern relazionali dei soggetti, le loro relazioni oggettuali interiorizzate, influenzano la relazione clinica e si configurano tramite l’esperienza transferale del paziente e contro-transferale del clinico.

In conclusione, possiamo dire che il colloquio si fonda sulla relazione e che questa funga da “termometro” del colloquio stesso; la sua efficacia risulta fondamentale nell’ottica della cura e dell’esplorazione. A questo fine il professionista dovrà essere in grado di orientare il setting, gli obiettivi e le tecniche di colloquio, in modo da favorire un clima relazionale che permetta uno scambio comunicativo fluido, in cui il paziente viene messo nelle condizioni di percepire un’accoglienza priva di valutazione, e da poter organizzare liberamente il modo di relazionarsi ed esprimere il proprio Sé. Lo scopo deve rimanere sempre quello di “costruire, innanzitutto, un ‘canale’ di comunicazione entro il quale dovrà poi essere fatta fluire la maggior quantità (e la miglior qualità) di contenuti informativi che, infine, potranno essere trattati in qualche modo, per essere riproposti, così mutati, al paziente o semplicemente memorizzati dall’operatore” (Del Corno, 2014, p.221).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ackerman, S. J., & Hilsenroth, M. J. (2001). A review of therapist characteristics and techniques negatively impacting the therapeutic alliance. Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 38(2), 171-185.
  • Ackerman, S. J., & Hilsenroth, M. J. (2003). A review of therapist characteristics and techniques positively impacting the therapeutic alliance. Clinical psychology review, 23(1), 1-33.
  • Baldaro B., Baldoni F., & Ravasini C. (1994). Il colloquio clinico. In: Trombini G. (a cura di): Introduzione alla clinica psicologica. Zanichelli, Bologna, pp.103-126.
  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, research & practice, 16(3), 252.
  •  Colli, A., & Lingiardi, V, (2014). La relazione terapeutica. In: Lingiardi, V., & Gazzillo, F. (2014). La personalità ei suoi disturbi: Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento. Raffaello Cortina, Milano, pp. 625-650
  • Del Corno, F., (2014). Il colloquio clinico. In: Lingiardi, V., & Gazzillo, F. (2014). La personalità ei suoi disturbi: Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento. Raffaello Cortina, Milano.
  • Gelso, C. J., & Carter, J. A. (1994). Components of the psychotherapy relationship: Their interaction and unfolding during treatment. Journal of Counseling Psychology, 41, 296-306.
  • Lis A., Venuti P., & De Zordo M.R. (1995). Il colloquio come strumento psicologico: ricerca, diagnosi, terapia. Firenze: Giunti.
  • McWilliams, N. (2009). Il caso clinico: dal colloquio alla diagnosi. Raffaello Cortina, Milano.Norcross J.C. (2011), Psychotherapy Relationship that Work. Evidence-Based Responsiveness.  Owford University Press, New York.
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