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L’altro volto della divisa

Le famiglie di militari sono quelle più sottoposte a stress dovuto non solo alle frequenti missioni all’estero, ma anche ai numerosi trasferimenti.

Di Francesca Ferri

Pubblicato il 22 Apr. 2021

Aggiornato il 23 Apr. 2021 12:39

Essere militare è una scelta di vita, una vocazione con la quale si nasce, lo chiamano “amor di Patria”, ma è veramente solo questo? O dietro a quella divisa si nasconde qualcosa di più?

 

La verità? Non si può essere forti da soli, non basta un duro addestramento a trasformare un giovane ragazzo in un uomo dalle spalle forti, ci vuole chi gli insegni a tenere duro, qualcuno che rappresenti un posto più sicuro di una trincea, nel quale fare ritorno dopo una qualsiasi battaglia: la famiglia.

Stress, ansia e difficoltà nelle famiglie dei militari

Le famiglie di militari sono quelle più sottoposte a stress dovuto non solo alle frequenti missioni all’estero, specie nei primi periodi di impiego nelle FF.AA,  ma anche ai numerosi trasferimenti. È noto infatti come questi ultimi influiscano pesantemente sull’equilibrio familiare. Ogni trasferimento determina cambiamenti per tutti i membri della famiglia, da svariate abitudini alle amicizie e impone di dover ridefinire costantemente una nuova routine. Questo spesso porta la famiglia a rinunciare a tutti i benefici conseguiti in un determinato contesto sociale, soprattutto quando si è costretti ad adattarsi ad un habitat scarsamente dotato di servizi, imponendo così a tutti i componenti della famiglia di accontentarsi delle risorse disponibili sul territorio.

Stress, ansia e difficoltà non possono essere considerati problemi legati solo ed esclusivamente alla famiglia del militare, in quanto evidenze empiriche hanno provato come soldati in missione, preoccupati per la propria situazione familiare, siano meno affidabili e meno efficienti nelle prestazioni lavorative. È stato dimostrato però come attraverso l’aiuto e il sostegno, le famiglie siano in grado di risolvere i propri problemi in maniera più efficace, senza pesare psicologicamente sul proprio caro lontano da casa.

Un altro fenomeno alquanto importante, che ha delle ripercussioni nel contesto familiare, è quello del pendolarismo. Spesso, soprattutto quando i figli (se presenti) superano l’età della scuola dell’obbligo, è concesso al militare di alloggiare fuori dalla sede di servizio. Questa soluzione sembra garantire l’unità della famiglia ma solo a prima vista, in quanto il militare pendolare, oltre a sopportare il peso delle ore di viaggio, è costretto a trascorre un tempo estremamente limitato nella propria abitazione, limitando così il dialogo e l’interazione con i cari. Questo fenomeno, se gestito scorrettamente, induce stanchezza, irritabilità, difficoltà di comunicazione, ecc. che possono sfociare in problematiche correlate allo stress quali depressione, traumi e disturbi psicofisici di vario genere. Tutto questo incide fortemente sulla vita del militare caratterizzata pertanto da una serie di limitazioni e vincoli imposti ai progetti personali.

Le difficoltà che emergono, a seguito dei ricorrenti distacchi prodotti dall’invio in missione del partner militare, sono condivise da più famiglie. Il distacco è sempre percepito come negativo e tende a sua volta a generare stress e un senso di privazione, specie in chi resta a casa ad aspettare. Quello che spesso accade è che problematiche come queste vengono taciute per evitare di gravare ulteriormente sulla condizione psicologica di chi, per giuramento, non può sottrarsi ai suoi obblighi professionali.

Con il passare del tempo l’impatto iniziale e le difficoltà del distacco diventano sempre meno forti, ma dover ridefinire costantemente una propria routine, in assenza del partner, risulta essere piuttosto difficile se non si ha qualcuno accanto sul quale poter contare.

Al problema del distacco è correlato quello del ritorno, non è semplice ri-adattarsi ad un contesto con abitudini e routine completamente diverse da quelle alle quali si è stati sottoposti nel periodo di assenza da casa, e alle quali si è costretti a rinunciare nuovamente dopo poco tempo, a tal proposito questo richiede uno forzo, non indifferente, da entrambe le parti.

Famiglia e vita militare: un po’ di storia

Per un lungo periodo, le forze armate hanno ostacolato i militari nel costruirsi una propria famiglia, in quanto si temeva potesse essere un impedimento al lavoro e allo svolgimento della professione di soldato. Questo divieto, in passato, veniva imposto specialmente ai più giovani di età e ai più bassi in grado ma non accadeva lo stesso con i giovani Ufficiali.

Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che negli Stati Uniti si iniziò a comprendere l’importanza del ruolo della famiglia nella vita di un soldato, come meccanismo di sostegno a chi era costretto a combattere al fronte. Questa attenzione però, in un primo momento, era del tutto “strumentale”, in quanto mirava al benessere del militare, e quindi responsabile delle sue prestazioni positive sul lavoro.

A tal proposito a partire dagli anni ’50 era permesso alle famiglie di seguire i militari/congiunti continuamente trasferiti da una base all’altra e si arrivò a comprendere che la famiglia doveva essere pronta a sostenere il peso e le difficoltà di una missione, tanto quanto un soldato.

Ma allora cosa possiamo fare per tutte le famiglie costrette a sopportare il peso dell’attesa?

Supporto alle famiglie dei militari

Il supporto alle famiglie dei militari è utile per creare un equilibrio tra vita privata e esigenze lavorative. Sono state proposte diverse attività di sostegno:

  • un’organizzazione istituzionale interna gestita localmente presso ogni reparto, in grado di fornire assistenza e aiuto in diversi campi professionali (medico, psicologico..);
  • un’associazione volontaria, esterna all’Istituzione, senza legami o vincoli con l’organizzazione militare;
  • un’associazione volontaria che però riceve riconoscimento e sostegno istituzionale a livello locale ovvero dal reparto presso il quale sorge e opera, utilizzando spazi, mezzi di comunicazione e supporto logistico interni;
  • sportello di ascolto gestito da personale militare specializzato nel fornire indicazioni e informazioni.

Spesso vengono organizzati incontri e riunioni per spiegare a mogli/mariti e figli (chiamati in inglese military brat) lo scopo della missione in cui viene impiegato il proprio congiunto.

Nonostante le tante possibili soluzioni alcuni nuclei familiari sentono di non dover condividere le proprie difficoltà, i motivi sono generalmente due: il primo è quello di ritenere che la diffusione di notizie possa nuocere alla carriera del soldato interessato, il secondo è la completa autonomia da parte della famiglia nello gestire la situazione problematica.

In passato si usava inviare lettere ai propri cari, i tempi di attesa erano estremamente lunghi e ogni volta si doveva sperare che non andassero perse, l’invenzione del telefono ha permesso di accorciare i tempi e ha reso la lontananza dal proprio caro più sopportabile. Oggi con lo sviluppo delle tecnologie (Skype, WhatsApp, ecc.) le distanze si riducono ulteriormente e tutti questi strumenti consentono a militari e familiari di rimanere in contatto psicologico ed emotivo.

Supporto alle famiglie dei militari in Italia

In Italia il supporto alle famiglie dei militari non si è del tutto affermato. Purtroppo ancora oggi quando si cerca di parlare con qualcuno dei propri disagi, provati a seguito della mancanza del partner o di un genitore, ci si sente rispondere con frasi del tipo: “sapevi a cosa andavi incontro”, “ma guadagna un sacco di soldi” e si finisce per chiudersi in se stessi perché poco o per nulla compresi. Tutto questo porta all’insorgenza di disagi familiari che spesso si traducono in divorzi (non a caso il tasso di divorzi di membri delle FF.AA in Italia è altissimo).

Nel 1993 un gruppo di mogli e fidanzate ha dato vita a un’organizzazione di supporto chiamata “3M-Moglie, Marina, Militare” e nel 2013 è nata a Grottaglie (TA) l’associazione “L’altra metà della divisa” con l’obiettivo di fornire sostegno completo alle famiglie del personale militare favorendo serenità e benessere. Alla base di questa associazione vi è il motto “insieme possiamo fare la differenza”, l’idea che si vuole trasmettere è quella che qualunque problema può risultare meno spaventoso se condiviso con altri.

La presenza di questi gruppi/associazioni può essere considerata come un duplice aiuto offerto da una parte alle famiglie e dall’altra al militare che potrà assolvere al proprio ruolo con maggiore concentrazione, certo del fatto che i propri  cari non verranno mai lasciati soli.

L’importanza della famiglia e il suo ruolo centrale a sostegno della figura del militare sono ormai noti e, a tal proposito, una poesia di Giuseppe Ungaretti, il grande poeta soldato, che mi ha sempre affascinata per la semplicità e chiarezza nelle parole, recita così “Sorpresa dopo tanto d’un amore. Credevo di averlo sparpagliato per il mondo”. È evidente come il poeta esprima un concetto ampio quale quello del ritorno a casa e la sua successiva sorpresa nel realizzare che l’amore per i cari sia rimasto sempre lo stesso, nonostante lo scorrere del tempo.

Quella di Ungaretti rappresenta per noi la testimonianza di un uomo che ha vissuto due realtà tanto diverse tra loro: quella del campo di battaglia e quella dell’ambiente familiare in cui ogni soldato spera sempre di far ritorno.

In un’intervista ai corpi speciali delle FF.AA un giovane incursore (del quale non è possibile, per privacy, riportare il nome) ha dichiarato:

Una notte durante un addestramento mi è passata la vita davanti, ho pensato alla mia famiglia, ma quando mi sono chiesto perché lo stessi facendo e se ne valesse la pena arrivare fino alla fine del tunnel la mia risposta è stata…Sì.

Di questa affermazione ciò che mi ha colpita di più è stato il pensiero, che questo ragazzo ha rivolto, anche solo per un istante, alla sua famiglia, alla quale, per scelte professionali, è costretto a togliere del tempo.

Ma cosa potrebbe accadere se non si fornisse il giusto supporto psicologico ai membri delle FF.AA?

Suicidi in ambito militare

In un’intervista il Gen. Claudio Graziano, ricordando la figura del nonno, soldato al fronte durante la prima guerra mondiale, afferma:

Lui non aveva voglia di morire, per lui la vita era importante, si accettava la morte perché all’epoca la dimensione della guerra era diversa.

Gli antenati degli attuali corpi speciali delle FF.AA: gli Arditi erano guardati con ammirazione e anche con un po’ di invidia in quanto addestrati a prendere decisioni autonomamente, sfidavano la morte ma erano desiderosi di vita.

Ma allora cosa spinge questi uomini al suicidio?

Il suicidio non può essere mai considerato l’effetto di una sola causa, sono diversi i fattori che intervengono a determinarlo e ancora oggi è concepito come un fenomeno sottovalutato e negato.

Da un militare ci si aspetta che sia perfetto, un eroe chiamato ad intervenire per salvaguardare la nostra sicurezza e sono tutte queste false credenze, ancora purtroppo condivise, che impediscono all’uomo sotto quella divisa di esprimere il suo disagio, portandolo a ricorrere al suicidio come unica soluzione al problema, come ricerca di una libertà che porta alla perdita della libertà stessa.

Quest’ultimo si verifica quando passato, presente e futuro non forniscono più nessuna ragione di vita.

Il suicidio costituisce la terza causa di morte nelle Forze Armate, come riportato nell’articolo Suicidio: linee di comprensione e di epidemiologia dell’Osservatorio Epidemiologico della Difesa:

Dei 155 suicidi notificati all’Osservatorio dal 2006 al 2014, la percentuale maggiore dei casi pari al 60% riguarda l’Arma dei Carabinieri, seguono l’Esercito con una percentuale del 28%, l’Aeronautica con il 7% e infine la Marina con il 5% dei casi.

Potrà apparire come una soluzione banale ma il semplice colloquio, pur non essendo un vero e proprio intervento terapeutico, permette di individuare quelli che possono essere definiti, come riportato nell’articolo sopra citato, “primi indizi di un disagio”. Un passo avanti in questa direzione è stato fatto proprio negli Stati Uniti, dove è stata proposta una serie di programmi educativi al fine di facilitare la comunicazione del disturbo.

Solitudine, ansia, stress, depressione, traumi sono tra le principali cause del suicidio in ambito militare, pensate a quanto possa essere difficile parlarne per chi ogni giorno “rischia la carriera”.

Al pari del suicidio, anche il tentato suicidio richiede un’attenta analisi, il sociologo Emile Durkheim lo definisce così:

Il tentativo di suicidio è l’atto così definito ma arrestato prima che ne risulti la morte.

In queto caso intendiamo sia fenomeni di autolesionismo che il “mancato suicidio”, ovvero un atto di suicidio pianificato ma fallito per cause accidentali.

Nell’articolo in questione, tra le dimensioni psicologiche, costituenti fattori di rischio, viene riportato

Hopelessness, una tendenza a percepirsi disperato, senza via d’uscita.

I costrutti mentali connessi a quest’ultimo si riferiscono a schemi cognitivi alla base dei quali vi è l’aspettativa negativa verso il futuro. Ciò che si vuole evidenziare è che vi è uno stretto legame tra visione negativa del futuro, presenza di sindromi depressive e la tendenza a commettere atti quali il tentato suicidio o il suicidio.

Ritengo importante sottolineare che non possiamo prevedere il suicidio, ma sicuramente è possibile prevenirlo assicurando, anche e soprattutto in ambito militare, la presenza di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici ecc.).

La figura dello psicologo nelle forze armate

Come riportato nel documento ufficiale dello Stato Maggiore della Difesa il supporto psicologico offerto alle famiglie è fondamentale per aiutarle a metabolizzare un lutto o un evento potenzialmente traumatico.

In aggiunta a questo anche il militare stesso viene accompagno in un percorso di riabilitazione al fine di ristabilirsi dopo un incidente/ferimento più o meno grave. Viene effettuato su richiesta di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici) e generalmente tali attività vengono assicurate a livello di singola F.A..

Eventi di questo tipo producono un’interruzione improvvisa nel presente delle famiglie, dei militari o di entrambe le parti, offuscando momentaneamente la possibilità di progettare un futuro degno di essere vissuto. È in contesti come questi che lo psicologo interviene per massimizzare le potenzialità di rispondere in maniera resiliente a tali situazioni, al fine di ristabilire l’equilibrio e riprendere nella maniera migliore possibile il proprio cammino.

Nonostante i continui addestramenti per essere pronti ad affrontare rischi, incertezze e minacce, non si è di certo esenti da ripercussioni a livello emotivo e psicologico. Per un militare perdere un proprio compagno equivale a perdere un membro della propria famiglia ed è noto come il supporto psicologico, sociale e familiare acceleri il processo di ripresa.

L’intervento di sostegno psicologico può essere svolto individualmente o in gruppo, ma non può essere imposto e non può prescindere da una consapevole richiesta da parte della famiglia e/o del militare/civile interessato. Esso dovrebbe essere garantito, se possibile, da psicologi militari/civili della Difesa o da personale appartenente a strutture convenzionate.

A seconda della situazione (decesso, ferimenti, evento traumatico, infermità e malattia) vengono applicati percorsi differenti, progettati su misura.

Le abitudini ci rendono più forti, più sicuri, ma siamo davvero certi del fatto che “prima o poi ci si abitui a tutto?”.

Il supporto psicologico in ambito militare è fondamentale sia per chi parte, e a volte non sa quando farà ritorno, sia, e soprattutto, per chi, con il tempo ha solo imparato ad attendere, non si tratta di “farci l’abitudine”, ma di essere disposti ad aspettare, un’arte che in pochi conoscono, ma che le famiglie dei militari esercitano da sempre.

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