In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino. La sua carriera criminale inizia molto presto e con reati di criminalità diffusa.
In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino.
Pipino è un famoso ladro veneziano che nel corso della sua carriera criminale si è distinto per l’imponente quantità di furti messi a segno (oltre 3000) e per la loro diversità, che ha seguito la sua evoluzione personale. Pipino è passato infatti dal rubare il latte quando era bambino per sfamare la sua ed altre famiglie indigenti del quartiere nel quale viveva, a gioielli e lingotti d’oro quando era ragazzo fino ad inestimabili opere d’arte nei palazzi storici veneziani in età adulta.
Pipino è però molto noto anche e soprattutto per le modalità con le quali ha costruito e condotto la propria carriera deviante, modalità che gli sono valse i soprannomi di ‘ladro gentiluomo’ e ‘ladro più onesto d’Italia’.
Vincenzo Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ in quanto da sempre fedele ad un ferreo codice di non violenza che gli imponeva di non portare mai con sé un’arma e di non infierire mai contro le sue vittime, tanto che tali caratteristiche gli sono state riconosciute dalle stesse forze dell’ordine. Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ anche perché, come ha più volte dichiarato ai media nazionali che nel corso degli anni gli hanno dedicato molta attenzione, avrebbe scelto le proprie vittime solo tra i più ricchi, ‘non lasciando mai in miseria’ nessuno a causa dei suoi furti.
Pipino è anche un ladro ‘onesto’, in quanto a suo dire è sempre stato legatissimo alla sua città, Venezia, mai privandola davvero delle opere d’arte che rubava: nessuna delle molte opere d’arte che ha rubato in città è stata infatti mai fatta oggetto di ricettazione rivendendola a terzi: egli le ha infatti sempre restituite (sebbene dietro il pagamento di un riscatto) ai musei e ai palazzi dai quali le ha sottratte.
Sul piano criminologico Pipino viene considerato un criminale dalla elevata caratura e detiene dei primati: è stato infatti ad esempio il primo a riuscire a rubare a Palazzo Ducale in Venezia ed è inoltre l’autore del furto del celebre dipinto del Canaletto il Fonteghetto della farina, rubato da Palazzo Giustiniani a Venezia.
La vicenda criminale di Pipino ma anche la sua stessa vita hanno avuto e mantengono una significativa eco mediatica. La sua storia è molto suggestiva, ha il sapore d’altri tempi. La sua fama e l’attenzione a lui riservata dai media non sembrano calati nemmeno dopo il suo ritiro dalla scena criminale: è stato addirittura coinvolto in vari programmi televisivi nei quali la sua figura è stata alternativamente presentata come un ‘grande uomo che ha fatto del furto un’arte moralmente rispettabile’ e come esperto, ‘tecnico’ di furti, chiamato a commentarne altri.
L’intento di questo articolo è leggere il personaggio Pipino da un punto di vista psicologico a partire dalla grande disponibilità di materiale che le numerose interviste da lui rilasciate forniscono, individuando i momenti critici della costruzione della sua carriera deviante ma anche della sua personalità e provando a verificarne la compatibilità con alcune teorie sulla genesi del comportamento criminale. Ripercorreremo l’evoluzione della carriera criminale di Pipino partendo dalla sua storia personale, iniziando dalla sua infanzia. Tale, infatti, è il momento nel quale si iniziano a strutturare in lui quelle convinzioni che lo accompagneranno per tutta la vita facendone un ladro così particolare. Tra le convinzioni alle quali Pipino si dice più legato vi è l’idea di rubare solo ai ricchi e che sia giusto (o meglio, non sbagliato) farlo, l’evitare il ricorso alla violenza ed il rispetto per la povertà e la miseria economico-sociale.
Vincenzo Pipino nasce a Venezia nel 1943, primo di cinque fratelli, in una famiglia molto povera dove la madre era casalinga ed il padre un capitano di traghetti.
All’età di 6 anni avviene un fatto particolarmente traumatico per lui che segnerà tutta la sua vita: viene infatti cacciato da scuola per una lite con un coetaneo, ricco. Dopo aver tentato di fare piccoli lavoretti (aiutante alle pompe funebri, garzone di pasticceria ed aiutante fotografo) inizia a 8 anni a rubare, a suo dire per aiutare la sua famiglia. Nel furto, ma ancor prima nella vita di strada, Pipino sebbene piccolissimo racconta di aver trovato la propria appartenenza ‘…la strada è la mia maestra‘.
La sua carriera criminale inizia quindi molto presto e, come spesso accade a soggetti emarginati, con reati bagatellari, di criminalità diffusa. Nel giro di breve diviene autore di furti sempre più complessi, relativi a beni di valore crescente, fino ad arrivare alle grandi opere d’arte veneziane.
Parallelamente inizia presto anche il suo contatto con la carcerazione, già prima di 14 anni. Nella sua vita Pipino passerà moltissimi anni in carcere, senza mai pentirsi ed anzi considerando sempre di più la galera come una parte complementare alla sua attività criminale, dove trovare accoglimento e sviluppare socializzazione.
Pipino si sposa a 25 anni con Carla; non hanno figli per via dell’impossibilità di lei ad averne. L’uomo dice di aver molto sofferto la mancanza di un figlio anche perché viene da una famiglia numerosa; nonostante ciò la coppia resiste e Vincenzo sviluppa una propria generatività sociale: nelle interviste racconta di essersi sempre dedicato alla cura dei fratelli e dei nipoti, provvedendo alla loro ‘sistemazione’, presumibilmente economica. La relazione con la moglie è raccontata con tenerezza, affetto e calore.
Pipino vive ancora a Venezia, ha reinventato se stesso ed il proprio posizionamento sociale, da alcuni anni infatti dice di essere un ‘consulente per persone benestanti’: ‘gli insegno come proteggere le loro ville dai malviventi’.
Significati dell’evento-reato
È utile fornire alcuni elementi di comprensione delle dinamiche che si scatenano nel singolo e nella famiglia quando soprattutto un giovane (come era Pipino all’inizio) compie un reato.
La commissione di un reato è sempre un evento critico per il minore ma anche per la sua famiglia in quanto questo, forse più di altri, è uno di quegli eventi puntuali che ha il potere di trasformare l’identità stessa della famiglia sia in termini di autostima che di posizionamento sociale. Da quel momento, infatti, minore e famiglia si situano nella polarità semantica ‘onesto-disonesto’, ‘criminale-persona per bene’ e tutti devono fare i conti con il fatto che da un certo momento in avanti in famiglia c’è un delinquente ‘...tra di noi c’è chi ha infranto la legge e commesso un reato, questo cosa significa per noi e per le persone che interagiscono con noi? Che conseguenze può portare a me e ai miei cari?‘.
L’atto deviante si struttura su tre livelli posti in interazione circolare tra loro: il comportamento manifesto (cosa una persona fa concretamente), la cognizione (i pensieri ed i significati attribuiti dal soggetto al comportamento) ed il significato sociale (per il soggetto rispetto al suo posizionamento sociale ma anche per la società che deve com-porsi con l’atto deviante). Questa interazione crea un sistema che ‘… definisce lo scopo dell’azione [delinquenziale, n.d.r.] come un costrutto che propone continui rinvii di significati‘ (De Leo & Patrizi, 1999, p.113). Dunque il reo, specie se minorenne, attraverso l’agito deviante, pone la famiglia in un’interazione forzata con la società, che ha la caratteristica di essere sempre trasformativa: da questo confronto-scontro infatti il reo e la sua famiglia emergeranno comunque come socialmente diversi da prima. Ciò accade sempre in quanto l’azione criminale contiene in sé un’esplicita condanna da parte della società, non passibile di modificazioni di tipo culturale come invece può accadere per le separazioni coniugali, l’omosessualità, l’utilizzo di alcune droghe, le gravidanze precoci, etc. (Schneider, 2018).
Partendo dalla teoria dell’azione come costruzione sociale (Kelly, 1991), che vuole che il soggetto anticipi mentalmente gli effetti delle sue azioni ristrutturando di volta in volta il proprio comportamento in base alla reazione sociale, è possibile sostenere che il comportamento criminale, fatta eccezione forse per alcuni reati impulsivi, si caratterizza come un agito organizzato e pianificato, del quale vengono valutati in anticipo dal reo gli effetti, i possibili rischi e le conseguenze.
Su questa base De Leo e Patrizi (1999) si sono concentrati sullo studio della condotta deviante identificandone due specifici effetti: gli effetti strumentali e gli effetti espressivi. I primi fanno riferimento allo scopo manifesto (ovvero, quale tipo di risultato/vantaggio voglio ottenere con il reato?) mentre i secondi rimandano agli effetti propriamente comunicativi dell’azione (cosa voglio comunicare agli altri con il mio reato?). In relazione a quest’ultimi, secondo De Leo e Patrizi l’azione deviante è un forte strumento comunicativo e di attrazione, e l’atto criminale viene inteso come una modalità molto efficace per rendere evidenti i messaggi e gli effetti anticipatori (ivi, p.128).
Nel caso specifico di Pipino, gli effetti strumentali dei suoi primi furti sembrano connessi alle necessità di sostentamento della sua famiglia ed in generale al fornire a se stesso e alla famiglia condizioni di vita meno deprivate. Per quanto riguarda gli effetti espressivi, con i suoi furti diretti in particolare contro i ricchi della nobiltà veneziana Pipino sembra voler comunicare il disagio per le disuguaglianze sociali con essi e la superiorità di quest’ultimi ostentata verso la classe più povera. Non sembra prioritario nei suoi crimini l’intento di arricchirsi mentre al contrario i ricchi e la ricchezza sono vissuti come ‘nemici’ da punire e vincere, configurando quasi una lotta di classe.
Carriera deviante
Il passaggio da un singolo atto criminale ad una reiterazione dello stesso, prerequisito per De Leo e Patrizi per lo strutturarsi di una carriera deviante, viene spiegato dagli autori considerando un processo relativamente stabile di ristrutturazione cognitiva di significati diviso in fasi, ognuna delle quali rinforza il consolidamento dell’identità deviante. Il caso di Pipino appare in questo senso emblematico: è infatti possibile ritrovare una corrispondenza abbastanza precisa tra le varie fasi del processo evolutivo criminale proposte da De Leo e Patrizi ed i momenti critici della vita di Pipino.
Antecedenti storici. Rappresentano per De Leo e Patrizi le condizioni di disagio socio-economico e relazionale entro cui la prospettiva di una carriera deviante può trovare terreno fertile per svilupparsi. Per Pipino la condizione di partenza è la povertà e l’appartenenza ad un contesto caratterizzato da atteggiamenti disprezzanti agiti dai più ricchi verso i più poveri. Forte in questo caso è la percezione di ingiustizia sociale. Pipino dice ‘...noi che eravamo i poveri ci mettevano sempre negli ultimi banchi, e nei primi c’erano tutti i figli dei ricchi, dei signori, che facevano comodo ai maestri: portavano sempre qualcosa per i maestri che erano sempre molto più attenti a questi ragazzi qua e non a noi che eravamo poveri‘.
Crisi. Rappresenta la fase nella quale avvengono i primi contrasti tra le esigenze di sviluppo del soggetto e la considerazione della limitatezza degli strumenti concreti a sua disposizione. In Pipino l’evento critico avviene molto presto, a 6 anni, e coincide con lo scontro con un compagno ricco per un torsolo di mela (contrasto con la società). Pipino racconta: ‘…è successo che ho fatto una litigata per un torsolo di mela con uno il cui papà era un medico-farmacista. Aveva il cestino pieno di leccornìe e io gli ho chiesto il torsolo della mela. Questo a furia di morsicare è arrivato alla fine… e me lo ha gettata in faccia. Mi sono alzato e gli ho dato una spinta, è caduto per terra, si è morso la lingua, è uscito un flutto di sangue (…) Hanno chiamato mia madre, mio padre no perché lavorava, e le hanno detto: signora suo figlio bisogna metterlo in una scuola pedagogica, quelle chiuse, per i ritardati mentali. Da quel giorno lì non sono più andato a scuola‘.
Inizio. Riguarda le occasioni sporadiche nelle quali il soggetto sperimenta azioni devianti. Spesso l’intento è comunicare in modo disfunzionale il proprio disagio ma parallelamente inizia anche la percezione di poter trarre dall’atto deviante un qualche vantaggio (strumentale o comunicativo). Dagli 8 anni Pipino trova nel furto un modo per sopperire alla sua povertà sia concreta (fame) sia sociale (emarginazione). ‘…Una volta ho raccolto un frutto, mi sono pasciuto di questo frutto, e ho detto: questo frutto sarà la mia scuola e la strada la mia maestra. E così ho cominciato a cambiare completamente la mia vita. Il primo furto l’ho fatto a 8 anni. Rubavo un litro di latte tutti i giorni, lo portavo nel mio quartieretto, dove c’erano 15 famiglie, tutte morte di fame, e aspettavano me con il latte per dare il latte ai bambini‘.
Prosecuzione. Il soggetto percepisce positivamente gli effetti strumentali dell’azione deviante e l’acquisizione di uno status deviante riconosciuto dagli altri in modo favorevole. Dai 12 anni Pipino trova attraverso il furto l’approvazione del suo gruppo di riferimento (famiglia e poveri) e si gratifica nell’aiutarli. ‘…Poi piano piano, mi sono un po’ migliorato, ho cominciato dapprima con i tabaccai poi con le gioiellerie, sono diventato insomma, quello che sono‘.
Stabilizzazione. Il soggetto sente di non poter più ‘tornare indietro’ rispetto alla criminalità, per non tradire il suo gruppo di riferimento ma anche perché è sempre più capace nelle sue azioni delinquenziali; l’identità si struttura su queste competenze. Pipino continua la sua personale ‘battaglia’ contro i ricchi, giustificata e sostenuta dalla sempre maggiore appartenenza al proprio gruppo (i bersagliati e i vessati dai ricchi) e da un sempre maggiore riconoscimento in tale gruppo. Si sviluppa in lui una ‘morale’. ‘… io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto, ma molto più di me, [ovvero, n.d.r.] i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. Venezia è una città rubata. Ci sono quelli che nascono con la camicia e con lo smoking, noi invece siamo nati nudi, come Dio ci ha fatto‘.
Consolidamento. Questa per De Leo e Patrizi è la fase nella quale gli altri si aspettano che il soggetto continui a delinquere. Il soggetto si riconosce ormai come deviante e la devianza è percepita come un successo. Per Pipino è proprio così: si percepisce come deviante, la devianza è un successo e un riconoscimento personale. È fiero del suo operato e del riconoscimento che ottiene in quanto abile ladro con un proprio codice d’onore, che gli vale anche il rispetto della polizia. Sono presenti diversi elementi:
Successo nel poter aiutare i poveri a scapito dei ricchi ‘… Il mio era il modo onesto di poter sottrarre ai ricchi per poi dare qualcosa ai poveri (…) mi definisco una sorta di Robin Hood‘.
Il furto diventa un’occupazione stabile un ‘lavoro’. Pipino dimostra orgoglio per aver rubato in tutte le case dei nobili Veneziani: ‘li ho castigati (…) Ho visitato tutte le case dei nobili veneziani’.
Riconoscimento sempre più generalizzato, fascinazione degli avversari e degli interlocutori. Mosi, Ex Capo della Squadra Mobile di Venezia, dice: ‘… è difficile parlar male di lui nonostante i 30 anni che ha passato in carcere per una scelta di vita che indubbiamente non è da condividere, perché nel suo modo di pensare, nel suo stile di vita, nel suo essere fuorilegge, in qualche misura criminale, ha sempre avuto un codice di rispetto per quello che erano le persone. Non mi risulta mai che abbia usato violenza nei confronti di altri, neppure all’interno del suo gruppo, all’interno del suo mondo, dove è facile entrare in contrasti. Era un soggetto d’altri tempi, un soggetto che voleva la quiete all’interno del suo gruppo‘.
Meccanismi di difesa
Spesso l’azione deviante è accompagnata da una distorsione cognitiva ed emotiva che implica la giustificazione del proprio comportamento. Tali processi hanno la funzione di neutralizzazione della norma e sono messi in atto, secondo Bandura (1996), attraverso meccanismi di disimpegno morale.
Per Bandura i meccanismi di difesa attivi nella devianza e nella criminalità sono:
- Giustificazione morale
- Etichettamento eufemistico
- Confronto vantaggioso
- Dislocamento della responsabilità
- Diffusione della responsabilità
- Non considerazione e distorsione delle conseguenze
- Attribuzione di colpa
- Deumanizzazione della vittima
Dall’analisi delle interviste rilasciate da Pipino negli ultimi anni, emerge soprattutto l’utilizzo di due di questi meccanismi di difesa:
- La giustificazione morale. Egli è certo di aver fatto la cosa giusta, di averla fatta in maniera etica, in nome di un ideale e di un valore superiore: contro i ricchi per il bene dei poveri. ‘… La soddisfazione era che non rubavi affatto ai proprietari delle carte di credito, ma alle banche (..). Un conto è rubare per quella mania di possesso del denaro, che fa schifo, il denaro è del diavolo, ma l’ho fatto per una sorta anche di sfida tra me e l’impossibile (…) Io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto ma molto più di me, i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. La mia etica: di non far dannare le persone. Rubare ma onestamente‘.
- La non considerazione o distorsione delle conseguenze. Pipino dice esplicitamente che rubare ai ricchi ‘non è un peccato’ e non viene frenato nemmeno dalla possibilità di tornare in carcere per l’ennesima volta: ‘… quando mi arrestavano, ero tranquillo, pacifico, beato, avevo già preso questa consapevolezza‘. Il carcere per Pipino è infatti un ambiente nel quale si trova a proprio agio, circondato da persone che condividono storie di vita simili alla sua e che cerca sempre di aiutare: ‘… sono sempre stato un leader nelle carceri, mi chiamano ‘il sindacalista delle carceri’’.
Classificazione dell’evento-reato
La teoria dell’azione deviante di De Leo e Patrizi (1999) spiega, partendo da un’ottica costruttivista, non solo i processi personali ed interattivi che portano un soggetto a diventare un delinquente, ma anche gli aspetti specificamente comunicativi del gesto criminale. Questa teoria evidenzia come l’atto criminale sia uno strumento per il reo per amplificare i propri messaggi verso gli altri e per ottenere vantaggi simbolici che lo coinvolgono circolarmente all’interno della sua rete sociale di riferimento.
Su questo filone uno di noi ha proposto una classificazione dell’agire delinquenziale in adolescenza basata sulla motivazione prevalente (Schneider, 2018). Ne emergono quattro principali categorie:
- Il reato come ‘sintomo’. Questa tipologia riguarda ragazzi ‘sofferenti’, che attraverso il reato esprimono un disagio emotivo e/o relazionale: in questi casi il reato è l’equivalente di un sintomo psicologico ed è leggibile come una richiesta di aiuto. De Leo a tal proposito diceva ‘… se vuoi che qualcuno si faccia carico della tua situazione, commetti reati‘ (citato in Biscione, Pingitore, 2015).
- Il reato come ‘scelta di vita’. Questa tipologia di ragazzi commette reati per una sorta di scelta di vita deviante. Questi giovani, mettendo in atto comportamenti delinquenziali, non esprimono infatti primariamente un disagio quanto piuttosto confermano un’appartenenza a gruppi devianti accogliendo e facendo propri valori criminali. Sebbene in molti casi può essere presente un evento critico generatore di sofferenza psichica, ciò non è sempre detto: l’appartenenza a contesti devianti può infatti per molti di essi rappresentare la principale fonte di identificazione e la principale motivazione a delinquere. Questi ragazzi non manifestano un bisogno di aiuto seppur nascosto ma nemmeno una sofferenza riconoscibile e socializzabile; per essi al massimo è possibile dire che il reato rappresenta un sintomo ego sintonico.
- Il reato come ‘necessità’. Alcuni ragazzi possono vivere situazioni di grave disagio socio-economico e non avere una rete sociale che possa sostenerli in un percorso di legalità e proteggerli. Molti di questi giovani, spesso stranieri ‘non accompagnati’ (ovvero senza adulti di riferimento nel nostro paese) finiscono per delinquere per bisogno e/o per costrizione (ad esempio quando, spesso loro malgrado, sono arruolati sotto minaccia dalla criminalità organizzata, magari legata al loro paese d’origine).
- Il reato come ‘fatalità’. Vi è poi una tipologia di giovani che si trova ad incappare in un’azione deviante quasi per caso, ovvero senza riuscire a soddisfare nessuno dei precedenti criteri in modo significativo.
Il caso di Pipino rientra nella seconda tipologia, ovvero della scelta deviante come scelta di vita, nonostante l’iniziale motivazione sia legata ad una sofferenza: la storia del comportamento criminale di Vincenzo, infatti, nasce da una condizione favorente la criminalità (svantaggio socio-economico) ma anche da una significazione degli eventi di tipo culturale nella quale la contrapposizione tra ricchi e poveri diviene contenitore di azioni devianti, a più livelli logici giustificate o quanto meno rese plausibili.
In questo contesto Pipino si identifica in brevissimo tempo nel suo ruolo/status di criminale, non prova rimorso per i furti commessi che anzi giustifica in modo coerente secondo la propria morale ‘… rubare ai ricchi-ricchi non è peccato, perché chiunque sia ricco è stato a sua volta un ladro’.
Come detto, il contesto ha poi il suo peso. Rispetto alla famiglia di Pipino, essa dalle informazioni in nostro possesso sembra aver avuto reazioni confermanti i suoi crimini. Utilizzando la classificazione delle possibili reazioni di una famiglia al reato di un minorenne, classificazione che è parte di un modello interpretativo della criminalità giovanile più ampio, proposto da uno di noi (Schneider, 2018), la famiglia di Vincenzo rientra nel sottotipo ‘tollerante/istigante la commissione del reato’, ovvero tipo 2 – di ‘conferma’ (dell’identità e dei gesti devianti), sottotipo 4 – ‘manipolativo’. Secondo il modello di Schneider infatti le famiglie possono reagire ad un reato commesso da un minorenne in due modi: con ‘vergogna’ o con ‘conferma’. Nel primo caso vi è disagio da parte della famiglia, la quale (sottotipo 1) può reagire in modo ‘collaborativo’ oppure (sottotipo 2) in modo ‘ambivalente’. Nel secondo caso la famiglia non prova disagio per il reato del figlio, e ciò perché (sottotipo 3) condivide esplicitamente valori devianti o perché (sottotipo 4) accetta il reato, collude con esso e a volte lo istiga per interessi interni (conflitti, lotte di potere, ecc..).
Dal racconto di Pipino emerge l’immagine di una famiglia unita, con genitori affettivi e supportivi che però appaiono in conflitto con la società e nello specifico essi stessi per primi con ‘i ricchi’. Verosimilmente per tale conflitto con la società i genitori sostengono Pipino e ne coprono diversi comportamenti, al limite della collusione. In particolare la madre attua tale comportamento fin dall’infanzia del figlio. In un docufilm del 2019, lo stesso Pipino dirà raccontando di una lettera a lei indirizzata: ‘… mamma, quanto mi hai difeso. Per te io ero sempre innocente, nonostante avessero prove certe della mia responsabilità. Da bambino dicevi sempre che io ero innocente e mi coprivi anche, facevi un po’ da complice, e che lotte che facevi, guai a chi mi toccava‘.
Su questa linea, che si rifà all’ottica sistemico-relazionale che legge i comportamenti del singolo in relazione ai rapporti affettivi che egli intrattiene con il proprio contesto di riferimento, riteniamo ipotizzabile che Vincenzo Pipino fin dall’infanzia abbia agito ‘per conto’ dei genitori o più in generale del suo ambiente di provenienza portando avanti il desiderio di una redistribuzione della ricchezza dai più ricchi ai poveri, ricercando dunque in questo una forma, sebbene inappropriata, di giustizia sociale. Pipino pare essersi così profondamente identificato in quei valori da arrivare a farne una scelta di vita.