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Da “The Social Dilemma” alla Consapevolezza

The social dilemma mostra le forme di manipolazione mediate dai social network. La consapevolezza può essere il primo passo per ridurre i rischi dei social

Di Benedetto Tangocci

Pubblicato il 23 Dic. 2020

Le testimonianze riportate nel documentario The Social Dilemma mostrano chiaramente i limiti dei social network e i rischi legati al loro uso, ma sembra che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi protegga dal subirne gli effetti.

 

To become different from what we are,
we must have some awareness of what we are. (Eric Hoffer)

Nell’odierna società informatica siamo sopraffatti da un’enorme mole di notizie, informazioni e contenuti digitali. In un tale contesto mantenere l’autonomia di giudizio può essere più complesso di quanto sembri. Non solo nei casi in cui siano ipotizzabili deliberati tentativi di manipolazioni dell’opinione pubblica (Tangocci, 2020), ma perfino in occasione del quotidiano uso dei cosiddetti “social media”, o “social network”. Il presente articolo intende esplorare, in una prima parte basata sul documentario The social Dilemma, le influenze che tali piattaforme hanno sui loro membri e, in una seconda parte, proporre la peculiare accezione di “consapevolezza”, che verrà delineata nel corso del testo, come antidoto a tali condizionamenti.

The Social Dilemma

The social Dilemma è il titolo di un recente film documentario (Orlowski, 2020) basato sulle dichiarazioni di esponenti di primo piano del mondo dei social media, come l’ethical designer Tristan Harris e Aza Raskin, fondatori del Center for Humane Technology e ex collaboratori, rispettivamente, Harris di Google e Raskin di Mozilla; Justin Rosenstein ideatore del pulsante “mi piace” di Facebook; l’ex presidente di Pinterest Tim Kendall; e esperti come Shoshana Zuboff, professoressa di psicologia sociale alla Harvard University, o la psichiatra Anna Lembke, specialista in dipendenze alla Stanford University. Le testimonianze riportate delineano un panorama che può sinteticamente essere riassunto nei seguenti punti:

  • Mentre nei primi decenni di vita le aziende dell’high tech vendevano i loro software agli utenti, da alcuni anni i giganti della Silicon Valley vendono l’attenzione dei loro utenti agli inserzionisti, che sono pertanto diventati i veri clienti di aziende come Facebook, Google, Twitter, o simili. Pertanto, poiché ad essere oggetto di vendita, e quindi fonte di guadagno, è il tempo trascorso dagli utenti sulle piattaforme, ogni azienda è in competizione per aumentarlo il più possibile, anche a costo del benessere dell’utilizzatore del servizio, non protetto da normative a riguardo.
  • Rispetto alla tradizionale vendita dell’attenzione dello spettatore all’inserzionista, tipica dei media convenzionali, le piattaforme social consentono la vendita di un’attenzione selezionata. Infatti tali aziende, oltre che dell’attenzione dell’utente, dispongono anche di enormi quantità di dati su di lui (i cosiddetti big data: preferenze, amicizie, opinioni, stati emotivi, tempo dedicato a ogni immagine, post, argomento, ecc…), utili a generare automaticamente degli accurati modelli predittivi su quale stimolo riceverà il suo interesse. La credenza che le aziende vendano i nostri dati non corrisponderebbe quindi a realtà, poiché è interesse delle aziende tenersi stretti i dati raccolti e utilizzarli per generare una profilazione dell’utente migliore di quella disponibile alla concorrenza, così da ottenere modelli predittivi più affidabili.
  • Il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2019) offre all’utente dei servizi apparentemente gratuiti, visto che non è richiesto un pagamento in denaro, giacché il profitto per l’azienda deriva dal monitoraggio dei dati dell’utilizzatore, spesso di ciò inconsapevole. Infatti ogni singola attività online viene osservata, tracciata, misurata, monitorata e registrata. Incrociando elementi apparentemente innocui come l’orario di apertura di un sito, il tempo di osservazione di una foto, la permanenza sul profilo di una persona, per non parlare dei nostri stessi post e dei commenti a quelli altrui, è possibile tracciare profili ben più dettagliati di quanto sia mai stato storicamente possibile.
  • Disporre per ogni singolo utente di modelli predittivi altamente affidabili consente di mostrargli contenuti personalizzati, ad esempio, per ottimizzare la ricezione di un messaggio pubblicitario. Tuttavia la personalizzazione non si limita alla scelta di quali inserzioni mostrare, ma concerne l’intera selezione dell’esperienza social dell’utente, quali contenuti mostrare per primi o con maggiore frequenza, quali rendere invece difficilmente accessibili. In tal modo il meccanismo è in grado di alterare la percezione delle “realtà” dell’utente, permettendo, ad esempio, di rafforzare divergenze preesistenti tra opposte fazioni, ma anche di crearne di nuove. Un drammatico esempio è offerto dalle persecuzioni verso la minoranza Rohingya in Myanmar a seguito di notizie false postate su Facebook dai militari del regime birmano (Whitten-Woodring et al., 2020).
  • In luoghi come lo Stanford Persuasive Technology Lab (captology.stanford.edu), intere generazioni di tecnici sono formate a sfruttare le vulnerabilità della mente umana per sviluppare aspetti informatici, come specifici design, in grado di modificare il comportamento delle persone. Ad esempio, sfruttando tecniche di condizionamento tramite rinforzo intermittente, lo stesso principio sul quale si basa la dipendenza da slot machine. Esiste una disciplina, chiamata growth hacking, che si occupa di strategie per far crescere un’azienda, un sito, una piattaforma, aumentandone le iscrizioni, il coinvolgimento, la condivisione. Tra i suoi metodi più tipici vi sono i cosiddetti test A/B scientifici, ovvero dei test di preferenza eseguiti mostrando opzioni diverse a due gruppi di utenti e osservandone la reazione. Col sommarsi di miriadi di piccoli esperimenti è possibile sviluppare il modo ottimale per far fare ai soggetti quanto desiderato. Nel documentario, Shoshana Zuboff afferma che da simili esperimenti aziende come Facebook o Google hanno concluso di poter influenzare i comportamenti e le emozioni nel mondo reale senza mai allertare la consapevolezza degli utenti.
  • Queste piattaforme non sono strumenti, poiché uno strumento semplicemente attende di essere utilizzato, mentre in questo caso sono in campo sofisticatissime strategie per sviluppare dipendenza e indurre alle reazioni desiderate. Degli algoritmi calcolano cosa mostrare all’utente al fine di ottimizzare i tre principali obiettivi aziendali: massimizzare il coinvolgimento per aumentare la permanenza sulla piattaforma, coinvolgere più persone possibili, aumentare la vendita di pubblicità. Si tratta di programmi di intelligenza artificiale basati su apprendimento automatico che diventano sempre più abili nel raggiungere tali obiettivi. Sono in corso ampi dibattiti su quando l’IA diverrà più intelligente dell’uomo e, sostituendolo al lavoro controllerà il mondo; sfugge tuttavia che c’è un momento che arriva prima, quello in cui la tecnologia supera e sconfigge le debolezze umane, quel momento è già arrivato, l’intelligenza artificiale sta sta già controllando il mondo oggi. Perfino gli intervistati riportano che, pur conoscendo tali meccanismi, non sono stati capaci di sottrarvisi, poiché esattamente come delle droghe i social stimolano il rilascio della dopamina nel circuito di gratificazione.
  • Il sistema è talmente potente da giungere a intaccare lo stesso senso di identità e di autostima. Per i membri della nostra specie, in quanto animali sociali, è importante l’opinione degli altri, pertanto ci siamo evoluti per preoccuparcene, ma non siamo preparati a preoccuparci dell’opinione di migliaia di persone, né ad assumere una dose di approvazione sociale ogni pochi minuti, tramite “mi piace”, cuoricini o altro. Tali gratificazioni lasciano presto con un senso di vuoto che induce alla dipendenza, e favorisce depressioni, ansie e insicurezze. Esiste perfino una cosiddetta “dismorfia da Snapchat” che induce chi ne è affetto a richiedere operazioni di chirurgia estetica per assomigliare all’immagine di sé alterata dai filtri dei social media.
  • Inoltre, secondo uno studio del MIT (Vosoughi et al., 2018), le notizie false si diffondono più velocemente di quelle vere, aspetto che le renderebbe preferibili ai suddetti algoritmi volti a ottimizzare la visualizzazioni. Ma la questione non può essere meramente commerciale poiché abbiamo visto che tali visualizzazioni sono in grado di modificare la realtà sociale. Per questo il problema riguarda tutti, non solo chi utilizza i social media. Come già visto in Myanmar il sistema può essere impiegato da persone senza scrupoli per innescare i cambiamenti desiderati. Le stesse democrazie sono a rischio di svilirsi in dittature digitali non riconosciute come tali, ed è ingenuo pensare che degli organismi di controllo possano arginare tale rischio, poiché non si capisce cosa, e come, potrebbe essere in grado di preservare da analoga contaminazione i membri degli stessi organismi di controllo.Nelle parole di Tristan Harris

    Questa è l’ultima generazione di persone che sanno com’era prima che si verificasse questa illusione. Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di starci dentro?

Cos’è la consapevolezza?

“Consapevolezza” è tra quei termini di uso comune, e pertanto apparentemente ben conosciuti, che si mostrano ricchi di accezioni di significato ben diverse tra loro non appena si tenta di definire il concetto con la precisione necessaria a una sua disamina. Lo stimato linguista Giacomo Devoto (1968) ci riporta che “consapevole”, da cui “consapevolezza”, deriva dall’unione del prefisso “con-”, con valore rafforzativo (diversamente da chi gli attribuisce valore di compagnia), “sapere” e il suffisso “-evole”, con valore attivo, ottenendo dunque la “qualità di colui che consà”, ovvero che “sa in modo rafforzato”, più profondo. Anche così definito tuttavia il termine si sovrappone in parte a alcuni dei significati propri del termine “coscienza” e i confini sono spesso lasciati alla sensibilità dei singoli autori.

Sul termine “coscienza” ho approfondito nella seconda parte di un mio articolo (Tangocci, 2019) i diversi significati che può assumere in psicologia. Un’analoga classificazione dei significati riferibili a “consapevolezza” sarebbe tuttavia complicata, sia dalla sovrapposizione in italiano con alcune delle accezioni di “coscienza” riportate nel suddetto articolo, sia dalla non diretta corrispondenza di “consapevolezza” e “coscienza” con  “consciousness” e “awareness”, confusione aggravata dal termine “mindfulness”, talvolta anche esso tradotto con “consapevolezza” senza riferirsi adeguatamente alle sfumature di significato derivabili dall’omonima tecnica. Inoltre non mi risulta che in psicologia esistano rigorose definizioni del concetto, talvolta utilizzato per indicare la consapevolezza percettiva, o la consapevolezza di una specifica situazione, talaltra mutuato tout court, e con tutte le ambivalenze del caso, da tradizioni esoteriche, filosofiche o religiose.

Un panorama quindi complesso, che non mi è qui possibile dipanare oltre. Nondimeno ritengo che questa rapida esplorazione sia stata necessaria a chiarire che il termine può evocare significati tra loro molto diversi, e distinguerli dalla specifica accezione di consapevolezza che attribuirò al termine nel proseguo del testo: la consapevolezza di non essere abitualmente presenti alle dinamiche in atto tra noi e gli altri, e in tal modo di essere facilmente condizionabili da eventuali tentativi di manipolazione, ivi compresi quelli dei social media.

La consapevolezza di non essere consapevoli

Come è noto, Socrate affermava di non sapere, e grazie a ciò l’Oracolo di Delfi lo proclamò il più saggio di tutti gli uomini. Similmente intendo delineare il concetto di “essere consapevoli di non essere consapevoli”, centrale in alcuni percorsi di lavoro su di sé, tra cui in special modo quello proposto dal mistico greco-armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Nella psicologia, concetti affini, sebbene per lo più espressi con termini diversi, sono riscontrabili soprattutto nel lavoro di Carl Gustav Jung, o in quello di Roberto Assagioli e, più recentemente, nelle opere di Ken Wilber. Non sono invece a conoscenza di alcun interesse scientifico alla definizione del costrutto e alla sua operazionalizzazione, né pertanto di studi a riguardo. Forse perché la moderna hybris non tollera l’ipotesi che in quanto homo sapiens sapiens potremmo non essere consapevoli, né ha pertanto interesse a un tale studio.

Nel lavoro di Gurdjieff invece, rendersi conto di non essere presenti a se stessi è la condicio sine qua non affinché chiunque possa lavorare per ottenere quello che lui chiama il “ricordo di sé”. Diversamente, chi mai si impegnerebbe in un lavoro lungo, faticoso e senza garanzie di successo, nella speranza di ottenere qualcosa che già ritiene di avere? Gurdjieff in distinti periodi della sua vita formula diversi percorsi, a suo stesso dire non suoi ma ripresi da insegnamenti tradizionali, così schematicamente riassumibili: l’osservazione di sé, l’esecuzione di specifiche danze, la lettura di libri appositamente scritti per suscitare determinate reazioni emotive. Questi metodi “esoterici” ci viene riferito fossero affiancati da insegnamenti esoterici che, in quanto tali, erano tramandati unicamente a determinati discepoli e non ci sono pertanto noti.

Ad ogni modo, ai fini di questo lavoro è di interesse il primo percorso, esposto nel diario della sua esperienza con Gurdjieff dal filosofo Pëtr Dem’janovič Ouspensky (1947), poiché presenta ipotesi psicologiche che, per quanto originali, hanno affinità sia con quelle di Jung che con riflessioni e ipotesi di altri autori. In estrema sintesi, l’uomo vivrebbe abitualmente in una sorta di sogno a occhi aperti, nel quale sarebbe guidato da automatismi dei quali non è consapevole, e avrebbe l’illusione di essere un tutt’uno, benché in realtà composto da più “io” che si alternano al controllo dei centri psichici (principalmente, il centro intellettuale, il centro emozionale e il centro fisico o motorio) che  per lo più lavorerebbero in modo improprio e disarmonico. Per prevenire l’angoscia derivante dalla consapevolezza di un’esistenza tanto misera, saremmo dotati di protezioni, da lui chiamate “respingenti” o “ammortizzatori”, che usualmente ci impedirebbero di vederci per come realmente siamo (se rimossi tutti insieme, secondo Gurdjieff, impazziremmo, motivo per cui è necessario un percorso di rimozione graduale).

L’esposizione del raffinato pensiero di Gurdjieff meriterebbe maggiore approfondimento, tuttavia, quantomeno a chi ha familiarità col pensiero di Jung, già questi pochi elementi possono suggerire delle analogie. Per Jung, gli antagonisti dell’io sono i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che elicitano risposte automatiche, sovente inconsapevoli e indesiderate; la nostra visione della realtà è filtrata dalla personale dimestichezza con ogni funzione psichica (pensiero, sentimento, intuizione, sensazione); e l’individuazione, ovvero il percorso che porta a diventare individui, passa dalla consapevole integrazione. Nelle sue parole:

La psicologia sa che si possono rendere innocue o perlomeno tenere in scacco certe pericolose forze inconsce, quando l’individuo riesca a renderle consce, cioè ad assimilarle mediante un processo di comprensione e a integrarle nella totalità della personalità. (Jung, 1945, p.52)

Mentre il concetto di “respingenti” trova una sua analogia nei “meccanismi di difesa”, trasversali a tutta la psicoanalisi. Ma per chi lo conosce il pensiero di Gurdjieff trova affinità anche in altri ambiti della psicologia, ogniqualvolta si occupa di azioni non consapevoli (Tangocci, 2019).

Conclusioni

Nei confronti delle moderne forme di manipolazione mediate dai social network, vista la deliberatamente induzione di dipendenza, ancor più che nel difendersi da ogni altra forma di manipolazione, il primo indispensabile passo è riconoscere l’esistenza del rischio e del non esserne immuni. Le testimonianze, riportate nel documentario The Social Dilemma, affermano chiaramente che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi, al punto di averli personalmente progettati, protegge dal subirne gli effetti. Come nei confronti di una sostanza d’abuso, un conto è sapere che fa male (quale fumatore non sa che fumare fa male?), un altro è comprendere che fa male, e pertanto evitare, smettere, o quantomeno limitare l’uso. Credere che quanto esposto sia un’esagerazione, o che comunque non riguardi noi, ma solo altri più ingenui che si lasciano facilmente abbindolare da tali dinamiche, è la corsia preferenziale per diventare noi per primi facilmente manipolabili.

Ma questo non è che l’inizio del percorso, poiché diversamente da una sostanza di abuso che può essere più o meno facilmente evitata, la tecnologia oggigiorno è difficilmente evitabile, e spesso non lo sono neppure i social network, di cui alcuni abbisognano anche per uso professionale, oltre che per la gestione della vita sociale, che è tristemente sempre più spostata online. Tra i principali consigli che gli stessi operatori della Silicon Valley rispettano strettamente, come testimoniato anche dal documentario, c’è l’evitare che tali tecnologie siano accessibili ai bambini e limitarle agli adolescenti. Ma ciò non è certo possibile se gli adulti non prendono consapevolezza dei rischi e, per primi, riducono drasticamente il tempo trascorso su queste piattaforme. A tal fine è necessario che la permanenza stessa sia sempre attenta e critica, consapevole del desiderio di gratificazione e del conseguente rischio di modificare il proprio comportamento per ottenerla, e che, nei limiti del possibile, si sottoponga a verifica ogni contenuto, a prescindere da quanto la fonte sia o meno ritenuta affidabile e/o in linea con la propria visione del mondo.

Sull’importanza di sviluppare un pensiero autonomo, da qualunque fonte, vorrei concludere con le parole di Jung tratte dal suo saggio Commenti sulla storia contemporanea, nel quale esplora come sia stato possibile che

il popolo più industrioso, efficiente e intelligente d’Europa [sia caduto] in uno stato mentale delirante

ovvero nei crimini del Nazismo:

si resta talmente impressionati dalla forza di suggestione della retorica da megafono che si è inclini a ritenere di poter utilizzare anche per uno scopo buono questi mezzi cattivi, vale a dire l’ipnosi di massa mediante appelli ‘infuocati’, parole ‘energiche’, o sermoni capaci di toccare i cuori. […] devo tuttavia ribadire che la persuasione delle masse in vista di un fine che si considera un bene compromette il fine stesso, poiché in fondo non è altro che propaganda psicologica, la cui efficacia si affievolirà nuovamente alla prima occasione. Gli innumerevoli discorsi e articoli sul ‘rinnovamento’ sono inefficaci, si risolvono in un chiacchiericcio che non fa male a nessuno e che annoia tutti quanti. Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo. Il bene è un dono e un’acquisizione individuale; in quanto suggestione di massa è una mera ubriacatura che non ha mai avuto valore di virtù. Il bene può essere raggiunto solo dal singolo come sua prestazione individuale. Non c’è massa che possa farlo per lui. Il male invece richiede una massa per nascere e continuare a esistere. (Jung, 1945, pp. 52-53)

 

 

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