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I codici sociali irrompono nel lavoro clinico: gli isomorfismi variabili. Una possibile griglia per comparare i fenomeni sociali e individuali

La funzione sociale dello psicoterapeuta di D'Elia riflette sul ruolo del terapeuta oggi che nel sistema-paziente incontra un intreccio di voci indistinto

Di Luigi D`Elia

Pubblicato il 18 Dic. 2020

È uscito per Alpes l’interessante volume La funzione sociale dello psicoterapeuta di Luigi D’Elia. Pubblichiamo qui una presentazione che lo stesso D’Elia fa del suo libro, in cui introduce la sua riflessione sociale sul nostro mestiere. Sicuramente una lettura interessante per tutti noi.

 

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. (Antonio Gramsci)

Difficile, se non impossibile, demarcare con nettezza il confine che separa contesti e domini differenti nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta. Quando uno psicoterapeuta incontra il sistema-paziente, incontra sempre un intreccio di voci indistinto. Le distinzioni le facciamo noi, post hoc, per ragioni descrittive e operative. Probabilmente le distinzioni sono semplici prevalenze fenomenologiche legate al contesto osservativo e all’impronta teorica che evoca un aspetto parziale anziché un altro, un ventaglio di fenomeni all’interno di una matrice osservativa/operativa, anziché un altro.

I fenomeni nuovi entrano assai silenziosamente nei nostri presidi (ambulatoriali e istituzionali) ed occupano già tutto lo spazio, sono cioè già parte dell’aria che respiriamo. Dunque, accade che ciò che è visibile sotto gli occhi di tutti non sia osservabile, ma neanche raccontabile attraverso sintesi non banali e riduttive.

Dobbiamo perciò fare i conti con l’insufficienza dei modelli di comprensione dei saperi e dei paradigmi psicologici e medici nel comprendere la progressiva opacizzazione dell’uomo contemporaneo. Questo determina, come intuibile, l’automatismo di vecchie griglie di comprensione e di vecchie procedure che rischiano in tal modo, sovrapponendosi forzosamente a nuovi fenomeni sfuggenti, di diventare iatrogene ed intrinsecamente invalidanti o, se tutto va bene, inutili.

Ciò che manca nel lavoro dello psicoterapeuta è spesso una visione organica dell’incidenza dei codici socioculturali sul lavoro clinico e soprattutto un’idea ordinata di come lavorarci in terapia.

Se volessimo fare una rassegna esaustiva e puntiforme di come il funzionamento sociale ricade in ogni forma nella vita psichica individuale e quindi conseguentemente nel lavoro dello psicoterapeuta, sarebbe operazione talmente pervasiva che probabilmente ci perderemmo in meandri di particolari e rischieremmo forse di inciampare in facili riduzionismi psicologici o sociologici.

Tutte le fenomenologie psicopatologiche del presente: dall’ansia alla depressione, dai disturbi somatoformi a quelli alimentari, passando dai disturbi del sonno, della sfera sessuale, del comportamento dipendente, ludopatico, compulsivo, impulsivo, tossicofilico, per giungere a tutte le possibili variazioni e sfumature dei disturbi della personalità nella modernità, etc., prendono forma in un medium socioculturale. Non molti di noi viceversa si sono posti la domanda di come avviene il passaggio dal piano sociale a quello individuale. Una delle ragioni di fondo che è alla radice di questo mio lavoro è esattamente tentare di rispondere, almeno approssimativamente, a questa domanda.

Sono piuttosto distante dall’attuale tendenza a mescolare piani e domini nella direzione di un approccio cosiddetto ‘olistico’, ciò che viene fuori è il più delle volte un minestrone denso e dolciastro, epistemologicamente immangiabile, una melassa buona per tutte le stagioni dove nel nome di un approccio integrato o naturale, o in nome del pensiero di qualche grande maestro, si sovrappongono, o meglio ancora, si giustappongono, strati di conoscenza come se si parlasse un unico linguaggio, come se tutti i piani, poiché giustapposti, seguissero gli stessi codici, lo stesso lessico, le stesse regole sintattiche e grammaticali, le stesse logiche. Ed ecco assistere all’uso sempre più disinvolto di terminologie frutto di giustapposizioni di fisica quantistica, fitoterapia, antropologia, omeopatia, amore per la natura e l’ambiente, tradizioni spiritualistico-religiose, mitologia, e così via, in un minestrone indigesto, un millefoglie caotico privo di ogni fondamento epistemologico, o semplicemente privo di ogni ragionevolezza.

Quando parliamo dell’irruzione dei codici sociali nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta, dobbiamo fare lo sforzo di includere una posizione epistemologicamente paradossale secondo la quale tutti i domini fenomenologici (dall’intrapsichico al sociale, o se vogliamo usare la dicitura un po’ consunta, biopsicosociale) sono al tempo stesso uniti e separati. Uniti in quanto necessariamente connessi e concatenati e talora utilizzatori di medesimi codici sorgenti comuni. Separati in quanto ogni dominio si comporta in maniera autonoma e utilizza regole proprie e non comuni agli altri domini subordinati o sovraordinati.

Per esplorare, senza alcuna pretesa di esaustività (vista la vastità del tema), la dinamica che presiede l’irruzione dei codici sociali nella vita di ognuno di noi, nel nostro modo di pensare, agire, soffrire, e dunque nel lavoro dello psicoterapeuta di formazione sociale che incontra tale complessità nel proprio quotidiano lavoro a contatto con i propri pazienti, occorre perciò abbandonare il prima possibile l‘illusione che la complessità dei fenomeni psico-sociali possa funzionare per isomorfismi rigidi e perfettamente replicabili.

In altri termini, il rapporto tra fenomeni apparentemente simili o in connessione ma collocati su domini diversi non corrisponde necessariamente ad un replicarsi strutturale ed invariante di leggi e regole di un dominio su un altro, al ripetersi delle stesse logiche dei codici sociali nei meccanismi della psiche. Pensare in questi termini è operazione più che altro di ingenuo riduzionismo: si osservano delle analogie e delle correlazioni tra psiche e codici culturali prevalenti e si assimilano le leggi dei diversi piani attraverso una sorta di universalismo matematico. Niente di più semplicistico e inutile dell’applicazione concettuale di un isomorfismo rigido che appiattisca la variabilità dei fenomeni.

Per evitare di cadere in facili riduzionismi, quando affrontiamo il delicato tema di come trattiamo epistemologicamente i codici sociali in psicoterapia, occorre innanzitutto comprendere che domini differenti (dall’individuo alla società, dalla natura alla cultura, dal micro al macro) possono essere informati da medesimi codici, ma non necessariamente utilizzare lo stesso linguaggio, le stesse regole sintattiche e grammaticali e lo stesso lessico.

Occorre perciò dotarsi di uno strumento teorico più adeguato alla complessità dei fenomeni che andiamo osservando ed immaginare piuttosto a isomorfismi variabili che non rimandano a nessuna legge universale, ma a correlazioni qualitative tra fenomeni collocati su piani differenti. Possiamo dunque descrivere un isomorfismo che si sposta su un range da debole a intermedio o forte a seconda della regolarità dei propri meccanismi, ma anche a seconda della omogeneità dei linguaggi che traducono gli stessi codici sociali in comportamenti individuali.

Come avviene, dunque, che un dato aspetto che collochiamo sul dominio socioculturale intervenga fin dentro la struttura di una personalità o di un sistema nervoso orientandone in qualche misura il funzionamento, le scelte, le modalità?

In un mio articolo di alcuni anni fa che riguardava i cambiamenti dei cicli vitali nella contemporaneità (D’Elia. L. La scomparsa dell’età adulta, 2012, su psicologoaurelio.it), argomentavo che uno degli aspetti più eclatanti che testimoniano esattamente l’irruzione della sfera sociale nel dominio dell’individuo e del suo aspetto fisico, quindi del suo corpo, è il fenomeno della giovanilizzazione delle più recenti generazioni.

In altri termini, in pochissimi decenni la percezione dell’età anagrafica si è sensibilmente sottostimata per la maggior parte di noi contemporanei facendoci quasi tutti apparire più giovani di quanto in realtà non siamo e soprattutto di quanto apparivano le generazioni immediatamente precedenti alle nostre.

Basta prendere una foto di nostro nonno o nostra nonna di quando aveva 25-30 anni e una analoga foto nostra alla medesima età e confrontarla per aver l’esatta percezione di quanto le trasformazioni dei codici sociali incidano profondamente non solo nella rappresentazione di sé e del ciclo vitale, ma persino nel volto, nel corpo, nell’aspetto, di generazioni praticamente limitrofe. Solo 50-80 anni fa un 25enne era un uomo fatto o una donna fatta, nell’aspetto e nella posizione sociale. Un 25enne contemporaneo è un ragazzo ancora largamente incompiuto come persona, diremmo oggi appena uscito dalla piena fase adolescenziale. Nell’arco di pochi decenni l’aspetto della maggior parte delle persone di ogni età si è ringiovanito di almeno un decennio.

Utilizzo spesso questo esempio del confronto fotografico in quanto è uno dei più visibili e tangibili casi in cui un fenomeno sociale e culturale, ovverosia la rapidissima trasformazione del mondo negli ultimi decenni, penetra nella pelle e nella mente delle persone cambiandone di fatto aspetto e aspettative.

Di fronte alla correlazione così intima e palese tra codici sociali e psicologici, siamo obbligati a pensare in maniera più complessa e ad immaginare una circolarità oltre che una stratificazione dei fenomeni. In termini di concatenazioni un fenomeno appartiene all’altro e ne condivide, possiamo dire così, il paradigma. Ne condivide cioè i codici sorgenti (D’Elia, 2012, ibidem).

I fenomeni socioculturali e psichici secondo questa prospettiva sarebbero tra loro dunque concatenati, stratificati e circolari, l’uno condividerebbe il codice sorgente dell’altro seppure collocandosi su domini differenti e utilizzando linguaggi non sempre comparabili tra di loro. Ciò, come detto, non corrisponde ad un isomorfismo rigido dei meccanismi e delle leggi che governano i diversi domini, né tanto meno ad una causalità lineare, tipo causa-effetto, tra i fenomeni appartenenti a tali domini, quanto invece ad una continuità/affinità tra codici ad una loro reciproca correlazione le cui regole non sono universali, definite una volta per tutte, ma ogni volta particolari e diverse e definibili di volta in volta.

Vediamo dunque più da vicino questo range che caratterizza la variabilità dell’isomorfismo tra fenomeni psicosociali. Facciamo alcuni casi esemplificativi per svelare ulteriormente la natura della contaminazione e condivisione dei codici tra domini differenti.

Caso 1/A, Isomorfismo debole: moda-magrezza-anoressia

Se è certamente vero che la cultura e le consuetudini della moda incidono sull’immaginario di ciascuno di noi, su come un corpo accettabile debba essere esteticamente, dettando implicitamente ed esplicitamente i canoni e le coordinate di un certo gusto, di certe forme del corpo, nessuno potrebbe mai affermare che ciò sia la causa efficiente dell’anoressia di questa o quella persona. L’immaginario individuale si nutre di quello collettivo che a sua volta si nutre del materiale della moda, che a sua volta interpreta le tendenze sociali. Correlazioni, ma non causalità diretta. Tutti gli isomorfismi deboli, specie sul versante massmediatico, sono di questa natura.

Caso 1/B, Isomorfismo debole: Testi violenti di canzoni-comportamenti violenti

Esiste un nesso diretto tra testi violenti di canzoni popolari e azioni violente? Tale quesito, emerso in un recente dibattito circa i testi di un cantante rap con evidenti contenuti misogini, sessisti e violenti, è uno dei tanti esempi di influenza sociale dei mass media sui comportamenti reali delle persone. Questo tema è stato oggetto di numerosi studi della psicologia sociale e vede un certo riscontro, in molte ricerche, tra contenuti violenti (di un film, di un messaggio pubblicitario, di un videogioco, etc.) e atteggiamenti aggressivi, antisociali, o ideologicamente orientati alla violenza o semplicemente desensibilizzati ad essa, ma non troviamo l’unanimità degli esiti di altre ricerche simili che invece non dimostrano questa correlazione.

In casi come questo, nel quale l’uovo e la gallina si specchiano senza precedersi o causarsi, dovremmo abbandonare l’ingenuità per la quale i processi sociali di influenzamento seguano dinamiche lineari up-bottom, ma dobbiamo sforzarci di comprendere la circolarità dei fenomeni secondo cui nei mass media avviene più o meno ciò che sta avvenendo nella società e a volte alcune elaborazioni artistiche o pseudo-tali non sono altro che casse di risonanza di culture violente, altre volte possono diventare benzina sul fuoco di dinamiche francamente antisociali.

Anche qui, come in molti altri casi, assistiamo alla sovrapposizione e confusione tra correlato e causa. Il testo della canzone che fa risuonare la dinamica violenta ne diventa a sua volta causa oppure ne è mero correlato/specchio, magari anche con funzioni catartiche?

Pensiamo ad esempio al testo di una canzone del 1951 che tutti noi cantiamo sulle note soavi di una canzone di amore e di una musica dolce e che scambiamo tutti come canzone romantica. Sto parlando di Malafemmina (che in napoletano sta per, donna infida, puttana), scritta da Totò a seguito di una vicenda personale decisamente controversa e profondamente misogina, e che è spudoratamente, nella prima metà del testo, un invito al femminicidio o quanto meno l’accettazione di esso. Ebbene, siamo in grado di affermare che questa canzone abbia prodotto una cultura violenta e misogina? O si tratta piuttosto di un prodotto secondario di una cultura patriarcale violenta? O invece, ancora, si tratta a suo modo, e considerati i suoi tempi, di una canzone che tenta una conversione della violenza in pacificazione e dolcezza (anche musicalmente) e quindi svolge una funzione catartica?

Certamente non tutti i testi violenti sono catartici e ogni messaggio va contestualizzato, così come occorre tenere conto di come un messaggio viene ricevuto e decodificato e su quale situazione psicologica particolare e unica può agire. Ma in questo caso la correlazione tra messaggio violento di un testo di una canzone e comportamento reale rimane piuttosto debole, seppur presente.

Caso 2, Isomorfismo intermedio: società-liquida-individualista-crisi-della-coppia

Il rapporto tra trasformazioni sociali e cambiamenti delle relazioni amorose e della vita delle coppie è ben visibile semplicemente visionando le statistiche Istat degli ultimi 40 anni e i numeri crescenti di separazioni e divorzi, la diminuzione dei matrimoni e la diminuzione delle nascite. Tutte tendenze queste in stabile andamento, fatto questo che conferma trattarsi di cambiamenti strutturali a livello socioculturale. Le ragioni di questa vera e propria mutazione sono state egregiamente sviscerate nel noto saggio di Z. Bauman, Amore Liquido

Caso 3, Isomorfismo forte/A: società-consumistica-ludopatie-dipendenze

Questo è invece il caso di un sistema di regole e funzionamento che appare ancora più mimetico e quindi più invariante e forte rispetto ai domini differenti, sociale e individuale: l’attuale società/cultura consumistica si fonda sulla produzione e acquisto di oggetti di ogni tipo di rapida obsolescenza e continuo aggiornamento, lo stile di vita ad esso connesso struttura abitudini e rappresentazioni che sono piuttosto pervasive e richiedono la partecipazione attiva di ciascuno. Il consumismo è elemento identitario e determina criteri di inclusione ed esclusione sociale e quindi di adeguatezza personale e sociale. Se sei molto ricco vali molto, sei potente e puoi essere felice. Così recita il codice del consumismo. In questo caso l’isomorfismo appare particolarmente incisivo e penetrante dal momento che ci troviamo di fronte alla saldatura tra legalità di una pratica tossicomanica attraverso l’utilizzo di tecnologie e strategie di vendita del prodotto-ludopatico per il quale vengono implicitamente approvate e promosse la compulsività e la maniacalità, attraverso semplici meccanismi di rinforzo comportamentale (l’effetto ‘slot machine’, ovverosia i programmi di rinforzo comportamentale a rapporto variabile, sono stati ampiamente studiati in ambito comportamentista) e di risposte neuropsicologiche che attivano una vera e propria dipendenza. Tutto ciò sullo sfondo di una prospettiva/promessa di vincite milionarie che preludono a rivoluzionari cambiamenti di vita a partire da un improvviso arricchimento.

Caso 6, Isomorfismo forte/B: società-competitiva/precaria-neet-hikikomori

Il ritiro sociale nell’epoca dei social network e all’interno di una tecnosfera sempre più pervasivamente insolente e invadente, è uno dei fenomeni dilaganti della nostra contemporaneità.

Ogni epoca storica ha la sua narrazione e la sua cifra emotiva che la rende riconoscibile e che è l’esito di molte trasformazioni sociali. Negli anni ’60 e ’70, la società del benessere e dei consumi, della comunicazione di massa e della coltivazione televisiva, nata dall’ultimo dopoguerra, produsse il clima culturale ed emotivo della ribellione giovanile dall’oppressività, il mito della liberazione e della ricerca di sé e del mondo. Questa ‘romantica’ estroversa caratterizzò intere generazioni che ben presto, però, abbandonarono di lì a pochissimi anni questa narrazione per rientrare nei ranghi, come se nulla fosse successo.

La cifra emotiva dei nostri giorni inclusa nelle prevalenti narrazioni a carico delle ultime generazioni ha un sapore molto diverso ed è quella descritta dal profetico libro L’epoca della passioni tristi di Benasayag e Schmit del 2004, nel quale gli autori riescono in maniera lucida a comprendere lo stretto nesso realizzatosi tra le trasformazioni sociali e le nuove forme del disagio giovanile e infantile caratterizzato da un tono particolarmente pessimistico e passivo-rinunciatario.

Dopo alcuni anni da quel libro, tutto sembra essersi sviluppato esattamente in quella direzione, con l’aggiunta che le rapidissime trasformazioni tecnologiche e sociali hanno potuto fornire a questa enorme tentazione verso l’auto-esclusione dal mondo un supporto, una sorta di arredo completo per potersi sentire apparentemente comodi anche in una cella.

Veniamo dunque alle strane parole: NEET e Hikikomori.

  • NEET è un acronimo che proviene dal mondo della statistica e della demografia sociale e significa Not (engaged) in Education, Employment or Training, cioè ragazzi dai 16 ai 35 anni che non studiano, non lavorano e non sembrano granché interessati a fare nulla. In Italia si stima che circa un terzo dei giovani lo siano. (Per un approfondimento: D’Elia L. L’esistenza ferma: l’inaccessibilità all’autonomia dei venti-trentenni “neet” In Psychiatry online 20 settembre 2013).
  • Hikikomori (termine giapponese che significa ‘stare in disparte’) è un disagio psicologico-sociale rilevato in Giappone alcuni anni fa dove ha una grande diffusione tra i giovani (si stima circa 500.000) e che si sta rapidamente diffondendo anche in occidente e, non a caso, particolarmente in Italia dove si stima siano già circa 100.000. Si tratta in sostanza di un’autoreclusione volontaria e prolungata, una sorta di seppellimento nella propria stanza dalla quale non si esce più. (Sul sito di hikikomori Italia possiamo trovare ulteriori informazioni)

I due fenomeni, pur essendo estremamente differenti in qualità e quantità, hanno in comune lo stesso movimento: il ritiro dalla scena (sociale), e probabilmente l’uno appare come il serbatoio dell’altro.

Questi ragazzi sembrano dire: se non posso combattere – cambiare le regole, ribellarmi, competere, difendermi – o fuggire altrove (perché non c’è un altrove), perché il mondo mi chiede troppo o è una fonte costante di frustrazioni, riduco drasticamente la mia presenza nel mondo, utilizzo il mimetismo come forma di fuga passiva, diminuisco radicalmente le tracce che lascio intorno a me e mi rendo evanescente, mi rifugio nella mia confort zone, che nel caso dei NEET è la famiglia come unica fonte di sostentamento, nel caso degli Hikikomori è la cripta della mia stanza dalla quale continuo a interagire col mondo in forma incorporea e virtuale.

La narrazione e la cifra emotiva ad essa connessa parlano di un’impossibilità di esprimere alcuna forma di protesta in quanto ogni possibile dissenso è disinnescato alla fonte dal momento che non esiste più alcuna società manifestatamente oppressiva, non esiste più un mondo adulto persecutorio dal quale distinguersi ed emanciparsi, no, esiste solo l’immane fatica di catapultarsi in gruppalità anonime (scuola, lavoro) vissute come estranee, frustranti ed ostili.

NEET e Hikikomori ci raccontano una storia sulla nostra contemporaneità per la quale essere rinunciatari non è una scelta, ma una condizione di questo presente. Rappresentano un fenomeno fortemente sovraindividuale in quanto particolarmente mimetico del clima sociale legato all’attuale tecnosfera ed infosfera, e seppure si presenti in forme di disagio individualizzato, vede l’emersione in realtà sociopolitiche (Giappone e Italia) particolarmente esposte a specifiche vulnerabilità antropologiche (struttura protettiva della famiglia).

In questi pochi, ma paradigmatici, esempi, una breve carrellata relativa alla correlazione variabile tra alcuni macrofenomeni sociali: mito della magrezza, testi violenti, società liquida, consumismo, competitività, con alcune clamorose manifestazioni psicopatologiche: anoressia, violenza di genere e omofobica, coppia disfunzionale, ludopatia, ritiro sociale giovanile.

Abbiamo esaminato come queste coppie di fenomeni pur avendo ciascuna i medesimi codici culturali di origine possano essere decritti secondo isomorfismi variabili in funzione, cioè, della loro variabile omologazione linguistica e semantica, a seconda cioè delle differenti regole linguistiche con le quali si manifestano individualmente rispetto a come si manifestano socialmente.

Abbiamo quindi descritto per ogni coppia di fenomeno una progressione di tale isomorfismo, da debole a forte, a seconda della maggiore sovrapposizione del codice sociale con quello psicopatologico.

Mentre la correlazione tra fenomeni quali l’anoressia e il mito della magrezza o tra violenza razzista e di genere e testi violenti ci è sembrata di tipo circolare e non diretta, la correlazione tra semiotica consumista e ludopatia o tra società competitiva e ritiro sociale giovanile, ci è sembrata viceversa diretta e quindi sia sintatticamente che semanticamente più coerente e omologa.

Questa prospettiva, qui introdotta, relativa alla variabilità degli isomorfismi tra patologie sociali e individuali, può diventare (vedremo più avanti) griglia osservativa clinica per uno psicoterapeuta che diventa in grado in tal modo di riconoscere e valutare coordinate e caratteristiche di alcuni fenomeni clinici, ricollocandoli nella corretta prospettiva interpretativa. Si tratta, come già detto e approfondirò più avanti, di ‘allargare lo sguardo per centrare il bersaglio’, di revisionare la cornice ermeneutica dei fenomeni per poterli finalmente leggere nella loro reale matrice culturale.

Con il prossimo capitolo esamineremo più da vicino attraverso alcune vignette cliniche esemplificative come pensa clinicamente, operativamente, uno psicoterapeuta con formazione sociale.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Articolo tratto da La funzione sociale dello psicoterapeuta Alpes Italia Editore. Paragrafo 1.5.
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