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Meme: analisi psicologica della nuova forma di comunicazione

Il meme tramite la combinazione di un'immagine e di una didascalia, apparentemente incongrue, articola sentimenti e reazioni relativi al quotidiano.

Di Giulia Goldin

Pubblicato il 23 Nov. 2020

Quante volte ci capita di condividere sui social o su chat private immagini che rispecchiano a pieno un nostro sentimento, una circostanza vissuta con qualcuno o un’esperienza comune di vita quotidiana?

 

Questa forma di comunicazione e condivisione, che da anni ormai circola in Internet, prende il nome di “meme” ed è l’emblema della cultura partecipativa in cui viviamo, dove, tramite i mezzi tecnologici di cui disponiamo, non vi è più distinzione tra chi produce e chi consuma. Innumerevoli individui creano, diffondono e trasformano memi su reti amatoriali di partecipazione culturale mediata (Milner, 2012).

Il meme, dunque, è un artefatto della cultura pop, che tramite la combinazione di un’immagine e di una didascalia apparentemente incongrue articola sentimenti e reazioni relativi a momenti di vita quotidiana. È, quindi, una forma di narrazione altamente visiva che richiede una certa alfabetizzazione digitale e che mobilita sentimenti di appartenenza e processi identitari.

Il concetto di meme si è evoluto nel tempo e adattato allo sviluppo dei mezzi di informazione, incorporando nel corso della sua ontogenesi una serie di caratteristiche distintive senza le quali non potrebbe essere tale.

Evoluzione del concetto di meme: dalla biologia alla comunicazione digitale

Il termine meme è stato coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins che, abbracciando un approccio darwiniano, lo utilizza per riferirsi a una “unità di trasmissione culturale”, un artefatto che, come il gene, si propaga di generazione in generazione tramite l’imitazione. L’autore fa l’esempio di “melodie, idee, slogan, modi di vestirsi, modi di fare vasi o di costruire archi”. Per Dawkins, l’evoluzione culturale ha superato quella biologica come determinante del comportamento umano. Il meme si basa sulla nozione di replicabilità e, secondo il biologo, deve essere dotato di tre proprietà per avere successo: longevità, fecondità e stabilità.

Successivamente, grazie al contributo di diversi autori, si sono sviluppate diverse direzioni ontologiche del concetto, passando da una prospettiva biologica a una epidemiologica (Castaño Díaz, 2013). Il cognitivista Dan Sperber (1996), intendendo il meme come un replicatore culturale, sposta l’attenzione sulla natura rappresentativa dello stesso e ne analizza il processo di propagazione, che può essere verticale (su generazioni, come i geni) e/od orizzontale (tra i membri di una certa popolazione, come i virus). La psicologa Susan Blackmore (1999), sostenendo il ruolo centrale dell’imitazione per la replicazione del meme, aggiunge che esso non è autonomo ma richiede un soggetto per riprodursi. Infine, Daniel Dennet (1995) contribuisce all’evoluzione del concetto sottolineandone la possibilità di variazione, contrapposta alla stabilità sostenuta da Dawkins (1976). I contributi di questi autori hanno permesso il passaggio da una prospettiva di riproduzione genetica (meme-gene) a una modalità di riproduzione virale (meme-virus) che prevede la presenza di un ospite per replicarsi.

Infine, come conseguenza del diffondersi del digitale e dalla constatazione delle caratteristiche di replicabilità, interattività e portata dei nuovi media delineati da Nancy Baym (2010), nasce il concetto di “Internet meme”. Esso è una unità di informazione (idea, concetto o convinzione) che si replica via Internet sotto forma di immagine, video o frase e che può mutare ed evolversi. Tale mutazione può avvenire per significato, per struttura o per forma.

Costrutti e teorie psicologiche relate al meme

Come anticipato, il meme nella cultura digitale è un artefatto che, combinando un elemento visivo con una descrizione, ironizza sulla quotidianità. Chi produce un meme non intende creare qualcosa di unico o dar vita a una “creazione spettacolare” quanto più a raggiungere il maggior numero di persone possibile tramite il senso di appartenenza e la condivisione di affinità affettive e la sua comprensione richiede la mobilitazione di una serie di conoscenze classificatorie (Kanai, 2016).

Una delle teorie psicologiche riscontrabili specialmente nelle fasi di produzione e comprensione di un meme è indubbiamente la teoria dell’insight di Köhler (1917). Con insight (o intuizione) lo psicologo gestaltista intende, in un contesto di apprendimento, un processo attivo di valutazione delle risorse a disposizione e di utilizzo creativo di esse, al di là della loro funzione originaria. Esso permette una ristrutturazione dei dati a disposizione che consente di cogliere nessi non percepiti prima. In effetti, un meme assume senso e significato solo se immagine e didascalia, apparentemente non correlate, vengono abbinate e l’allineamento concettuale dei due elementi consente di cogliere qualcosa di nuovo socialmente applicabile (Kanai, 2016).

Il costrutto psicologico che sicuramente emerge da questa trattazione è quello di identità, in particolare quella sociale, e i concetti di appartenenza e classificazione ad essa associati. Tajfel e Turner (1979) con identità sociale si riferiscono a quella parte dell’immagine di sé che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale, unita alle componenti valutative ed emotive legate a tale appartenenza. L’identità sociale si costruisce per mezzo di tre processi funzionalmente collegati: la categorizzazione, l’identificazione e il confronto sociale. L’individuo ordina e semplifica la realtà facendo riferimento a un numero limitato di categorie di appartenenza di vario tipo, tendendo a massimizzare le somiglianze tra soggetti di una stessa categoria e le differenze tra categorie contrapposte. Successivamente, la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale è il senso di appartenenza a determinate categorie. Infine, l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup per mezzo di bias valutativi che lo portano a favorire il proprio gruppo e a svalutare gli altri (Fig. 1). Questi processi di definizione di un’identità sociale positiva rispondono al bisogno di autoaccrescimento e autostima.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti onlineFIGURA 1 – Meme tratto dalla pagina facebook “La Cricca degli Psicologi Folli”

Infine, spesso i memi associano una determinata situazione a una espressione facciale estrapolata da altri contesti (film, eventi pubblici, quadri ecc.; vedi Fig. 2). La comprensione del meme, in questo caso, è facilitata dall’universalità di determinate espressioni facciali. Ekman, esponente dell’approccio psicoevoluzionista, con la teoria neuro-culturale (1973) afferma l’esistenza di programmi neurofisiologici innati che danno luogo a emozioni primarie a cui corrispondono specifiche espressioni facciali, universalmente riconosciute.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti online

FIGURA 2 – Meme tratto dalla pagina facebook “Classical Art Memes”

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baym, N. (2010). Personal Connections in the Digital Age: Polity press.
  • Blackmore, S. (1999). The Meme Machine. United States: Oxford University Press.
  • Castaño Díaz, C. M. (2013). Defining and characterizing the concept of Internet Meme. CES Psicología, 6(2), 82-104.
  • Dawkins, R. (1976). The selfish gene New York: Oxford University Press. DawkinsThe Selfish Gene1976.
  • Dennet, D. (1995). Darwins Dangerous Idea. Great Britain: Allen Lane The Penguin Press.
  • Ekman, P. (1973). Cross-cultural studies of facial expression. Darwin and facial expression: A century of research in review, 169222(1).
  • Kanai, A. (2016). Sociality and classification: Reading gender, race, and class in a humorous meme. Social Media+ Society, 2(4), 2056305116672884.
  • Köhler, W. (1917). Intelligenzprüfungen an anthropoiden. 1.- (No. 1). Königl. akademie der wissenschaften.
  • Milner, R. M. (2012). The world made meme: Discourse and identity in participatory media (Doctoral dissertation, University of Kansas).
  • Sperber, D. (1996). Explaining Culture: A Naturalistic Approach. Oxford: Blackwell.
  • Tajfel, H., Turner, J. C., Austin, W. G., & Worchel, S. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. Organizational identity: A reader, 56, 65.
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