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Psicologo e psicoterapeuta: quali differenze? – Il progetto di presa in carico individualizzato

Lo psicologo clinico e il terapeuta sono professionisti che mirano al benessere dell'individuo. Ma qual è la differenza tra psicologo e psicoterapeuta?

Di Barbara La Russa

Pubblicato il 30 Nov. 2020

Aggiornato il 15 Lug. 2022 11:20

Qual è la differenza tra psicologo e psicoterapeuta? Purtroppo ancora oggi si fa molta confusione rispetto alle competenze specifiche dello psicologo e dello psicoterapeuta, e spesso da tale confusione non sono immuni gli stessi professionisti psicologi e psicoterapeuti, soprattutto se alle prime armi.

 

Talvolta andare a rivedere i confini tra l’attività psicologica e quella psicoterapeutica, non può che far bene, specie nell’ottica di andare a rinsaldare i criteri che fondano la validità di una teoria scientifica della cura.

In ambito legislativo la legge 56 del 18/02/1989, composta da 38 articoli, definisce l’identità professionale dello psicologo:

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

Mentre l’articolo 3, dice dell’attività psicoterapeutica:

1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica. 

2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.

3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

Sintentizzando i sopracitati articoli è possibile definire l’attività psicologica entro interventi abilitativi, riabilitativi e di sostegno psicologico, nonché diagnostici, ma non curativi, tale tipo di intervento rientra nelle competenze dello psicologo e psicoterapeuta o del medico psicoterapeuta. Lo psicologo può muoversi, pur con ampi spazi e con una specificità professionale, in ambito valutativo, abilitativo, riabilitativo e di sostegno, ma quando nella sua attività si trova di fronte ad “una malattia” (psicopatologia, o disturbo ecc – diagnosticata secondo i criteri dei manuali riconosciuti e validati scientificamente come ad esempio DSM e PDM) la competenza passa allo psicoterapeuta.

La psicoterapia deve essere considerata come “la risposta clinica esperta” ad una malattia. La psicoterapia è un’area di intervento con finalità di cura dove coesistono esclusivamente due figure sanitarie diverse: psicologo e medico con specifica preparazione. Ancora, la psicoterapia è un approccio scientifico alla cura della patologia, del disturbo e del disagio mentale.

L’obiettivo in qualsiasi fase del processo, prima diagnostico, dopo terapeutico deve essere sempre il raggiungimento di un maggior grado di benessere da parte del paziente. Pensare di lavorare senza delle “linee guida” appunto metodologiche, ma anche teoriche, senza aver ben chiara una prassi e delle procedure, senza padroneggiare e conoscere bene gli strumenti, compresi noi stessi, senza contestualizzare l’intervento, senza dunque un’analisi della domanda ben fatta, una buona raccolta anamnestica e senza l’aiuto di strumenti ad hoc, non può che condurci in una direzione ben lontana dall’aiuto della persona che abbiamo di fronte. Inoltre avere una cornice definita (dagli elementi sopracitati) non può che tutelarci come professionisti. Andare “a braccio” nel lavoro terapeutico, senza aver prima fatto un percorso diagnostico, senza aver stilato un progetto terapeutico e senza averlo condiviso, con il paziente (in linguaggio comprensibile), può essere molto pericoloso, sia perché ci allontana dalla deontologia della nostra professione, sia perché rischia di mettere in pericolo la salute della persona che in quel momento chiede di essere aiutata. Tutto ciò deve peraltro permetterci di non dimenticare l’importanza del nostro buon senso e della nostra persona, nella sua totalità, perché il tutto si inscrive all’interno di una relazione, che seppur protetta da regole e da un setting, nonché dall’asimmetria dei ruoli, deve fare i conti con le emozioni che entrano in gioco e con la “chimica” delle personalità. Facile a dirsi, molto complicato nella pratica, ma di fatto un buon professionista sa, che per le ragioni sopracitate, sia di ordine professionale che personale e sia per un mix delle stesse, non può pensare di poter prendere in carico indistintamente tutte le persone che si presenteranno a lui/lei con una richiesta d’aiuto. Ecco perché è fondamentale una buona conoscenza di sé e dunque anche aver svolto un buon percorso di analisi personale nonché la possibilità di contare su una buona supervisione.

In sostanza, nel corso dei primi colloqui lo psicoterapeuta compie una serie di valutazioni, tanto sul paziente quanto su di sé: valutazioni diagnostiche (con implicazioni relative); valutazioni relative la possibilità di intraprendere un lavoro terapeutico con quel paziente; valutazioni, infine, legate alla stesura del progetto terapeutico (es: che obiettivi mi devo prefiggere di raggiungere? Quali sono le priorità? Quali i punti di forza? Quali i punti di debolezza ? Quali i rischi? ecc. Assumersi l’onere di tutte queste valutazioni preliminari significa già muoversi nell’ottica di un progetto terapeutico, seppur passibile di revisione in corso d’opera, (quando tali valutazioni vengano approfondite o modificate). Ciò che definisce il progetto terapeutico rientra grossomodo nelle aspettative del terapeuta rispetto la possibilità di aiutare quella persona e nel suo modo di realizzarle: con quali mezzi, attraverso quali fasi, entro quali limiti? ecc. Il progetto terapeutico è un atto di somma importanza nella prassi del terapeuta e nonostante ciò molto spesso se ne trascura il rilievo dal punto di vista sia teorico che clinico. Probabilmente questa è stata un’eredità lasciata dagli psicoanalisti più ortodossi che hanno in qualche modo fatto resistenza per lungo tempo rispetto al concetto, ma anche all’implicazione nella prassi clinica del progetto terapeutico. Ciò può anche non stupire, dato un certo modo d’intendere l’analisi classica, però stupisce il fatto che di “progetto” non si parli neppure in molti manuali di psicoterapia e non solo inerenti l’approccio dinamico.

La parola “progetto” fa pensare ad architetti e ingegneri: un mix di gusto e di tecnologia. In funzione di che? Qualcosa da costruire. Ora, nel campo psicoterapeutico, probabilmente non si tratta tanto di costruire “nuove strutture” per il paziente, così come fa l’architetto per il cliente, o per lo meno non solo, bensì di “decostruire” vecchie modalità ripetitive insieme con lui; affinché egli sia libero di riutilizzare le forze così ritrovate come meglio crede. Ogni ambizione diversa da questa, ogni tentazione di riprogettare la personalità del paziente secondo le preferenze del terapeuta resta da evitare.

Fra i contributi recenti sulla nozione di “progetto terapeutico” molto interessante è l’articolo di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti (2002) che, mutuando la nozione di visioning dalla psicologia dell’organizzazione, propongono l’idea di un “visioning clinico” come terreno sul quale soltanto può fiorire un progetto efficace. Nella sfera delle organizzazioni sociali, per es. un’azienda, il termine vision connota la “visione d’insieme” costituita (a) dalla mission e (b) dalla strategia da seguire per realizzarla; al contempo, col termine visioning s’intende il lavoro comune proteso (A) all’aggiornamento permanente della vision, con tutte le verifiche che si rendono necessarie e tutte le revisioni che le verifiche suggeriscono, e (B) a fare di tutto ciò un patrimonio di esperienze, idee e valori profondamente condiviso da tutti i soggetti interessati. Dunque riprendendo il concetto di vision di Foresti e Rossi Monti è possibile intuire come possa esistere anche un visioning clinico di competenza del terapeuta. Questi deve infatti preoccuparsi di tenere viva nella mente e nell’azione «una rappresentazione complessa del paziente, sottoposta a continua verifica e ri-orientata sulla base dei risultati dell’intervento». Di fatto nell’impostazione operazionalizzata del DSM-5, così come nella diffusione crescente di guidelines e protocolli standardizzati (pur utili), l’oggettivazione del sintomo rischia di produrre una pratica terapeutica alquanto rigida, che consegue meccanicamente dalla diagnosi. Un vero“progetto terapeutico”, dovrebbe essere concepito sulla misura del paziente ed evolvere con lui. La lettura Esercizi di Visioning di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti è decisamente di tipo prospettico, intendendo con questo termine la capacità-necessità di “vedere in avanti”, in senso anticipatorio, ovvero di calibrare-dosare il cambiamento in riferimento a tutte le variabili in gioco, che devono essere ben chiare nel progetto terapeutico. In definitiva, considerando il progetto terapeutico come una componente fondamentale del visioning clinico c’è da fare qualche considerazione conclusiva:

A fianco delle categorie nosografiche è raccomandabile per il buon esito della psicoterapia l’adozione di strumenti mutuati dalla psicoanalisi, dalle teorie psicodinamiche: come l’esplorazione e la comprensione del mondo interno del paziente quale si manifesta nella relazione terapeutica e la messa in evidenza del vissuto soggettivo a monte del sintomo osservabile (sintomo che, rispetto ad esso, costituisce già una forma di coping). Inoltre per meglio legare diagnosi e progetto, le categorie fornite dal PDM sono forse più utili di quelle fornite dal DSM. Infatti: rispetto agli assi diagnostici del DSM-5 (che non sono vere “dimensioni” di una descrizione complessiva, ma piuttosto degli elenchi relativamente indipendenti l’uno dall’altro e non tutti egualmente significativi per ogni paziente), gli assi diagnostici del PDM costituiscono dimensioni ineludibili ed effettive di una descrizione unitaria, che non ignora il “vissuto soggettivo”.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Foresti G. e Rossi Monti M. (2002a) La diagnosi e il progetto. Visioning clinico e organizzatori psicopatologici, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 65-82
  • Foresti G., Rossi Monti M. (2009c) Sintesi diagnostiche e ‘visioning’ clinico. La costruzione del progetto terapeutico-riabilitativo persnalizzato, in: Asioli F. & Purpura M.(a cura di) La Comunità Terapeutica. Istruzioni per la manutenzione, Edizioni Biblink, Roma
 
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