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Tra depressione e masochismo: le possibili affinità e le differenze

Nel dolore della depressione ogni speranza è perduta mentre quello del masochismo comprende una speranza d’amore, come se solo soffrendo si sentisse in pace

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 10 Nov. 2020

Tracciare una linea di demarcazione tra depressione e disturbo masochistico significa cercare di differenziare due tipologie psicopatologiche che, nonostante le apparenti affinità, presentano numerosi punti di distanza.

 

In una prospettiva psicodinamica vediamo come entrambi questi disturbi ruotino attorno ad un nucleo centrale comune: una profonda sofferenza emotiva causata dalla perdita e dalla lontananza dell’oggetto amato, evento drammatico e doloroso dal quale scaturiscono sentimenti di colpevolezza, stigmatizzazione e disprezzo dapprima rivolti verso l’oggetto stesso, e in un secondo tempo spostati sul Sé, tramite un rivolgimento autoaggressivo pulsionale che assume il ruolo di meccanismo difensivo (Freud, 1917).

Malgrado questa radice patologica condivisa, tuttavia, i disturbi risultano divergenti sotto molteplici aspetti, contenutistici e altresì terapeutici.

In primo luogo la disperazione del depresso è caratterizzata da connotazioni di irreversibilità, di non mutabilità. Egli crede di aver perduto definitivamente l’oggetto d’amore, così come è convinto di non avere possibilità di stabilire un legame con lo stesso, se non quello di accoglierlo inconsciamente nella propria dimensione egoica. L’oggetto è definitivamente morto, e l’unico modo per riunirsi ad esso è morire anch’egli.

Al contrario il masochista percepisce la perdita in una connotazione meno definitiva, e nel tentativo di mantenere una sorta di vicinanza all’oggetto perpetra una serie di atteggiamenti basati sul dolore autoinflitto. Ma la sua sofferenza non è volta ad un’autocolpevolizzazione rimuginante e passiva come quella del depresso; è piuttosto una sofferenza viva, che si rinnova continuamente alla ricerca di fonti esterne in grado di provocarla. Il masochista, in altre parole, cerca in ogni modo di soffrire, e di questa sofferenza si compiace poiché la reputa l’unico modo per relazionarsi all’oggetto amato. Dunque egli non cerca la sofferenza solo per autopunirsi, ma anche per mantenere in vita un rapporto con l’oggetto d’amore.

Ulteriore differenza tra i due aspetti patologici è quella che spinge il depresso a rifuggire ogni sorta di interazione sociale, laddove il masochista tende a ricercare relazioni esterne in grado di riprodurre adesivamente l’unica relazione d’amore che ritiene possibile, ovvero quella foriera di dolore e sofferenza. Quanto espresso potrebbe risultare una parziale spiegazione della propensione masochistica a relazionarsi con soggetti sadici, narcisisti, antisociali, e della pervicacia con la quale i masochisti decidono di mantenere intatto questo legame patologico pur avendo la possibilità di modificarlo in senso adattivo o di liberarsene; questa tipologia di masochismo- noto come anaclitico- manifestando tratti patologici simili al disturbo dipendente della personalità– spinge il soggetto all’accettazione di un vissuto relazionale mortificante, nella convinzione che si tratti dell’unico modo per assicurarsi la vicinanza fisica ed affettiva dell’altro. Il dolore diviene pertanto l’unica fonte gratificante, in un meccanismo paradossale che rende la sofferenza anche l’unica meta pulsionale del masochista.

Si aggiunge che tramite l’esercizio della sofferenza il masochista riesce a mantenere, al contrario del depresso, una sorta di autostima e di autocompiacimento, aspetti valutativi a loro volta strettamente connessi alla sperimentazione del dolore e dell’autodeprivazione.

In poche parole, attraverso la sofferenza il masochista crede di adempiere il proprio dovere, quindi è come se soltanto soffrendo egli si sentisse in pace con il mondo. Individui di questo genere, nel proprio percorso evolutivo, sono stati probabilmente indotti a considerare la sofferenza in una prospettiva esaltante, e a credere che il dolore e il sacrificio costituiscano l’unico modo per sentirsi apprezzati e ricevere rinforzi da parte delle principali figure affettive (McWilliams, 1994).

In certe famiglie l’oblazione e l’automortificazione sono vissute come attività nobilitanti e degne di elogio, e prospettate come mezzo di realizzazione del Sé. Ne consegue la nascita di una concezione moralizzante della sofferenza, vista come un mezzo di purificazione, di espiazione catartica, ma anche come un modo di mantenere intatta una moralità costruita sui dettami di un Super-io particolarmente intransigente.

Questo masochismo, noto con il nome di morale o a direzione introiettiva (Reik, 1941) è molto comune nelle persone che intraprendono le c.d. professioni di aiuto, nelle quali si verifica una posposizione dei propri bisogni per occuparsi di quelli degli altri, che assumono la priorità. Si tratta di una sublimazione delle pulsioni affettive in attività altruistiche che, se per certi aspetti può rivelarsi adattiva e funzionale, nel caso del masochista assume connotazioni patologiche, inflessibili e rigide, tanto da divenire l’unico modo per avvicinarsi al Sé e al Sé con l’altro. Soffrire corrisponde ad un dovere inderogabile, ma è anche un modo per dimostrare il proprio valore, per dimostrare la propria superiorità morale garantita da un’oblatività indefessa che trova nella sofferenza la più nobile forma espressiva.

Nella dimensione valutativa del depresso il dolore costituisce la giusta conseguenza alla perdita dell’oggetto, mentre in quella del masochista la punizione è l’unico modo per non perdere definitivamente l’oggetto. Ciò testimonia come l’universo emozionale del masochista, per quanto disfunzionale e autoinfliggente, sia ancora presente. Nel dolore del masochista c’è una speranza d’amore: in quello del depresso ogni speranza è perduta.

Il masochista è un depresso che continua a sperare (McWilliams, 1994). E la sua speranza è volta a credere che il legame con l’oggetto d’amore sarà mantenuto a prezzo della mortificazione, del dolore sperimentato fino all’annientamento del Sé (Bieber, 1980).

Depressione e masochismo in psicoterapia: differenze di trattamento

La differenza tra le due psicopatologie si esplica anche nel setting terapeutico. È necessario non effettuare diagnosi confusive o affrettate: trattare un depresso come un masochista e viceversa potrebbe infatti portare ad un peggioramento di entrambi gli stati patologici e creare una frattura dell’alleanza in grado di invalidare l’intero percorso terapeutico. La personalità masochista ha bisogno di scoprire che l’autoaffermazione rappresenta una fonte di autocompiacimento, e che le relazioni oggettuali meritevoli di essere coltivate non sono quelle fondate sulla sofferenza, ma quelle dove il rapporto è costruito su basi simmetriche in cui nessuno prevale sull’altro.

L’obiettivo della terapia col masochista è quello di sciogliere il suo legame libidico con un oggetto interno ‘mortificante’ che deve essere amato tramite la punizione, e la sostituzione dello stesso con un oggetto più funzionale che esalti la reciprocità e il rispetto relazionale. Si deve riuscire ad eliminare, nel masochista, il valore affettivo conferito alla sofferenza: per questo si potranno utilizzare anche tecniche terapeutiche volte alla non collusività e alla criticità della sofferenza del paziente, spingendolo a posizioni più reattive e meno accondiscendenti (McWilliams, 1994). D’altro canto, manifestazioni troppo empatiche o premurose potrebbero rafforzare in lui la convinzione che la sofferenza sia l’unico modo per stabilire legami con gli altri, persino col terapeuta, o ancor peggio provocare agiti autodistruttivi in conseguenza di una comprensione che non crede di meritare.

La terapia dell’ascolto e della rieducazione si rivela in questi casi più fruttuosa di quella farmacologica: si osserva infatti come somministrando un antidepressivo ad un masochista, non si fa che aumentare in lui la convinzione che soltanto attraverso un’autorità, una fonte esterna o un potere magico potrà trovare sollievo al suo dolore (McWilliams, 1994).

Al contrario, ove un comportamento eccessivamente correttivo venga manifestato nei confronti del depresso, la condizione di quest’ultimo potrebbe risultare aggravata da tentativi di suicidio e di abbandono della terapia. Sentirsi criticato o stigmatizzato dal terapeuta lo condurrebbe soltanto alla sperimentazione di stati d’animo più cupi e disperati, capaci di fortificare la colpevolizzazione e la disistima fino all’esito estremo.

Il depresso ha bisogno di sapere che il terapeuta non lo giudicherà, che sarà presente nei momenti di bisogno, che si mostrerà empatico con le sue reazioni emotive e affettive, in un’accettazione condivisa del Sé. Il paziente deve sentirsi compreso e accolto pur nel vuoto della sua esistenza, e ha bisogno di avvertire che il terapeuta è capace di collocarsi nella sua stessa condizione emotiva, in una prospettiva sintonica e accogliente, utile a costruire relazioni oggettuali meno abbandoniche delle precedenti e a raggiungere una stabile percezione del Sé.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bieber I. (1980), The meaning of masochism in cognitive psychoanalysis, Jason Aronson, New York, London.
  • Freud S. (1917), Lutto e Melanconia. In: Opere di Sigmund Freud, Vol.8, Boringhieri Ed., Torino, 1976.
  • McWilliams, N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma;
  • Reik, T. (1941), Il masochismo nell’uomo moderno, tr.it. Sugar, Milano, 1963;
  • PDM-2, (2012), Psychodynamic Diagnostic Manual, a cura di Lingiardi, V., McWilliams, N. (2012),  Raffaello Cortina, Milano.
 
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