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La vita a scuola (2020) a cura di Silvia Kanizsa e Francesca Linda Zaninelli – Recensione del libro

'La vita a scuola' racconta come la scuola non sia solo luogo di apprendimento ma anche di socializzazione, riproduzione culturale ed esperienza democratica

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 06 Ott. 2020

Si impara in un tempo e in luogo, e si impara con gli altri. L’apprendimento non è un processo mentale solitario, ma una pratica sociale: questo uno dei concetti centrali del libro La vita a scuola.

 

Scuola. In questi giorni quasi non si parla d’altro. Nel particolare momento storico che stiamo attraversando l’inizio del nuovo anno scolastico è sotto i riflettori per le sfide e le difficoltà che porta con sé il dover conciliare sicurezza e salute di tutti con l’imprescindibile necessità di garantire alle nuove generazioni il diritto fondamentale all’istruzione. E’ dunque un’occasione per ripensare alla scuola nel suo essere istituzione educativa e fondamentale contesto di crescita, strumento ed espressione di una democrazia che proprio attraverso di essa si attua formando i propri cittadini.

Il libro a cura di Kanizsa e Zaninelli rappresenta in questo quadro un interessante spunto di riflessione sui compiti sociali e culturali della scuola che, in continuità con la comunità in cui è inserita e di cui è espressione, ha un’enorme influenza su bambini e ragazzi, sulle loro relazioni e sul loro futuro. La scuola, infatti, è una parte importante nella vita di ognuno di noi, il primo incontro e confronto col mondo esterno alla rete famigliare, con la realtà culturale e sociale in cui siamo immersi. Proprio in questi mesi d’isolamento e chiusura delle scuole ci siamo resi conto dell’importanza che riveste per l’apprendimento e la crescita dei nostri bambini e ragazzi l’essere a scuola, in relazione viva con insegnanti e compagni, in un contesto di sviluppo sociale e culturale, ad ‘alta densità relazionale’.

Le autrici dei diversi capitoli che compongono il volume ben mettono in luce, da diverse angolature e sottolineando di volta in volta complessità e aspetti specifici, come la scuola infatti non sia solamente un luogo di apprendimento, ma anche di socializzazione, di riproduzione culturale e di esperienza democratica: ciò che si impara a scuola non sono solo contenuti, ma modalità di pensiero, valori culturali, ruoli sociali.

Per poter diventare cittadini liberi e consapevoli, i ragazzi hanno bisogno di un percorso formativo che dia loro gli strumenti per capire e valutare ciò che accade intorno a loro, che li aiuti a coltivare il giudizio critico e la capacità di scegliere. E questo deve essere garantito a tutti, indipendentemente dalla provenienza sociale, culturale, ed etnica. Proprio in vista di tale obiettivo nel nostro Paese la scuola è regolata da un quadro normativo complesso, ispirato ai valori di universalità e inclusione promossi dalla Costituzione italiana.

Uno dei capitoli di Zaninelli è proprio dedicato ad esplorare come sia cambiata la scuola nel corso del tempo e come le riforme ne abbiano progressivamente modificato l’organizzazione con l’intento di garantire una qualità educativa ed un’efficienza sempre maggiori. Certamente le questioni da affrontare sono molte e, se da un lato oggi la scuola gode di maggiore autonomia, flessibilità organizzativa, migliore utilizzo di risorse e strutture, maggiore continuità tra i vari segmenti educativi nel passaggio da un grado scolastico al successivo, maggiore libertà nella scelta di metodi e stili di insegnamento, attenzione al bisogno di continuità relazionale garantito dal gruppo classe, dall’altra vi è un intrecciato groviglio di criticità e nodi ancora da sciogliere. Ancora troppa è la diseguaglianza territoriale fra le scuole, anche in termini di qualità dell’offerta didattica, così come il modello formativo di base è ancora troppo ‘classico’, poco attento a valorizzare le differenze individuali e ad evitare una discriminazione sociale e culturale nel corso della carriera formativa.

In questo volume le autrici entrano per il lettore nella scuola, nella sua quotidianità, raccontandone i protagonisti, esaminando gli ingredienti necessari per far sì che essa realizzi davvero il suo mandato diventando una ‘scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, di sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini’ (art.1, Legge n. 107/2015, in Kanizsa e Zaninelli, 2020).

La scuola diventa contesto di apprendimento e crescita attraverso l’organizzazione dei suoi spazi fisici e architettonici, attraverso i suoi tempi scanditi di lezioni e calendario scolastico, attraverso il suo essere un’esperienza interattiva, sociale e relazionale.

Se pensiamo a quanta parte della loro vita i bambini e i ragazzi trascorrono a scuola, è evidente come non sia possibile ignorare l’impatto che spazi, luoghi fisici, materiali, oggetti, arredi, strumenti esercitano sul loro sviluppo. Lo spazio e il tempo della scuola sono questioni importanti: l’ambiente non è mai neutro, ma influenza il comportamento e il vissuto di ogni individuo, e questo vale ancora di più quando si tratta di bambini, per cui l’accoglienza e la stabilità del contesto di sviluppo sono assolutamente fondamentali. Nella relazione con lo spazio che lo circonda il bambino costruisce il suo senso di sé, del mondo e degli altri. Maria Montessori realizzò le sue Case dei Bambini proprio a partire dall’idea di mettere il bambino al centro di uno spazio fisico in cui si sentisse progressivamente sempre più capace di agire in modo autonomo, competente e libero. Le scuole oggi troppo spesso mancano di una vera attenzione ad un ‘abitare educativo’ che aiuti i bambini e i ragazzi a crescere e ad apprendere. Abbiamo bisogno di pensare e investire di più sul progettare spazi educativi idonei così come abbiamo bisogno di ripensare alla dimensione del tempo, troppo poco esplorata e problematizzata: i tempi dell’apprendimento non sono uguali per tutti e i bambini hanno bisogno del giusto tempo per crescere in armonia rispettando i propri ritmi di sviluppo.

Si impara in un tempo e in un luogo, e si impara con gli altri. L’apprendimento non è un processo mentale solitario, ma una pratica sociale, un cambiamento che avviene partecipando ad un’esperienza fatta di persone, relazioni, confronti. Un’esperienza emotiva, cognitiva, comportamentale e sociale che coinvolge tutti gli attori in scena e modifica ognuno di loro, se pure in modi diversi. Il gruppo di persone che abitano la scuola è dunque il contesto privilegiato di apprendimento e in questo gruppo asse portante sono certamente gli insegnati. Il compito dell’insegnante è un compito difficile, come ben evidenziano le autrici di questo volume, che non si esaurisce nella trasmissione di informazioni e che dunque non richiede solo una solida conoscenza dei contenuti, ma, realizzandosi nella dimensione interpersonale del rapporto con gli allievi, anche la capacità di entrare in relazione con loro e trasmettere le nuove conoscenze stimolando l’apprendimento.

Per quanto l’esperienza educativa sia un’esperienza reciproca in cui s’impara gli uni dagli altri, il rapporto insegnante/allievo è e sempre deve essere asimmetrico: il maestro ha il compito e la responsabilità di dare una direzione al lavoro, indipendentemente dal fatto che adotti uno stile più o meno tradizionale. L’insegnante è il perno del processo educativo e il suo stile influenza ciò che avviene in classe e il clima che se ne respira. Diverse ricerche, come illustrato da Kanizsa, hanno cercato di indagare gli esiti sull’apprendimento degli studenti dei diversi stili di insegnamento. Un insegnante più tradizionale e formale rende gli allievi più passivi, relegati ad un ruolo di solo ascolto. Un insegnante informale o meno tradizionale mette l’allievo al centro, spingendolo a cercare più attivamente, attraverso tentativi ed errori, collaborando coi compagni. Ogni metodo ha vantaggi e svantaggi, viene naturalmente modulato dalle caratteristiche personali dei singoli maestri (cosa che rende difficile individuare uno stile ‘puro’) e funziona in modo più o meno efficace anche a seconda della personalità degli allievi. I risultati sembrano simili dal punto di vista delle valutazioni sulle materie di studio, per quanto partano più a rilento nel gruppo gestito in modo informale. D’altra parte gli allievi di questo gruppo mostrano maggiori abilità sociali e migliori capacità di autogestione del percorso di apprendimento. Ogni maestro è chiamato a scegliere lo stile più adatto alla classe, tenendo presenti le proprie caratteristiche e quelle dei suoi allievi. Più l’insegnante percepisce se stesso come efficace, meglio gestisce il rapporto coi ragazzi e migliore è il clima dell’intera classe. Ma oltre a percepire se stesso come efficace, è necessario che consideri ogni allievo capace di imparare: ognuno di noi ha un’idea di cosa sia l’intelligenza, se sia modificabile o meno, e ogni insegnante ha nella sua testa l’immagine dello ‘studente ideale’, in termini di caratteristiche personali, età, genere, ecc.

Questi pre-concetti sono un dato di fatto ineliminabile, di cui però un buon insegnante deve essere consapevole, affinché non si trasformino per i suoi ragazzi in profezie che si autoavverano, incasellandoli in categorie immodificabili. Imparare è faticoso e, per quanto i bambini generalmente inizino il loro percorso formativo desiderosi di imparare cose nuove, spinti dalla loro naturale curiosità, hanno bisogno che la loro motivazione sia alimentata e incoraggiata dalla proposta di attività che stimolino il loro interesse e dal successo e dalla considerazione degli altri. L’idea tradizionale che premi e punizioni (in termini di voti e giudizi) siano uno sprone per l’apprendimento trova il suo limite nella consapevolezza ormai consolidata che quanto più le motivazioni sono esterne alla persona, tanto più sono labili e rischiano di rendere gli allievi meno interessati, demotivati fino alla rassegnazione e, in situazioni limite, rischiano di portare all’abbandono scolastico.

In questo senso l’uso della valutazione merita un’importante riflessione, attraverso cui ci accompagna Germana Mosconi. Fin dai primissimi anni di vita il bambino viene valutato attraverso giudizi più o meno espliciti su ogni sua attività e comportamento. Questi giudizi sono condizionati dalle ‘pedagogie implicite’, dall’idea che ciascun adulto di riferimento (educatore o familiare) ha di come imparano i bambini. Ognuno di questi giudizi concorre a formare nel bambino l’immagine di sé e delle proprie possibilità future, contribuendo al processo di selezione scolastica e influendo sul suo futuro. Per aiutare ogni bambino a crescere al meglio delle proprie possibilità, sfruttando le proprie risorse è necessario ripensare alla valutazione non come uno strumento di selezione ma come uno strumento formativo per capire come proceda il percorso didattico, per definire le esigenze da soddisfare, le carenze da colmare e regolare così le modalità di insegnamento in funzione delle esigenze di tutti gli allievi. Il criterio di merito basato sulla prestazione ha molti limiti: troppe variabili interne ed esterne agli allievi incidono sulla prestazione scolastica, sulla stessa capacità di impegnarsi per ottenere un risultato, come la disponibilità di un supporto al loro apprendimento, l’ambiente culturale che li circonda, le loro caratteristiche in termini di predisposizione per certe materie, la fiducia in se stessi, ecc. E questo certamente penalizza i bambini più ‘deboli’, che non trovano un adeguato sostegno alle loro difficoltà e, una volta intrapresa la ‘carriera fallimentare’, non riescono a migliorare la propria situazione e si trovano incanalati in un percorso che perpetua le disuguaglianze, invece di assottigliarle. Occorre una maggiore attenzione al singolo, ai vissuti di ogni bambino riguardo alle proprie capacità e risorse, un’ottica formativa che valorizzi le differenze individuali invece di scoraggiarle, incoraggiando la ricerca per tentativi. Oltre ad uno strumento per promuovere l’apprendimento, la valutazione deve avere per l’insegnante una funzione riflessiva: un’occasione per ripensare al proprio operato, a come modificare il proprio modello didattico per adattarlo alle esigenze dei ragazzi supportandoli nel loro processo di crescita e acquisizione di conoscenze.

Per questo fra gli strumenti professionali di un buon insegnante non possono mancare abilità comunicative e di ascolto empatico che gli permettano di interagire con la classe in modo caldo e accogliente e di instaurare con i ragazzi una buona relazione. L’insegnante deve aiutare i bambini e i ragazzi a crescere e per farlo devono poter stare con loro in un atteggiamento di accettazione positiva e incoraggiante. Solo così gli sarà possibile vedere e comprendere ogni bambino nel suo essere unico e irripetibile, scegliendo un percorso adatto a lui. Naturalmente ogni persona, e dunque ogni insegnante, ha la sua sensibilità e le sue caratteristiche individuali ma, per poter esercitare questo importante e difficile mestiere, le capacità relazionali possono e devono apprese al di là della singole inclinazioni.

Per fare ciò è importante imparare ad osservare e osservarsi in maniera sistematica, separando, per quanto possibile, le impressioni soggettive dai dati oggettivi.

In questa visione di apprendimento, e dunque di insegnamento, come azione sociale, un valore aggiunto importante è dato dal collegio dei docenti: il continuo confronto e condivisione con i colleghi è uno strumento di lavoro importantissimo che consente a tutti di crescere personalmente e professionalmente. Certamente, come riconosce Monica Amadini nel suo capitolo dedicato proprio a questo tema, la collaborazione richiede impegno e fatica, ma consente ad ognuno di riconoscere le proprie competenze prendendo maggiore consapevolezza del proprio ruolo, imparando a riconoscere i propri limiti e ad apprendere gli uni dagli altri. Oltre ad essere un importante ancoraggio istituzionale, in una condivisione di scelte e responsabilità, la collegialità è anche un prezioso sostegno personale e un fattore protettivo per la salute emotiva di tutti. Imparare a lavorare insieme non è facile, è un traguardo lungo e faticoso che richiede impegno costante e il farsi carico della fatica di discussioni e negoziazioni, ma è una fatica che viene premiata dalla nascita di un dialogo costruttivo, di soluzioni alternative e sguardi nuovi, dal progressivo miglioramento della qualità didattica e delle pratiche educative del gruppo, diventando per gli alunni testimonianza di una vera possibile collaborazione.

E’ forse questo il messaggio di fondo di questo bel libro: mettersi in gioco richiede fatica, risorse, impegno, ma fare buona scuola è proprio questo, mettersi in gioco a tutti i livelli, qualunque sia il proprio ruolo all’interno del sistema, allievi, insegnanti, dirigenti, legislatori, riconoscendosi reciprocamente competenze e capacità, stando insieme non in posizione frontale, ma fianco a fianco, ognuno consapevole dei propri compiti e disposto a riflettere su di sé per crescere e fare crescere. Senza però mai perdere di vista una piccola ma sostanziale differenza: rispetto al processo di apprendimento e alla relazione educativa le responsabilità non sono e non devono essere le stesse. Come evidenziano le autrici nel loro lavoro, mentre ‘il maestro (e con lui tutto il sistema scuola, aggiungo io) ha il dovere di lavorare in modo da aiutare i bambini a imparare e a crescere [..] i bambini hanno solo diritti e in particolare hanno il diritto di essere ascoltati e aiutati ad apprendere‘ (Kanisza e Zaninelli, 2020, p.100).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Kanizsa, S. e Zaninelli, F.L. (a cura di ) (2020) La vita a scuola. Raffaello Cortina Editore, Milano.
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