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La vergogna cronica: quale lavoro terapeutico?

L’obiettivo terapeutico non è eliminare la vergogna quanto piuttosto comprendere, accettare ed attenuare gli effetti della vergogna cronica

Di Giada Alberti

Pubblicato il 22 Ott. 2020

La vergogna non può e non deve essere additata ed eliminata dal terapeuta ma piuttosto deve essere accettata come parte dell’esperienza umana sia dei pazienti che del terapeuta. Tuttavia la vergogna cronica può diventare un grande ostacolo nella relazione terapeutica ed impedire una buona alleanza.

 

Il concetto di vergogna cronica è stato già approfondito in un precedente contributo pubblicato su State of Mind, infatti la funzione di questo articolo sarà quella di mostrare e descrivere possibili approcci terapeutici dove è centrale la relazione, vista la natura sociale di questo vissuto emotivo. Nel fare questo si prenderà in considerazione l’esperienza trentennale di Kathy Steele nella clinica e nello specifico con pazienti che hanno vissuto traumi.

Seguendo una prospettiva relazionale, Nathanson (1987) propone una sorta di bussola della vergogna che mostra come la persona che prova vergogna desidera apparire buona agli occhi dell’altro e per fare questo può utilizzare due diverse strategie: isolamento dall’altro o attacco al sé. Quando invece l’individuo non riesce ad entrare in contatto con il profondo sentimento di vergogna potrebbe negarla o proiettarla e ciò potrebbe portare a livello comportamentale ad attaccare l’altro o ad evitare la propria esperienza interiore. Queste ricadute comportamentali in chi sperimenta vergogna cronica hanno alla base secondo Nathanson dei conflitti intrapsichici tra le parti dissociate, tra cui quella fobica nei confronti dell’attaccamento e quella spaventata di perdere l’attaccamento. Sarà importante che il terapeuta risponda ai comportamenti d’attaccamento del cliente mantenendo però una relazione di reciproca collaborazione basata sulla condivisione da parte del paziente dei segnali affettivi e la recezione empatica da parte del terapeuta dei contenuti emotivi. Il terapeuta può incoraggiare il paziente a prendersi cura del bambino ferito ma nel fare questo deve porre attenzione all’attivazione eccessiva del sistema di attaccamento in quanto potrebbe avviare risposte d’attacco o evitamento. Il terapeuta e il paziente si chiedono insieme come la parte adulta potrebbe sostenere ed aiutare la parte del bambino a crescere e si incoraggia la relazione tra le parti rimandando al cliente che esse sono comunque parte di un insieme.

L’obiettivo terapeutico non è quindi quello di eliminare la vergogna quanto piuttosto comprendere, accettare ed attenuare gli effetti della vergogna cronica. Inoltre la vergogna ha alla base funzioni e cause squisitamente soggettive; per ogni paziente la vergogna sperimentata avrà un significato personale e proprio comprendere questo aiuterà il clinico ad affrontare tale specifico aspetto nel corso del trattamento. Le tematiche da affrontare nel corso della terapia sono:

  • Il sentimento di sentirsi giudicato e criticato dagli altri
  • La paura di sentire la vergogna, provare fobia verso questa specifica esperienza interiore
  • Critica interiore cronica legata alle parti dissociate
  • Convinzione di base o schemi che inducono vergogna
  • La vergogna come inibitore di altre emozioni come gioia e rabbia
  • Flashback di esperienze associate alla vergogna
  • Vergogna come regolatore dei confini relazionali
  • Le difese utilizzate contro la vergogna
  • Iper/ipo arousal legati alla vergogna
  • Gli aspetti sociali e culturali della vergogna
  • La resilienza della vergogna

È necessario che il terapeuta utilizzi un approccio graduale per trattare la vergogna cronica, per esempio evitare precocemente uno sguardo diretto persistente; potrebbe essere molto utile per il clinico esplorare il conflitto che vive il paziente tra la necessità di nascondersi ed isolarsi e quella di condividere e di entrare in relazione con gli altri essendo accettati. Il terapeuta non si focalizzerà sulla vergogna inizialmente ma su gli effetti sia emotivi che comportamentali ad essa associati per poi esplorare in che modo gestisce il proprio senso di vergogna.

Il terapeuta deve esser in grado di entrare delicatamente nel vissuto emotivo carico di vergogna per accogliere e accettare questa emozione con compassione, avviando un processo che si auspica possa poi mettere in atto il paziente stesso in autonomia. È importante valutare se il paziente si trova dentro la finestra di tolleranza quando sperimenta o rievoca nel setting clinico la vergogna per fare in modo di garantire una buona elaborazione sia cognitiva che emotiva.

Per evitare che il paziente esca dalla finestra di tolleranza è utile che il terapeuta parli lentamente, presti attenzione ai dettagli e al linguaggio non verbale oltre a quello verbale, dia al paziente molto tempo e non faccia troppe domande. È importante che il paziente senti la vergogna ma allo stesso tempo è necessario che il terapeuta lo aiuti a sentirsi radicato e rievocare le risorse del quale è in possesso. In questo caso è utile sentire solo pochi secondi la vergogna per riuscire a dare un nome alle sensazioni e alle reazioni ad essa annessi e notarle nel corpo. Gli approcci dall’alto verso il basso promuovono la psicoeducazione e il dialogo socratico; il terapeuta nel primo caso informa il paziente sulle funzioni, sulle difese connesse alla vergogna, di quanto siano connesse a questo sentimento la vulnerabilità e la sensazione d’impotenza vissute nell’infanzia e si forniscono delle informazioni circa le difese messe in atto dagli animali in questo caso; inoltre può essere utile secondo questo approccio sottolineare l’universalità del senso di vergogna.

Seguendo un approccio socratico invece il terapeuta cercherá di fare domande che mettano in discussione le credenze e le convinzioni di base del paziente o che spingano a una riflessione più consapevole, come per esempio: chi ha deciso che lei non meriti nulla di buono? Quando lo ha deciso? Non merita nulla in assoluto o solamente alcune cose?

Un altro approccio utile per lavorare con la vergogna cronica è quello immaginativo, seppure questi richiedano una buona alleanza terapeutica, la consolidazione e il potenziamento di alcune competenze come: il pensiero astratto, la capacità di distinguere la realtà interna e quella esterna, la capacità di autoregolazione emotiva e la capacità di attenzione duale nel presente. Un esercizio immaginativo è quello della figura ideale, dove il paziente è invitato ad immaginare qualsiasi cosa o persona, non è importante se non sia reale o se non sia un essere umano, infatti possono essere animali, spiriti guida, figure religiose o personaggi di libri o film. Si chiederà al paziente di elencare quattro caratteristiche della figura, quindi degli aggettivi che la descrivono al meglio, per poi continuare a potenziare l’immagine attraverso altre domande da parte del terapeuta e renderla sempre meglio definita e nitida nella mente del paziente. Si invita poi il paziente a dare un nome a ciò che sente e nel rievocare alla mente tale immagine la dovrebbe sentire come se fosse al suo fianco, il terapeuta potrà poi chiedere al paziente cosa potrebbe dirgli la figura ideale. La rievocazione della figura ideale viene incoraggiata dal terapeuta durante tutto il corso della settimana. Un altro esercizio che si può svolgere è quello di trasformare la vergogna dandogli una forma, un colore, una struttura, una specifica temperatura, un movimento e connetterlo a una sensazione che evoca.

Questi appena menzionati sono gli approcci dall’alto verso il basso, descriveremo ora brevemente invece gli approccio dal basso verso l’alto. Essendo la vergogna cronica un’emozione spesso connessa a stati dissociativi o a eventi traumatici infantili è utile integrare agli approcci cognitivi anche quelli che lavorano a livello somatico o quelli dove è centrale la relazione terapeutica. Si farà dunque attenzione a dove il paziente sente una specifica emozione a livello corporeo e si esploreranno le tendenze al movimento, come per esempio il rannicchiarsi. Il terapeuta può chiedere ai pazienti per approfondire al meglio i movimenti del corpo di ripeterli a rallentatore notando ciò che accade nei micromovimenti e cosa si sperimenta a livello emotivo (Ogden & Fisher, 2015).

Tra gli approcci dal basso verso l’alto c’è quello della Felt Sense o della sensazione sentita. Il terapeuta chiede al paziente di concentrarsi sulle sensazioni di orgoglio e competenza sperimentate nel passato. Il clinico deve cercare di stimolare il senso di competenza relazionale nel setting terapeutico per poi estenderlo in altri contesti. Un altro strumento utile può essere la terapia EMDR che attraverso la stimolazione bilaterale può lavorare sulle cognizioni negative e costruire risorse per far fronte ai sentimenti di vergogna cronica (Mosquera & Gonzalez, 2012; Knipe, 214).

Risulta fondamentale per un lavoro terapeutico efficace e su misura di ogni paziente integrare i diversi approcci valutando i bisogni, i punti ciechi e i punti d’appoggio della persona che abbiamo di fronte.

Il paziente scoprirà quanto sia importante condividere ed accettare le proprie vulnerabilità anziché rifiutarle e quanto sia bello poter apprezzare e mettere in campo i propri punti di forza e risorse.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Knipe, J. (2014). EMDR toolbox: Theory and treatment of complex PTSD and dissociation. New York, NY: Springer Publishing.
  • Mosquera, D. & Gonzalez, A. (2012). Disturbo borderline di personalità, trauma e EMDR. Rivista di Psichiatria, 47 (2), 26-32
  • Nathanson, D. L. (1987). The many faces of shame. Partially based on a symposium held in Los Angeles, 1984 for the 137th Annual Meeting of the American Psychiatric Association.
  • Ogden, P. & Fisher, J. (2015). Sensorimotor psychotherapy: interventions for trauma and attachment (Norton series on interpersonal neurobiology). New York: WW Norton & Company.
  • Steele, K., & van der Hart, O. (2009). Treating dissociation. Treating complex traumatic stress disorders: An evidence-based guide, 145-165.
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