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La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione (2020) di Patrizia Ruggerini – Recensione del libro

'La morte fa paura' affronta la difficoltà dei familiari di stare vicino al malato, privi degli strumenti per reggere la fatica di confrontarsi con la morte

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 29 Ott. 2020

‘Si muore sempre peggio’. E’ da questa amara considerazione che nasce lo spunto per la realizzazione del libro La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione di Patrizia Ruggerini.

 

Le parole sono pronunciate dalla direttrice dell’hospice in cui l’autrice inizia il volontariato, nel suo percorso di formazione per diventare counselor, e rappresentano per lei un’eco della sua esperienza personale, esperienza che la porta ad interessarsi a questo tema, personalmente e professionalmente, e da cui prende l’avvio una profonda riflessione sul fine vita. Abbiamo dimenticato come si fa a ‘morire bene’: lo vediamo nella solitudine delle corsie degli ospedali, nella difficoltà di fronte a qualcuno che condivide con noi l’esperienza di un lutto o di una malattia, nella nostra tentazione di sviare il discorso, minimizzare, andare oltre troppo in fretta, incapaci di stare nella sofferenza, di stare di fronte alla morte. L’autrice ci porta a soffermarci su quello che vorremmo evitare ma che non possiamo eludere, mettendo in luce il disagio e il fallimento della nostra società nell’accompagnamento al fine vita.

L’idea della morte suscita in tutti noi sentimenti e atteggiamenti di paura, negazione, evitamento. Per paura di morire arriviamo a farci fare di tutto ed è incredibilmente difficile, anche di fronte ad una grave malattia, prendere davvero in considerazione che il suo decorso possa essere infausto. Rimaniamo attaccati alla vita talvolta ad ogni costo, incapaci di accettare la nostra mortalità e quella dei nostri cari.

Se guardiamo al nostro passato possiamo vedere che non è sempre stato così: prima dell’industrializzazione la morte era un evento più naturale, le famiglie erano più numerose, i vecchi stavano in casa e morivano in casa, accompagnati dalla presenza dei loro cari e da rituali di accompagnamento al fine vita che davano un senso al momento di passaggio e servivano ai morenti per accommiatarsi e ai familiari per salutarli e accettare la separazione con maggiore consapevolezza. Era un momento importante, in cui nessuno stava solo e in cui tutti partecipavano al ciclo della vita, bambini compresi. La morte, semplicemente, era parte della vita. Oggi le cose sono molto cambiate: da un lato i progressi della medicina ci hanno allontanati dalla consapevolezza della nostra mortalità; dall’altro non solo i nuclei famigliari sono molto più ridotti e faticano per questo a farsi carico della sofferenza e dell’accudimento dei loro vecchi e dei loro malati, ma manca la familiarità con la morte, mancano rituali di passaggio capaci di accompagnare e sostenere tutta la famiglia in questo momento delicato e si fa molta più fatica ad accettare la morte come evento naturale.

L’atteggiamento più frequente nei familiari, infatti, come nota l’autrice nella sua esperienza in hospice, è la negazione, l’’omertà: non vogliono che il malato sia informato del suo reale stato di salute. Nel tentativo di proteggerlo, lo relegano in una triste solitudine. Gli impediscono di avere così accesso alla risorsa più importante, la relazione, la possibilità di esprimere la sua sofferenza e di beneficiare del conforto empatico di chi gli vuole bene. Invece di stringersi intorno al malato e aiutarlo ad andarsene nel modo più sereno e armonico possibile, i familiari sono troppo spaventati e privi degli strumenti adeguati per reggere la fatica di confrontarsi con la morte, e questo crea una grande sofferenza nel malato e in tutta la famiglia.

Guardare un morente è come guardare in uno specchio: ci riflette la nostra fragilità, la nostra precarietà in questo mondo, ci anticipa il nostro ineluttabile destino. Senza gli strumenti giusti non siamo capaci di tanto coraggio.

Questa difficoltà non riguarda solo i familiari, ma anche i medici che sono spesso collusivi con questa tendenza a nascondere, a negare, a minimizzare. Il sistema sanitario, con le sue tempistiche ristrette e la continua carenza di risorse, certamente non aiuta a costruire una relazione medico-paziente umana e profonda, ma ciò cha manca è anche un’adeguata formazione del personale sanitario, ad ogni livello, nella comunicazione chiara ed empatica. L’esperienza più comune che vivono i malati è quella di non avere spazio per esternare i propri dubbi e le proprie paure, che vengono messe a tacere da frettolose rassicurazioni talvolta infondate che creano pericolose illusioni e lasciano il malato sempre più solo.

Nonostante la legge preveda il ‘consenso informato’, basato sui diritti della persona sanciti dalla Costituzione, troppo spesso la comunicazione è frammentaria, superficiale e al malato non è davvero garantita la possibilità di scegliere in piena consapevolezza e libertà.

Occorre un cambio di prospettiva: guardare al malato, non alla malattia. Non ‘curare’, ma guardare alla persona per ‘prendersene cura’ nella sua interezza.

Per fare questo dobbiamo imparare (o re-imparare) a stare in relazione, a porci accanto al malato in un atteggiamento empatico, dando spazio alle sue emozioni e accogliendole, per quanto difficili. E’ necessario lasciare andare la nostra tensione per fare spazio alle emozioni del malato senza sovraccaricarlo con le nostre.

In un’epoca di ‘analfabetismo emozionale’, le riflessioni di Patrizia Ruggerini accompagnano in una direzione opposta, verso l’importanza di una rieducazione al sentire: l’unico modo per ‘morire bene’ è arrivare consapevoli a questo passaggio riconoscendo le emozioni di paura, dolore e sofferenza, affrontandole, ascoltandole e imparando a regolarle, senza negarle né farsi dominare da esse. Dobbiamo accrescere la nostra competenza emotiva durante tutta la nostra vita, imparare a usare bene le nostre emozioni: le emozioni non sono un nemico da sconfiggere o da cui fuggire, ma uno strumento per muoversi nel mondo, per capire dove stiamo andando rispetto ai nostri bisogni fondamentali. Senza questo strumento siamo ciechi e incapaci di ridare dignità e valore alla malattia e alla morte. E dunque alla vita.

Forse proprio questo difficile momento storico ci costringe a fermarci e prendere di nuovo consapevolezza della nostra finitezza, del nostro essere mortali per rimetterci in contatto con ciò che davvero rende la vita degna di essere vissuta: le nostre emozioni e il nostro essere in relazione con gli altri. Lo abbiamo visto drammaticamente in questi mesi e purtroppo lo vediamo ancora: la cosa più difficile della pandemia non è la morte, ma la solitudine, la separazione dagli affetti, l’impossibilità di dirsi addio e tenersi la mano nel momento del passaggio. Allora forse possiamo imparare qualcosa da questa terribile esperienza, ritrovare il contatto con noi stessi e le nostre emozioni per stare in relazione autentica ed empatica con chi è nel momento più difficile, proprio quando ha maggiore bisogno di sostegno e vicinanza.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ruggerini P. (2020). La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione. Consulta Librieprogetti.
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