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“Quindi, se ho ben compreso, mi sta dicendo che…”, quando ad interrompere la conversazione è il terapeuta

Le sovrapposizioni e le interruzioni dialogiche da parte del terapeuta, durante la seduta, sono da considerarsi necessariamente con accezione negativa?

Di Giustina Schioppa, Miriam Petrillo

Pubblicato il 07 Ott. 2020

La regola d’oro della conversazione prevede “un parlante per volta”, ma come siamo abituati nelle conversazioni quotidiane spesso viene violata con interruzioni e sovrapposizioni di discorso e i suoi effetti possono essere diversi. Ma cosa succede se viene violata in terapia? E se è proprio il terapeuta a farlo?

 

I am afraid I am interrupting you.
It does not follow that interruptions are unwelcome.
(Jane Austen – Pride and Prejudice)

Che cos’è un’interruzione?

La definizione di interruzione all’interno di una conversazione, così evidente e semplice per il comune parlante, è in realtà estremamente complessa e controversa per gli studiosi, indipendentemente dall’area a cui essi appartengono: psicologi, sociologi, linguisti, e così via. Proprio per tale vastità di approcci, non sempre viene esplicitato chiaramente in letteratura cosa si intende per interruzione, mescolando fenomeni diversi e rendendo, di conseguenza, difficilmente confrontabili studi e conclusioni.

Hawkins (1991) afferma che, secondo alcune delle più semplici definizioni di interruzione, questa può essere rappresentata come un qualsiasi periodo di discorso simultaneo in cui una persona inizia a parlare dopo che un altro parlante ha già iniziato a farlo. Secondo Hawkins, quindi, rappresentano una categoria di un gruppo di fenomeni colloquiali chiamati “sovrapposizioni di discorso”, ovvero periodi di discorso simultaneo.

Le interruzioni sono, comunque, delle sovrapposizioni di discorso interessanti in quanto esse violano le regole del turn taking in due modi: innanzitutto, prevedono periodi di discorso simultaneo tra chi interrompe e chi è interrotto (violando la regola d’oro della conversazione ossia “un parlante per volta”); inoltre, violano il diritto del parlante di completare il turno, una volta iniziato.

West e Zimmerman (1983) definiscono l’interruzione come una profonda intrusione nella struttura interna dell’enunciato” e distinguono tra interruzioni “superficiali” e “profonde”.

In termini operativi, le interruzioni “superficiali” si riferiscono a simultaneità che si verificano tra la seconda o la penultima sillaba di un tipo di unità o tra la prima e la seconda o la penultima sillaba di un tipo di unità (ovvero, le costruzioni frasali e lessicali). Le interruzioni “profonde” si riferiscono ad

incursioni iniziate più di due sillabe lontane dal confine iniziale o finale di un tipo di unità. (West & Zimmerman,1983)

Le interruzioni profonde, quindi, sono atti intenzionali volti ad interrompere chi parla impedendogli di concludere il proprio punto di vista.

Le interruzioni, poi, non sono tutte uguali. Esistono, infatti, interruzioni negative ed interruzioni positive (Bogetic, 2011; Goldberg, 1990; Graziano & Gnisci, 2011; Murata, 1994) che, rispettivamente, mirano a intrudere nel discorso del parlante e a prendere il turno oppure a sostenere quanto il parlante sta dicendo e mostrare interesse e coinvolgimento (Gnisci, Pace & Graziano, 2013).

Studi sulle differenze di genere e sul ruolo della cultura

Se ardua è la definizione di cosa sia un’interruzione, altrettanto è difficile tentare di comprendere gli effetti e le conseguenze di tale fenomeno. Gli anni ‘70 hanno visto il fiorire di numerosi studi che si sono occupati non solo di descrivere e spiegare l’interruzione stessa, ma di legarla, oltretutto, a caratteristiche di personalità, di genere e culturali; dalla fine degli anni ’80, poi, è sorto anche un filone di studi sperimentali che si è occupato di indagare gli effetti delle interruzioni su chi le ascolta e, più recentemente, anche su chi le subisce realmente all’interno di una conversazione.

Il ruolo e l’influenza delle differenze di genere nell’uso di interruzioni nella conversazione sembra essere uno degli argomenti che ha interessato maggiormente i ricercatori, pur se i vari studi hanno dato risultati talvolta diversi.

Un punto di riferimento negli studi sugli effetti di genere sono gli studi di Robin Lakoff (1973), il quale suggeriva che esistesse un vero e proprio “linguaggio della donna” caratterizzato da una preponderanza di forme quali domande tag, richieste composte e pattern intonativi interrogativi, aggettivi emotivi, intonazione crescente, ecc., diverso da quello maschile più diretto, aggressivo, competitivo, autonomo, dominante, orientato al compito e orientato in maniera referenziale. West e Zimmerman (1983) e Zimmerman e West (1975) hanno cercato di indagare le caratteristiche delle interazioni sociali tra uomini e donne. Analizzando le conversazioni tra coppie di parlanti dello stesso sesso e di sesso opposto hanno verificato che le interruzioni avvengono significativamente più spesso tra parlanti di sesso opposto e che esiste una asimmetria a vantaggio dei parlanti di sesso maschile: la quasi totalità delle interruzioni e delle sovrapposizioni provengono dal partecipante maschio. Diversi studi confermano la tendenza dei maschi ad interrompere più frequentemente rispetto alle femmine e mostrano che le femmine sono interrotte dai maschi, più di quanto i maschi non siano interrotti da femmine (Eakins & Eakins, 1978; Octigan & Niederman, 1979; Roger & Schumacher, 1983).

La questione che i maschi interrompono più delle femmine all’interno delle conversazioni, tuttavia, resta ancora controversa, non trovando conferma in tutti gli studi di letteratura. Esiste una notevole quantità di prove paradossali in letteratura: diversi ricercatori non hanno trovato alcuna differenza di genere rispetto al numero di interruzioni (Dindia, 1987; Kennedy & Camden, 1983; Trimboli & Walker, 1984). Ciò che cambia da autore ad autore sono le interpretazioni delle ragioni di questo fenomeno, quando queste differenze esistono.

L’interruzione non è sempre considerata come un comportamento aggressivo e dirompente. Quindi non c’è solo il problema se i maschi interrompono più frequentemente delle femmine, ma anche quello di valutare la natura (cooperativa o non cooperativa) delle interruzioni osservate.

Anche il contesto culturale gioca un ruolo fondamentale sia nella percezione sia negli effetti e nelle conseguenze delle interruzioni. Le norme culturali stabiliscono quando un’interruzione è percepita come tale, quali caratteristiche la rendono un intoppo, un insulto o positiva. Di conseguenza, la cultura stabilisce delle regole in base alle quali ci creiamo delle aspettative su come debba andare una conversazione e fornisce anche degli standard per interpretare alcuni comportamenti comunicativi che possono confermare o violare le nostre aspettative.

Il confronto cross-culturale che sembra aver maggiormente interessato gli studiosi è quello tra culture collettiviste e culture individualiste nell’uso delle interruzioni (Hofstede, 1980; Markus & Kitayama, 1991; Triandis et al., 1988). Questa differenza culturale sembrerebbe rispecchiarsi nella comunicazione, allorquando i collettivisti invierebbero ai propri interlocutori segnali di “solidarietà” (Tannen, 1994), mentre gli individualisti manifesterebbero segnali linguistici che rimarcano i confini individuali (Li, 1999a, 1999b). Li (2001) ha condotto uno studio il cui obiettivo primario era verificare se, ed in che termini, la cultura giocasse un ruolo nell’uso delle interruzioni nella conversazione, analizzando due culture prevalentemente diverse, Cinese e Canadese rispettivamente. Il razionale alla base delle ipotesi è che la cultura cinese è stata individuata come prettamente collettivistica, mentre quella americana come individualistica (Hofstede, 1980; Li, 2001; Markus & Kitayama, 1991). I risultati della ricerca hanno mostrato che i partecipanti cinesi davano origine più frequentemente ad interruzioni cooperative, laddove, invece, i partecipanti canadesi producevano più interruzioni intrusive (Li, 2001). Ciò sembra riflettere norme culturali e valori delle relazioni interpersonali profondamente radicate: nel caso dei collettivisti, quando sono impegnati in una conversazione, essi tendono ad interrompere per mostrare solidarietà e lealtà. In un certo senso, quindi, le interruzioni sono orientate agli altri (es., aiutare un compagno), piuttosto che per scopi personali (cogliere l’occasione per parlare). Nel caso, invece, degli individualisti, essi saranno più propensi ad interruzioni intrusive, perché in tal modo si può esprimere la propria diversità e unicità, la propria assertività, qualità molto apprezzate nelle culture individualistiche.

Per questo ed altri motivi, non si può prescindere dalla questione culturale in quanto, come afferma Hall (1959),

la cultura è comunicazione e la comunicazione è cultura. (p. 169)

Le persone comunicano a seconda di quanto dettato dalle loro culture (Crago & Eriks-Brophy, 1992; Gumperz, 1982; Hymes, 1974) e anche il fenomeno delle interruzioni non si sottrae a questa logica, pertanto può essere studiato solo attraverso il filtro della cultura in cui si verifica e grazie alla quale, di conseguenza, assume un significato specifico.

E nel contesto terapeutico?

La psicoterapia è una forma di “interazione strategica” (Goffman, 1969). Le strategie terapeutiche sono guidate dalla specificità dei partecipanti e vengono messe in atto attraverso una serie di azioni da parte del terapeuta. Tuttavia, la psicoterapia è più di un insieme di pratiche o procedure che vengono eseguite dai terapeuti; è un processo di interazione. Per essere più precisi, la psicoterapia è una “conversazione terapeutica” (Labov & Fanshel, 1977; Szasz, 1974). Sebbene l’interazione psicoterapeutica utilizzi processi conversazionali, l’attività psicoterapeutica non è riducibile all’organizzazione conversazionale.

Nel contesto di una conversazione terapeutica, il terapeuta è visto e vede se stesso come un esperto di conversazione (Anderson & Goolishian, 1988). Così mentre nello schema delle conversazioni giornaliere, la selezione dell’argomento e del parlante è relativamente non vincolata e potenzialmente distribuita in modo uniforme, nel contesto terapeutico la situazione potrebbe presentarsi in modo diverso: il controllo dei processi conversazionali e dei cambi di argomento è a favore del terapeuta.

In generale, il paziente fornisce le informazioni sulla natura del suo problema, mentre è il terapeuta a porre la maggior parte delle domande, a selezionare la maggior parte degli argomenti ed è quindi in gran parte al controllo del piano della conversazione (Stratford, 1998).

Come riporta Stratford (1998), in un tale contesto, si può vedere che le interruzioni da parte dei terapeuti mantengono la stessa funzione delle conversazioni ordinarie, cioè come un tentativo di assumere il controllo della conversazione o di cambiare parlante o argomento.

Diverse scuole di formazione suggeriscono ai terapeuti di considerare l’uso dell’interruzione come parte della loro pratica terapeutica; per esempio, O’Hanlon e Wilk (1987) identificano proprio “l’interruzione terapeutica”, mentre Hoffman (1993) e Anderson (1992) consigliano entrambi di evitarla. In questo senso, le interruzioni da parte dei terapeuti possono avere sia funzioni potenzialmente facilitative che di controllo, a seconda della prospettiva da cui viene esaminata la conversazione.

L’utilizzo delle interruzioni da parte del terapeuta può essere vissuta dai pazienti da un lato come un uso appropriato della loro esperienza, al fine di direzionare la conversazione verso uno specifico contenuto o argomento, dall’altro potrebbe indurre nei pazienti la sensazione di sentirsi arrabbiati, squalificati, non ascoltati o di poter contribuire in maniera limitata alla conversazione terapeutica (Stratford, 1998).

Il terapeuta spesso utilizza nella conversazione sovrapposizioni di discorso che non vengono vissute come interruzioni, come ad esempio l’ascolto attivo o la riformulazione, che può portare a parlare contemporaneamente senza però essere percepiti come interruttivi (Murray, 1985; West & Zimmerman, 1983), così come può non essere ritenuta un’interruzione la sovrapposizione che avviene per completare il punto di vista di chi parla, oppure l’uso di back-channels (ad es., “mmhm”, “sì, sì”, “esatto”, cenni del capo) che non risulta interruttivo, dal momento che non è finalizzato ad ottenere il turno di parola, ma segnala attenzione ed interesse, e non intende disturbare il flusso di discorso dell’altro (Brunner, 1979; Duncan & Fiske, 1977).

La psicoterapia è da considerarsi, in definitiva, una trasformazione della conversazione ordinaria in una fine e complessa impresa che richiede che i terapeuti utilizzino abilmente l’organizzazione della conversazione.

Per tale motivo, è essenziale che il terapeuta sia abile conoscitore delle regole esplicite e implicite, e relative violazioni, che governano tale strumento, e riesca pertanto ad intercettare e analizzare in seduta i possibili effetti, che diventano materiale clinico con cui lavorare con il paziente.

Utilizzare consapevolmente e intenzionalmente l’interruzione non è necessariamente da considerarsi con accezione negativa, poiché interrompere può essere percepito addirittura con finalità supportiva (ad esempio, il terapeuta interrompe per riformulare sostenendo e incoraggiando quello che il paziente sta comunicando “Quindi, se ho ben compreso, mi sta dicendo che…”), l’importante è di inserirsi con sguardo lucido nel complesso gioco dei parlanti in cui si è in prima persona coinvolti.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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