Un artista sull’orlo del fallimento, talentuoso, ma tremendamente insicuro, con trascorsi tutt’altro che lieti e un funzionamento mentale instabile, Arthur Fleck non è diventato Joker dall’oggi al domani, ma ha subìto una lenta e progressiva discesa dalla sua infanzia per esplodere nell’età adulta.
Sempre sorridente, la madre lo chiama ‘Happy’, di professione fa il clown, per Arthur ridere è qualcosa di estremamente importante perché è la strategia con cui nasconde il dolore, la rabbia, la delusione, la tristezza, tutte quelle risonanze emotive che rifiuta energicamente con l’ostinazione a sorridere e a comportarsi educatamente e gentilmente con chiunque.
Nel film il protagonista afferma di soffrire di una sindrome neurologica che lo porta a ridere incontrollatamente; in realtà sta interpretando un disturbo che, invece, sembra avere una forte connotazione psicologica. Arthur non prorompe in questa risata casualmente, ma in occasione di situazioni stressanti che innescano un disagio abilmente soppresso, una complicata trama emotiva che con il tempo ha imparato a silenziare con un ottimismo fittizio, con una felicità delirante e completamente distaccata dall’entità degli eventi. Da quella risata inconfondibile si intravede un’assenza di coerenza e di integrazione degli affetti scissi e alternati, che si notano a primo impatto dal cambiamento repentino dell’espressione facciale, una mutevolezza che lascia lo spettatore e i personaggi spaesati.
Arthur trascorre un’esistenza desolante, travolto da una trafila di disgrazie e ingiustizie, un lavoro denigrante e umiliante, una vita sociale priva di affetto e accoglienza. Arthur è potenzialmente un uomo eccezionale, bellissimo, simpatico e intelligente, ma il suo aspetto trascurato, l’aria dimessa e dinoccolata e l’impellente bisogno di ricevere attenzioni, fino a rendersi ridicolo, allontanano chiunque si presenti a pochi passi da lui.
Prova, così, con mezzi maldestri e inquietanti, a strumentalizzare la comicità per avvicinarsi agli altri, ma ottiene l’effetto contrario. Purtroppo, però, nessuno, a parte i bambini, apprezzerebbe uno sconosciuto trasandato e con i vestiti sgualciti che fa le boccacce sul pullman, e Arthur non sembra conoscere altre vie più congeniali e pertinenti per approcciare le persone, così il rifiuto e l’isolamento non facilitano la situazione, ma la aggravano progressivamente. Ed è così che ogni scortesia e indifferenza diventa un espediente aggiuntivo per fomentare la rabbia, il senso di ingiustizia, per vedere un mondo pieno di discriminazione e odio verso di sé, per rinchiudersi ancora in quella casa dove, con assoluta abnegazione, si prende cura della madre, nella convinzione che ogni sofferenza passerà sorridendo e ballando, che nessuna mancanza di rispetto getterà a terra il suo morale.
Eppure Arthur continua a soffrire, assume una trafila di psicofarmaci di cui non sente minimamente gli effetti, è stato spedito da una psicologa stanca e stufa di un sistema decadente che non elargisce il giusto aiuto a chi, come lui, non può permettersi le giuste cure. Il rifiuto e l’inganno rimbombano ed esplodono in concomitanza di due eventi critici a partire dai quali Arthur sprigiona Joker, un’identità completamente diversa da quella che aveva mostrato fino ad ora; diventa un criminale incallito, il leader degli emarginati, freddo e sprezzante, estremamente disinvolto, che danza per celebrare la distruzione e il trionfo sull’oppressione e sulla desolazione.
Da questo momento in poi Arthur esce di scena per lasciare spazio ad un altro sé, quello nutrito da tutto ciò che non ha potuto elaborare, dai vissuti scaturiti dall’inganno, dall’isolamento e dalle torture. Così nasce Joker.