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La dipendenza patologica e la comunità in cambiamento – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Dire che il mondo delle dipendenze patologiche sia cambiato, sembra una frase fine a se stessa. Il cambiamento è avvenuto tanti anni fa, ma per tutti noi..

Di Alfredo Rapanelli

Pubblicato il 29 Set. 2020

Dire che il mondo sia cambiato o che il mondo delle dipendenze patologiche sia cambiato, sembra una frase fine a se stessa. Il cambiamento che abbiamo intorno, è avvenuto tanti anni fa, non solo per i tossicodipendenti ma per tutti noi.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 1) La dipendenza patologica e la comunità in cambiamento

 

Quando mi viene chiesto da quanto sono io qui, io rispondo
‘Un secondo’ o ‘Un giorno’ o ‘Un secolo’.
Tutto dipende da che cosa io intendo per ‘qui’ e ‘io’ e ‘sono’.
(S. Beckett 1961)

 

Premessa

L’uomo seduto di fronte a me ha 56 anni e, negli ultimi quaranta tutta la sua vita è ruotata intorno all’uso di eroina ed alcol.

Assume 60 mg di Metadone, ha l’HIV e L’Epatite C.

E’ seduto di fronte a me per chiedermi di fare l’ennesimo percorso terapeutico riabilitativo in Comunità.

E’ stato in Comunità Terapeutiche Residenziali altre cinque volte e una volta in una Comunità per il Reinserimento Sociale e Lavorativo, tutti i suoi percorsi terapeutici sono falliti, li ha abbandonati e ha ricominciato a fare uso di eroina ed alcol dopo poco tempo. Ha due ex mogli e con ognuna di loro ha una figlia, non ha alcuna risorsa economica.

Con la prima ex moglie non ha più rapporti e la prima figlia lo conosce appena. Con la seconda ex moglie ha un rapporto molto conflittuale, anche lei è tossicodipendente e anche lei ha l’HIV, la figlia che hanno ha 12 anni, non ha l’HIV e lui ne ha perso la patria potestà. Quest’ultima figlia vive con la madre, in un ambiente caotico e privo di ogni supporto, non ha orari, non frequenta la scuola, esce continuamente di casa e a volte resta fuori tutta la notte senza dare notizie.

I servizi sociali del territorio in cui risiede si occupano del caso, nel tentativo di farla accogliere in una Comunità per Minorenni.

Lui non ha mai lavorato per un periodo più lungo di tre o quattro mesi, è stato in carcere per reati correlati alla tossicodipendenza, ha un diploma di terza media e non è mai stato completamente astinente dalle sostanze stupefacenti, suo padre era un alcolista e suo fratello è un eroinomane ricoverato in una Struttura per malati di HIV.

Quando si alza dalla sedia di fronte alla mia scrivania, lascia il posto ad un’altra persona.

Ha venticinque anni, fa uso di eroina, cocaina e Lormetazepam da quando ne ha 14, non si rende conto di avere problemi anche con l’alcol.

Assume 50 mg di Metadone e ha l’Epatite C.

Quando è nato sua madre era detenuta in carcere e ne è uscita quando lui aveva cinque anni, suo padre è ancora detenuto.

I genitori sono due spacciatori tossicodipendenti che hanno speso tutti i soldi che avevano.

Ha vissuto in Strutture per Minorenni e in Comunità Terapeutiche, è stato detenuto anche lui per reati di spaccio ed ora sta scontando una pena che terminerà tra due anni e mezzo. Quando non è stato recluso o in Comunità, ha avuto il tempo di fare due figli che ora hanno tre e cinque anni, mi riferisce che la madre dei suoi figli non ha problemi con le sostanze stupefacenti ma attualmente è fidanzata con un tossicodipendente.

Lui non ha mai avuto un lavoro costante e duraturo ed è andato a scuola fino alla terza media.

Mi sorride da sotto la corazza e lascia il posto ad un altro. Questo ha vent’anni, vive in strada, il Magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza mi chiede di farlo entrare rapidamente in Comunità per fargli evitare la sua prima esperienza detentiva. Fa uso di eroina da poco tempo, parla pochissimo e sono io a dover terminare le sue frasi, ha picchiato la madre ed è per questo che lei lo ha denunciato. Non ricorda quale sia stato il suo ultimo anno scolastico, non ha dimestichezza con l’igiene personale e tanto meno con la relazione umana.

Non sa in cosa possa essergli utile né in cosa consista una Comunità Terapeutica.

Non è mai stato a mangiare in un ristorante, il padre gioca con i videopoker al bar e lui lo vede raramente da quando si è costruito un’altra famiglia. I suoi genitori hanno tradotto parlare con picchiare, ma anche a loro è stato insegnato così.

Sembra un ramo in inverno, trema ma spera che non si veda.

Molte altre persone si sono sedute sulla sedia di fronte alla mia scrivania raccontando storie come queste, alcune peggiori e solo poche migliori.

Molte di queste persone sembrano arrivare da sponde diverse ma quasi tutte concludono il colloquio con me con le stesse parole: — Basta con questa vita, voglio recuperare il rapporto con i miei familiari, voglio essere una persona indipendente, voglio smettere di drogarmi, voglio ricominciare da zero, questa volta sono motivato a curarmi…

Con estrema difficoltà ascolto i loro racconti, le loro anamnesi, perché quando senti certe storie lo sconforto tende a farti distogliere l’attenzione.

Con estrema difficoltà gestisco la paura delle complessità che ho davanti ed un bagliore di umiltà mi suggerisce di riflettere prima di rispondere, di fare un esame di realtà prima di proporre qualcosa di sensato che non abbia la superbia di una soluzione.

Le persone che ho avuto di fronte non sono solamente gli eventi che mi hanno descritto, le loro vite non sono solo una sequenza di risultati in cui ora si affliggono, l’esame da fare è molto più complesso.

Quali obiettivi sono realistici, quali risorse personali sono ancora residue in ognuno di loro, cosa posso considerare miglioramento della condizione di partenza, quali sono gli schemi mentali con cui pensano, con quale società credono di dover fare i conti e con quale società faranno realmente i conti.

Come costruire una relazione con loro al fine di pianificare strategie di intervento che si fondino sulla collaborazione?

Per prima cosa devo capire come funzionano, come pensano e da quali emozioni sono dominati, è necessario studiare la prigione nei minimi dettagli prima di progettare l’evasione.

Mi dico: calma perché è complesso.

Punti di osservazione

Il punto di vista non è l’opinione ma è la posizione dalla quale si prende visione.

Sarebbe più corretto parlare di punto di osservazione, cioè di una finestra all’interno del contesto dalla quale si osserva il contesto, sia esso composto di cose e/o di persone.

Per consentirmi di raccogliere informazioni in modo adeguato ed esaustivo, il punto di osservazione deve essere realistico e neutrale.

Dire che il mondo sia cambiato o che il mondo delle dipendenze patologiche sia cambiato, sempre che ce ne sia uno e non sia lo stesso nel quale viviamo tutti, sembra anacronistico, sembra una frase fine a se stessa, è come dire che il nuoto è uno sport completo.

Il cambiamento che abbiamo intorno, o quello che zoppicando definiamo tale, è avvenuto tanti anni fa, non solo per i tossicodipendenti ma per tutti noi. Oggi ci sono i risultati di questa mutazione, i primi prodotti di un percorso che ha visto la sua alba ormai da molte notti, chi abbiamo di fronte, tossicodipendente o meno, non è in una fase di cambiamento sociale e/o valoriale ma è già qualcosa di diverso rispetto prima.

Noi che gli siamo seduti davanti siamo contemporanei? Ci siamo organizzati per far fronte a questi risultati? Ci stiamo facendo attendere? Condividiamo una strategia di promozione della salute?

Sicuramente siamo in ritardo, sicuramente siamo in conflitto, sicuramente dobbiamo ancora allearci.

Dobbiamo interrogarci, dobbiamo imparare a stare insieme nel problema senza isolarci in spavalde soluzioni, o arroccarci in presuntuosi conflitti.

Troppo spesso siamo limitati dal tentativo paradossale di inquadrare in schemi obsoleti fenomeni contemporanei, come se lo si facesse solo per un istinto di sopravvivenza personale, una pigra modalità di volgersi al cambiamento, un restare attaccati alle proprie idee solo per paura di non essere capaci di averne altre.

Il tossicodipendente è impulsivo, non tollera le frustrazioni, considera le regole come imposizioni, non è capace di gestire le attese, non sa progettare, vive di istantanee, non sa rimandare le gratificazioni, pensa che non ci sia un domani, non percepisce il reale valore del tempo, ha sempre bisogno di più soldi, è riluttante all’impegno, ha paura, non crede più a niente e a nessuno, si fida solo di chi è capace di tacere, è fatalista, cerca complici e non alleati, sente una sofferenza che non sa spiegare, si omologa, non mantiene le promesse, si assolve colpevolizzando gli altri, tende a denigrare per evitare le responsabilità che gli competono.

Tutte queste caratteristiche sono riscontrabili anche nella nostra società? Tutte o alcune di queste caratteristiche appartengono al genere umano che oggi popola questo pianeta?

Alcune (non me la sono sentita di scrivere tutte…) di queste caratteristiche appartengono anche a noi? La risposta è sì, e questo rende il nostro intervento ancora più complesso.

Gli schemi mentali, gli atteggiamenti e i comportamenti del tossicodipendente appaiono sempre più coerenti con il mondo e con la società che prevalentemente lo esclude e trovano terreno fertile nelle relazioni umane e virtuali che intercorrono tra tutte le persone.

Non si tratta di dare le colpe alla società, che tra l’altro è un’entità condizionante ma astratta, ma di individuare dove e quando un fenomeno si manifesta, rilevando gli interrogativi e le contraddizioni che lo rappresentano. Dire che la tossicodipendenza sia un problema che si interseca con il tessuto sociale è cosa più ovvia del dire nelle banane c’è il potassio, ma ora che il tessuto sociale è mutato come funziona?

Dire che la tossicodipendenza sia una patologia della relazione è ancora più ovvio, ma cosa accade ora che le modalità relazionali sono completamente mutate?

Sapevamo che l’impegno non garantiva il successo e sapevamo anche accettarlo, eravamo in grado di considerare l’attesa come parte integrante per la realizzazione di un progetto e la noia come un intercalare tra un accadimento ed un altro.

Per consolare il nostro narcisismo portavamo i risultati del nostro lavoro e non i fallimenti del nostro collega.

Avevamo meno paura di collaborare perché dovevamo fare meno attenzione ai nostri limiti, non era così letale e vergognoso mostrarli.

Prima era così, o almeno lo era di più, adesso no e non possiamo lamentarci.

Adesso dobbiamo guardare da un altro punto di osservazione.

Avevamo il tempo di anteporre la ricerca di informazioni alle teorie personali e chi ci ascoltava aveva più di 20 secondi da perdere con noi tra una distrazione ed un’altra.

Avevamo modo di centellinare i nostri segreti e i nostri ricordi, di telefonare per chiedere “Come stai?” e non “Dove stai?”, anche se avevamo opinioni su tutto non era di vitale importanza condividerle con tutti, anche con gli sconosciuti.

La scritta ultimo accesso ore 24.00 non creava una psicosi paranoide e sta scrivendo… non produceva irrefrenabili sintomi di conversione.

La relazione aveva disponibilità e non urgenza, la sincerità non era solo la mera esibizione del proprio stato emotivo e la connessione aveva a che fare con qualcosa di tattile.

Il tempo di una discussione consentiva alla spiegazione di favorire la comprensione, non c’erano i profili spiati che inducono al pregiudizio.

Prima era così, o almeno lo era di più, adesso no e non possiamo annegare in nostalgie stantie.

Adesso dobbiamo guardare da un altro punto di osservazione.

Siamo pesci nella stessa acqua e non possiamo inventarci che per noi sia più potabile, non possiamo illuderci che per noi sia meno inquinata. Forse è per questo che i tossicodipendenti non possono più vantarsi di essere pesci fuor d’acqua.

Il punto di osservazione, la finestra all’interno del contesto dalla quale noi osserviamo il contesto in cui si esprime la dipendenza patologica, deve comprendere un attento e pragmatico esame di realtà.

Se è vero come è vero che la dipendenza patologica si interseca con il tessuto sociale in cui si manifesta e che dilania le modalità relazionali del paziente, allora i valori della società attuale e i codici relazionali contemporanei non possono essere trascurati in un percorso terapeutico o di emancipazione dall’uso di droga.

Possiamo, ad esempio, considerare come il sospetto sia diventato un cardine per conoscere la realtà, come il cambiare idea sia dettato da quanto può essere vantaggioso cambiarla e non da quanto può essere vantaggiosa l’idea, come la competenza non sia un requisito fondamentale per fare un mestiere e come ascoltarsi sia troppo simile ad ascoltare.

Possiamo capire ed intervenire concretamente su un fenomeno solo facendo riferimento al contesto in cui quel fenomeno si manifesta e si esprime.

Non si tratta di inventare percorsi terapeutici all’avanguardia, quanto di considerare il nuovo condizionamento mentale prevalente come indispensabile per individuare strategie applicabili nel contesto attuale e nelle singole mentalità contemporanee dei pazienti che in esso vivono.

Non si tratta semplicemente di proporre nelle Comunità Terapeutiche percorsi trattamentali di breve durata, come se volessimo dire che se il mondo corre veloce allora anche la cura deve sbrigarsi, quanto di utilizzare il tempo della cura in modo collaborativo sia tra i servizi preposti sia con il paziente, evitando di farlo sentire in un’altra epoca, o fuori posto come sempre.

Sarebbe utile possedere un’impostazione condivisa, o almeno organizzata, per affrontare il problema sanitario e sociale delle dipendenze patologiche, integrandolo ma differenziandolo dagli aspetti legali che da esso scaturiscono.

Sarebbe utile, nell’ottica di un intervento terapeutico, evitare di assimilare il trattamento delle dipendenze patologiche con la lotta allo spaccio di droga, come se volessimo combattere l’obesità attaccando i supermercati. (La lotta allo spaccio di droga è importante e il fatto che sia difficile portarla avanti non giustifica la resa, però la cura delle dipendenze patologiche è un altro argomento).

Non possiamo limitarci a pensare che la repressione colmi il vuoto di un eroinomane, che gli arresti degli spacciatori arrestino l’uso di sostanze, che il controllo faccia luce sui nascondigli di giovani confusi (Il problema non è la droga in sé ma la droga in te).

Leggere la frase “X vende droga ad Y” genera nel lettore un’immediata reazione verso X, verso il suo comportamento criminale, produce una credenza (cioè una modalità di credere, non di ipotizzare, alla realtà) secondo la quale X è la causa della tossicodipendenza di Y.

In questo modo non si sta prendendo minimamente in considerazione Y (sarebbe differente leggere la frase “Y compra droga da X”), le motivazioni, le dinamiche sociali e relazionali, la sua storia, i significati esistenziali sottostanti, le responsabilità dei contesti che costruiamo e che emarginiamo. E’ molto più immediato (e ovviamente giusto) applicare risposte al comportamento illegale di X piuttosto che interrogarsi, impegnarsi, immergersi nella complessità della vita di Y. E’ più facile mostrare di saper eliminare X che guardare nell’abisso per recuperare Y.

Sembra di nuovo necessario ridefinire il tema delle dipendenze patologiche partendo dal significato esistenziale che la droga possiede, quanto la droga rappresenti un’accessibile soluzione alle angosce individuali.

Dobbiamo definire una mappa, anche se la mappa non è il territorio, che ci consenta di descrivere un fenomeno complesso come quello della dipendenza patologica, analizzando i comportamenti e gli scopi del tossicodipendente in un’ottica contemporanea, considerandoli all’interno dei valori e degli stimoli che il contesto sociale e relazionale impone a tutti noi.

E’ necessario riconoscere quanto gli atteggiamenti e i bisogni del tossicodipendente siano spesso conformi con gli atteggiamenti e i bisogni di oggi e di quanto il contesto sociale e relazionale li favorisca e spesso li autorizzi.

L’apprendimento di modalità comportamentali avviene in larga parte per imitazione e per modellamento (Bandura,1969) osservando i modelli o i riferimenti che si incontrano e con cui si entra in relazione, attualmente questi modelli vengono assorbiti da chi li osserva solo in base a quanto sono efficaci per il raggiungimento, per il soddisfacimento, di obiettivi specifici.

Questi obiettivi specifici sono definiti da un materialismo estremo, si tende a delegare la formazione della propria identità al possesso momentaneo di oggetti che non si scelgono.

Essi rappresentano tutto ciò che è giusto, tutto ciò che si deve avere ad ogni costo, sono tutto ciò che conta veramente nella vita, anche raggiungerli solo per un istante.

Piacere immediato, anche per pochi attimi, il massimo senza fatica, costi quel che costi, il Jackpot o niente.

E’ il passaggio dalla soddisfazione al soddisfacimento, dal desiderio al bisogno, dall’avere uno scopo al raggiungere un obiettivo: non è l’assenza di valori ma è il tentativo di tradurli in qualcosa di solamente pratico che alla fine li distrugge.

Per definizione l’idea di ciò che vogliamo essere e i valori individuali a cui cerchiamo di attenerci, non sono concretamente raggiungibili, sono qualcosa verso cui si tende, una direzione da custodire. Gli obiettivi che vogliamo ottenere, invece, rappresentano la concretezza, qualcosa che si può raggiungere e possedere.

Se quello che definiamo valore, cioè la misura delle doti morali o intellettuali che un individuo dimostra e che si impegna a mantenere, non viene più inserito nel processo attraverso il quale si tenta di raggiungere un obiettivo, allora il valore diventa l’obiettivo stesso, si trasforma nella quantità di moneta pagabile o ottenibile per qualcosa. In questo senso il valore diventa sinonimo di prezzo ed attenersi ad esso si misura in base al guadagno, per essere ampollosi potremmo dire che il valore si traduce in ciò che si ha e non in ciò che si è.

Essere coerenti con i propri valori giustifica l’impegno, o anche il sacrificio, che si produce per raggiungere uno scopo o un cambiamento personale, permette di alimentare la motivazione in assenza di gratificazioni immediate.

Inoltre, essere coerenti con i propri valori, permette di compensare l’eventuale insuccesso, gratifica la rinuncia, favorisce scelte a lungo termine perché aiuta a gestire le attese.

Questa non è una prospettiva molto diffusa nella nostra società, spesso è ritenuta un limite per il soddisfacimento dei bisogni perché non li rende immediati, a volte appare come una strategia risibile che provoca sconcerto per la mancata scelta di espedienti.

Il modo predominante di vedere il mondo si espone quindi ad una valutazione estremamente semplicistica, basata prevalentemente sul soddisfacimento immediato di voglie, secondo la quale il desiderio si sceglie in base a quanto è necessario impegnarsi per realizzarlo.

Un desiderio per il quale non si è disposti a lottare o per il quale non si è disposti a tollerare la minima frustrazione, un desiderio che può essere repentinamente sostituito da un altro perché meno impegnativo, si trasforma in appetizione, in mera preferenza, in scelta suggerita subdolamente dall’esterno e non in azione che muove dall’interno.

Il desiderio dei nostri tempi è una tensione spasmodica senza climax, l’obiettivo è mantenere la persona in un costante stato desiderante senza ricevere appagamento.

— Nel 1985 fu messa sul mercato la prima console Nintendo, era la prima volta che si poteva avere una specie di computer solo per giocare. Il mio desiderio di averla durò per circa 12 mesi quando, finalmente, la ricevetti per Natale. La tensione, il fremito che mi aveva fatto compagnia in tutta quell’attesa, raggiunse il suo apice mentre scartavo voracemente il pacco regalo e si trasformò in un piacere fisico che sentii in tutto i corpo mentre la strinsi tra le mie mani.

Non ci sarebbe stata una console migliore o più all’avanguardia per i prossimi anni, quello era il massimo che un ragazzino di 13 anni potesse avere, il massimo dell’offerta tecnologica, per questo ebbi tutto il tempo di godermela, di consumare completamente quel mio desiderio.

Il tempo per il godimento di un desiderio è importante perché ripaga dell’attesa, conclude la frenesia, la sovreccitazione e l’inquietudine che accompagnavano il precedente stato di mancanza.

Se dopo una settimana avessi visto la pubblicità della nuova Nintendo, sarei stato assalito dall’insoddisfazione per ciò che avevo già e avrei ricominciato, troppo presto, a desiderare una nuova console, sarei stato deluso sia da ciò che possedevo già sia da ciò che non possedevo ancora.

Senza quel tempo, o quando quel tempo è troppo breve, si rimarrebbe nello stato di frenesia, di sovreccitazione, di inquietudine.

Si faccia attenzione, nel desiderare qualcosa si avverte la mancanza di quella cosa, non di qualunque cosa, il desiderio si realizza mediante l’ottenimento dello specifico oggetto desiderato.

Non può essere sostituito in modo indiscriminato da un altro oggetto, seppur simile a quello desiderato, non è previsto che ci si possa accontentare.

Il bambino che desidera capricciosamente quel giocattolo non sarà disposto ad alcuna trattativa, preferirà non avere nulla piuttosto che non avere esattamente l’oggetto che desidera.

La nostra epoca ha perturbato, ridotto, il tempo del godimento, denigra il periodo refrattario relegandolo ad un’inutile momento di assenza di piacere.

La persona deve restare in una condizione desiderante perpetua, altrimenti la fase del godimento la distrarrebbe da un ulteriore consumo, la toglierebbe dal mercato per un po’, se ne starebbe, soddisfatta, ad aspettare che un altro desiderio la sorprenda.

Tutti, o la maggior parte di noi, preferiamo istintivamente tutto e subito a poco tra tanto, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali sviluppiamo la capacità di attendere, di progettare, di tollerare le delusioni intermedie. Tutti, o la maggior parte di noi, incontriamo delle naturali difficoltà nel posticipare le gratificazioni, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali apprendiamo l’utilità di rimandare un piacere immediato per uno più completo e stabile.

Tutti, o la maggior parte di noi, cerchiamo una soluzione immediata e possibilmente indolore alla sofferenza che proviamo, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali impariamo a trovare conforto in qualcuno e non solo in qualcosa.

Gradualmente riusciamo a comprendere e a modulare le nostre predisposizioni di base. Posticipare le gratificazioni, gestire le attese e accettare il dolore non sono comportamenti istintivi, ma apprendimenti con i quali ogni essere umano deve confrontarsi.

Sono inoltre alcune delle caratteristiche inserite all’interno della costellazione di sintomi che descrivono le persone con una dipendenza patologica e spesso sono le principali abilità di cui questi pazienti sono sprovvisti o deficitari.

L’esponenziale proposta di stimoli che incontriamo nel contesto impone una sempre maggiore rapidità nelle risposte, la regola sociale secondo cui, data l’incertezza sul futuro, è meglio saziarsi nell’immediato anche se in modo indiscriminato, uccide il desiderio e trova terreno fertile nella parte più ampia del nostro cervello, quella dell’area emotiva piuttosto che nell’area cognitiva.

Anche le parole con cui ci esprimiamo, con cui descriviamo o connotiamo gli eventi, devono sempre tendere ad avere il maggior impatto emotivo possibile al fine di schivare le funzioni cognitive, devono favorire una reazione e non una riflessione in chi le ascolta.

Tutto questo ha un impatto sugli schemi mentali e sui comportamenti di ogni individuo ma, nel tossicodipendente va a poggiarsi anche su un substrato neurobiologico deteriorato, amplificando le sue difficoltà ad apprendere strategie cognitive più funzionali o nuove abilità comportamentali.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bandura, A. (1969). Principles of Behavior Modification. Holt, Rinehart and Winston.
  • Beckett, S. (1971). Giorni Felici. Einaudi.
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