I cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, hanno indotto molto velocemente a erogare dei servizi psicologici online poco aderenti al codice deontologico e ai requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.
L’emergenza COVID-19 ha modificato drammaticamente molte abitudini quotidiane che avevamo ed accelerato alcuni processi che difficilmente avrebbero registrato una diffusione ed una pervasività così massiccia. Uno di questi processi è stato senza dubbio quello della digitalizzazione online di molte attività che erano già potenzialmente realizzabili anche molto prima della pandemia, ma che la necessità imposta dal distanziamento sociale fisico ha reso rapidamente auspicabili se non addirittura necessarie.
Molte di queste attività hanno registrato un incremento sbalorditivo della loro implementazione e integrazione digitale perché vi è stato un forte cambiamento della percezione relativa a queste modalità alternative alla tradizionale compresenza fisica. La spinta di questa differente percezione nei confronti del digitale è stata promossa da motivazioni economiche e/o dalla necessità di stabilire comunque un’interazione sociale non fisica.
Svolgere queste attività attraverso la tecnologia digitale web è passata molto rapidamente dall’essere generalmente percepite, prima dell’emergenza COVID-19, quali modalità si potenzialmente realizzabili, ma anche possibilmente da evitare per la combinazione di generale sfiducia sull’efficacia attribuita alle nuove tecnologie comunicative e la consapevolezza del bisogno di acquisire specifiche conoscenze e competenze necessarie per gestire tali contesti, ad essere considerate, durante il periodo di pandemia, come unica opzione possibile di interazione e di realizzazione dell’attività stesse.
Questa dinamica che ha visto la drammatica transizione generale del percepito (in meno di un mese) da un misto di scetticismo e preoccupazione ad unica (e quindi improvvisamente prioritaria) modalità di svolgimento dell’attività professionale, ha caratterizzato ad esempio qualsiasi ambito educativo e didattico così come pressoché la totalità dei servizi di supporto psicologico durante la pandemia.
Mi concentrerò ora proprio su questo contesto caratterizzato dai servizi psicologici forniti attraverso tecnologie digitali web (videochiamate, messaggistiche, email, etc.).
Ritengo questo contesto specifico paradigmatico di come i cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, abbiano indotto molto velocemente delle nuove pratiche professionali poco aderenti al codice deontologico (in questo caso degli psicologi) e dei requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.
Collaborando da anni con la dott.ssa Marlene Maheu, psicologa americana pioniera del settore della telepsicologia che dirige il gruppo di lavoro dedicato a questo argomento dell’APA (American Psychological Association), e, facendo con lei un documento che è servito per definire le attuali linee guida sulla telepsicologia americane (Agnoletti & Maheu, 2013), sono fortemente convinto che il recente fenomeno indotto dalla pandemia sulle pratiche professionali degli psicologi dovrebbe richiamare l’attenzione anche delle istituzioni non tanto per punire i comportamenti scorretti, ma per fornire soluzioni più pratiche, agevoli e sicure alla comunità di psicologi professionisti e quindi ai loro clienti/pazienti.
Il particolare fenomeno psicosociale in oggetto consiste nella sottovalutazione dei rischi legali/deontologici percepiti dai professionisti (sia nei confronti dei professionisti stessi che relativamente la loro utenza) per la specifica combinazione di questi fattori:
- motivazioni economiche;
- bassa competenza delle dinamiche digitali/tecnologiche;
- effetto psicosociale di diluizione di responsabilità e conformismo dovuto alla pubblica diffusione soprattutto nel web di pratiche non corrette (talvolta promosse anche dalle istituzioni oltre che dai singoli professionisti).
Individualmente questi specifici fattori possono già rappresentare una condizione sufficiente per innescare il fenomeno di sottovalutazione dei rischi percepiti derivanti da pratiche non conformi il proprio codice deontologico, ma in generale probabilmente tali fattori sono compresenti in varie forme all’interno della popolazione degli psicologi professionisti.
La motivazione economica è il fattore che senza dubbio caratterizza maggiormente gli psicologi liberi professionisti che, con l’introduzione delle misure di contenimento della pandemia, hanno in generale registrato un abbassamento significativo dei loro introiti (già particolarmente bassi rispetto altre categorie professionali) sia per la forte diminuzione di clienti/pazienti disposti a recarsi fisicamente da loro che per l’invito istituzionale di erogare i servizi possibilmente in modalità online per tutelare maggiormente i professionisti stessi oltre che naturalmente i loro utenti.
Il fatto di dover offrire quasi esclusivamente in modalità digitale i propri servizi ha spiazzato la maggior parte di psicologi clinici liberi professionisti che si sono trovati nella spiacevole situazione di dover/poter utilizzare unicamente questa forma tecnologica per provvedere alla sopravvivenza della propria attività economica in assenza però di un’effettiva competenza specifica (come richiesto da tempo dal proprio codice deontologico).
Relativamente il fattore della bassa competenza digitale occorre dire che particolarmente in Italia, rispetto altre nazioni, la telepsicologia ha finora (o meglio fino all’attuale pandemia) registrato una minore attenzione probabilmente per una poco solida cultura generale riguardante la digitalizzazione.
Anche in assenza di dati e riscontri statistici è assai irrealistico pensare che la popolazione di psicologi clinici, abbia acquisito le competenze di telepsicologia in un tempo così ridotto (meno di un mese) nella quasi totale assenza, tra l’altro tutt’ora riscontrabile, di specifici corsi relativi queste particolari tematiche.
A prova di ciò non esistono tuttora corsi di formazione istituzionali su questo argomento (anche quelli privati sono pochissimi) ed in genere la modalità digitale è (o è stata fino all’attuale pandemia) percepita con molto scetticismo e diffidenza dalla comunità degli psicologi clinici malgrado la decennale letteratura scientifica internazionale smentisca questi preconcetti (Commissione atti tipici, osservatorio e tutela della professione, 2017; Hilty et al., 2013; Slone et al. 2012; Turgoose et al., 2018; Varker et al., 2019).
Riguardo all’effetto di diluizione di responsabilità e l’effetto conformismo, il fatto che soprattutto nel web sia molto diffusa l’offerta di servizi psicologici online attraverso, ad esempio, piattaforme di videochiamata già molto popolari, non le rende automaticamente né rispettose del codice deontologico né del regolamento GDPR.
È sufficiente leggere con attenzione i documenti contrattuali che si sottoscrivono con le aziende che forniscono questi servizi informatici per accorgersi che il trattamento dei dati personali presenta perlomeno dubbi relativi la compatibilità sia nei confronti del codice deontologico che del GDPR.
Con molta probabilità il fatto di utilizzare piattaforme o app molto diffuse sia all’interno della popolazione generale che diffuse all’interno della comunità stessa di psicologi (istituzioni comprese) facilita i processi decisionali che tendono a sottostimare i rischi legali e deontologici derivanti dall’utilizzo di queste tecnologie.
Tutt’oggi se si incrociano le parole “videochiamata” o “videoconferenza” e “GDPR” in qualsiasi motore di ricerca compaiono pochissime aziende che offrono chiaramente l’informazione di soddisfare i criteri richiesti dal GDPR.
Va ricordato che, in caso di dubbio nel decidere se utilizzare o meno una piattaforma o app che soddisfi o meno i criteri espressi dal codice deontologico o dal GDPR, la scelta eticamente (e deontologicamente e legalmente) corretta dovrebbe essere sempre quella di non utilizzare quegli strumenti tecnologici di cui non sono chiare le implicazioni e i rischi sia per il professionista che per i clienti/pazienti.
Il principio appena descritto è anche codificato formalmente all’interno del GDPR che da una parte non tollera l’ignoranza in materia dell’uso improprio della tecnologia comunicativa utilizzata (la legge non ammette ignoranza, in latino “ignorantia legis non excusat”) e dall’altra, attraverso il principio di “accountability” (responsabilizzazione), attribuisce al titolare del trattamento dei dati la responsabilità di gestire e documentare attivamente i suoi processi decisionali in merito.
Risulta tra l’altro particolarmente interessante dal punto di vista psicologico che questa dinamica di de-responsabilizzazione sia una competenza molto conosciuta della psicologia sociale (si vedano ad esempio in merito i famosi esperimenti di Ash, di Milgram ed il principio di riprova sociale di Cialdini) quindi patrimonio di tutti gli psicologi.
In estrema sintesi è dunque fortemente auspicabile far crescere la cultura digitale, tecnologica e legale/deontologica all’interno della comunità degli psicologi (sia liberi professionisti che non) al fine di ridurre i rischi legali e risarcitori derivanti dall’uso poco professionale del trattamento dei dati dei loro assistiti.