Gli operatori sanitari che incorrono in una perdita perinatale sono impegnati a un duplice livello: devono operare professionalmente e nel contempo ne sono emotivamente coinvolti. Trovare la “giusta distanza” è un modo per non incorrere nella sindrome di burnout, non sviluppare sintomi psicopatologici e mantenere elevate le proprie prestazioni professionali.
La morte che incorre durante la gravidanza o nei primissimi giorni dopo il parto è un evento paradossale e impensabile, che può lasciare a lungo traccia di sé nelle persone che ne sono coinvolte.
Gli studi e le riflessioni cliniche si sono per lo più soffermate a indagare le ripercussioni emotive dell’evento sulla donna e sulla coppia genitoriale, mentre meno è stato scritto sui vissuti degli operatori sanitari. Eppure, il personale che si trova ad affrontare l’evento ricopre una difficile posizione: deve affrontare lo strazio dei genitori nei primi momenti che seguono l’evento, e contemporaneamente esperisce sul piano personale reazioni emotive difficili da gestire (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).
Quando vengono a contatto con una morte così assurda, gli operatori sanitari possono percepirsi inadeguati, privi degli strumenti necessari e di conoscenze approfondite, e sperimentare rabbia, sgomento, tristezza, incredulità, impotenza e colpa, come se il lutto fosse legato alla propria inadeguatezza professionale (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011). I genitori possono accusare gli operatori dell’accaduto, manifestare ostilità e agire comportamenti aggressivi, generando frustrazione, impotenza e autoaccusa.
Talvolta l’operatore sanitario tenta di proteggersi dal rischio di un eccessivo coinvolgimento emotivo e di prendere le distanze dall’evento, con diverse modalità: può mettere in atto comportamenti di evitamento nei confronti dei genitori, anestetizzarsi di fronte alle emozioni proprie e altrui, proteggersi con un linguaggio tecnico e difficilmente comprensibile, allontanarsi dal reparto temporaneamente o definitivamente (Pullen, Golden, Cacciatore, 2012).
Pochi studi approfondiscono il rischio psicopatologico per gli operatori che affrontano la morte perinatale; prevalentemente si riscontrano sintomi psicosomatici, post-traumatici, ansiosi e depressivi, e un rischio di burnout che si declina come perdita di sensibilità, depersonalizzazione, irritabilità e aumento dell’assenteismo (Ben-Ezra, Palgi, Walker, Many, Hamam-Raz, 2014).
Qualche anno fa abbiamo condotto una ricerca esplorativa sui vissuti degli operatori sanitari dei reparti di Ginecologia e Ostetricia (Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014). Ci siamo rivolte a tutti i Punti nascita della Regione Piemonte, ricevendo l’adesione di 485 soggetti (ostetriche, infermieri/e, medici e operatori socio-sanitari) appartenenti al 72% delle strutture presenti nella Regione.
La ricerca ha evidenziato il forte impatto emotivo che la perdita perinatale suscita negli operatori, i quali esprimono per lo più angoscia e tristezza, ma anche compassione e solidarietà per i genitori. Particolarmente gravosa risulta per i medici la comunicazione del decesso, mentre ostetriche e infermieri sentono il peso di proporre e di gestire l’incontro con il bambino, ma anche di essere a contatto con il dolore dei genitori e di condividere con loro i primi momenti di dolore lancinante conseguenti alla perdita. Gli psicologi, a cui dovrebbe competere l’accoglienza e l’accompagnamento emotivo, sono presenti in reparto solo negli ospedali più grandi, mentre non sono in organico nei reparti di Ostetricia e Ginecologia degli ospedali minori.
Tutto il personale del reparto sente la necessità di maggiore formazione professionale sul tema specifico, esigenza espressa soprattutto dai medici; il personale non-medico sente inoltre il bisogno di avere tempi e spazi per la condivisione in équipe e per ricevere supervisione clinica.Interessante appare che gli operatori dei reparti di maternità intervistati per lo più non presentano i sintomi di burnout.
L’Esaurimento emotivo e la depersonalizzazione – due dei tre parametri con cui si valuta il burnout attraverso il questionario più diffuso sul tema (Maslach & Jackson, 1981) – risultano ben al di sotto dei valori medi normativi, mentre il terzo parametro – la Realizzazione Professionale – risulta più elevato della media. La ricerca tuttavia evidenzia che nel personale medico e paramedico i segnali di burnout crescono all’aumentare delle esperienze di morte perinatale, in particolare al numero di interruzioni terapeutiche di gravidanza e di morti endouterine fetali.
E non è difficile comprenderne il motivo. Alcuni studi dimostrano che una buona care si compone della capacità del personale ospedaliero di riconoscere la perdita e di interagire con la coppia in modo empatico (Cacciatore, 2010). Tale compito tuttavia è emotivamente gravoso per gli operatori sanitari, impegnati a fornire pratiche cliniche adeguate e contemporaneamente permeati dalle proprie emozioni, cercando di porsi a una “giusta distanza”: non troppo vicini emotivamente, perché rischierebbero di diminuire la propria professionalità, ma nemmeno troppo distanti, perché ne risentirebbero i loro assistiti.
I risultati della nostra ricerca sono in linea con quanto sostiene la letteratura internazionale: la capacità di gestire i vissuti dolorosi connessi alle perdite perinatali che avvengono in reparto senza sviluppare la sindrome di burnout è legata alla possibilità di avere spazi di condivisione delle proprie emozioni, percorsi specifici di formazione professionale e incontri di supervisione clinica (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011; Wallbank, Robertson, 2013; Nuzum, Meaney, O’Donoghue, 2014; Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014; Gandino, Bernaudo, Di Fini, Vanni, Veglia, 2017).
La psicologia clinica può dunque adoperarsi affinché il benessere degli operatori sanitari sia la base sulla quale essi possano costruire la care necessaria ad accompagnare le donne e le coppie nei primi momenti successivi alla perdita.