expand_lessAPRI WIDGET

La storia di Nadia Murad: un simbolo di resilienza, in chiave psicoanalitica

Scampata al genocidio del popolo Yazida, Nadia Murad con grande resilienza trova la forza di raccontare quanto ha vissuto e combattere per un mondo migliore

Di Michela Mazzeo

Pubblicato il 10 Giu. 2020

La storia di Nadia Murad, giovane attivista e pacifista yazida, scampata al genocidio del popolo Yazida per mano dell’ISIS, simbolo estremo di resilienza, letta in chiave psicoanalitica.

 

Nadia Murad è una giovane donna yazida del Sinjar, nell’Iraq settentrionale, oggi diventata famosa perché ha avuto il coraggio di denunciare il genocidio terribile che il suo popolo ha vissuto a partire dal 2014, per mano dell’ISIS, e tutte le angherie brutali e disumane che ha dovuto sopportare sulla sua pelle. La pelle di una giovane ragazza di 21 anni, che nel giro di pochi attimi, si trova sradicata dalla vita tranquilla di studentessa, dal suo sogno di diventare truccatrice, dalla quotidianità nei campi, per aiutare e supportare la sua famiglia. Nadia dopo essere stata imprigionata e venduta come schiava sessuale riesce a scappare e a raggiungere Baghdad, e da lì ad arrivare in Germania, dove finalmente la sua vita può ricominciare, ma portando nel cuore e sul corpo il terrore ed il dolore della prigionia, dell’aver visto uccidere tutti gli uomini del suo villaggio, dell’aver visto tutte le sue compagne violentate e vendute come schiave di meschini e animaleschi compratori. Porta con sé il dolore della perdita di una madre, dei suoi fratelli, di sua nipote Kathrine, ma anche il rammarico di non essere riuscita a salvarli.

Nonostante ciò, Nadia oggi si batte per i diritti umani, ha parlato a Ginevra, raccontando alle Nazione Unite il terribile massacro di cui è stata testimone, la vita che tante e tanti yazedi sopravvissuti non sapevano recuperare, sparsi per il mondo e senza nessuno che gli accogliesse. Da quel novembre 2015, numerose nazioni hanno deciso di aprire le loro frontiere ai profughi yazidi, donando loro rifugio e sostegno.

Ma ciò che spesso mi chiedo, dopo aver letto ogni minimo istante della vita di Nadia da lei raccontata nella sua biografia, è come abbia fatto a rialzarsi. Come può avere la forza di raccontare la sua storia disumana e di combattere per un mondo migliore, fatto di integrazione e rispetto?

La mia risposta è nella parola resilienza, un termine che deriva dal mondo fisico e che fa riferimento alle capacità di un materiale di subire una certa forza senza rompersi. Esso è stato poi traslato nel mondo psicologico, a indicare la capacità di una persona di affrontare e superare un evento traumatico, un periodo di estrema difficoltà, riuscendo a riorganizzare la propria esistenza, in maniera attiva e dinamica.

Ma la resilienza da dove nasce? Cosa ha fatto sì che Nadia Murad ne fosse dotata?

Innanzitutto, potremmo credere che la forza e il coraggio di Nadia siano derivabili dall’interiorizzazione di un buon “oggetto Sé”, detto in termini Kohutiani, l’interiorizzazione di oggetti che abbiano soddisfatto il bisogno di specularità e di idealizzazione del bambino, che gli abbiano permesso di sviluppare talenti e potenzialità .Questi oggetti di cui parla lo psicanalista austriaco Heinz Kohut negli anni ’70 del secolo scorso, non sono altro che il frutto delle relazioni tra genitore e bambino che hanno permesso a quest’utltimo di crearsi un’identità, una stima di sé e la capacità di istaurare le relazioni.

Sicuramente, dalla storia di Nadia, si evince il ruolo di rispecchiamento svolto dai genitori ed in particolare dalla madre Shami. Ella è per Nadia l’emblema della forza e del coraggio, poiché nonostante la povertà e l’abbandono del marito, ha cercato in tutti i modi di far sì che i suoi figli fossero “sazi e ottimisti” (citazione direttamente dalla biografia) con grande dignità e spirito di sacrificio.

Nadia racconta nella sua biografia anche le attenzioni ricevute dalla madre, la loro sintonizzazione, fatta di sguardi e sorrisi, che confermano un probabile attaccamento sicuro con lei: l’attaccamento, introdotto dallo psicanalista inglese John Bowlby negli anni ‘50, non solo permette di ricevere le cure fondamentali per la sopravvivenza e la crescita, ma conferisce la capacità di istaurare e mantenere le relazioni solide e sane, fatte di reciprocità, comunicazione e fiducia; un buon attaccamento è anche quello che, in momenti di grandi crisi, permette all’individuo di restare in vita e di non abbandonarsi alla morte, proprio come Nadia ha fatto quando era in mano ad i suoi aguzzini ed è riuscita ad avere la forza di scappare.

La capacità di aggrapparsi alla vita che Nadia ha avuto ricalca la presenza di un “buon oggetto interno”, in termini kleiniani. Melanie Klein, anche lei psicoanalista austriaca, operante negli anni ’30, parla, infatti, di Seno Buono e Seno Cattivo, in relazione al primo trimestre di vita del bambino, in cui lo stesso, in posizione schizo-paranoide, percepisce il seno della madre in maniera ambivalente (buono e cattivo al contempo), e non riesce a comprendere che appartengono alla madre stessa.

Solo successivamente, in quelle che la psicanalista chiama “fase depressiva” il bambino riesce a comprendere l’appartenenza alla madre del seno buono e del seno cattivo e provare sensi di colpa. Questo complesso sistema permette al bambino di creare una visione del mondo fatta di relazioni oggettuali e fantasie ad esse relegate.

Infine, si potrebbe affermare che in Nadia Murad il principio di Eros, quello vitale che spinge all’amore e al piacere, in tutte le sue forme compreso il piacere spirituale, è forse più forte del principio mortifero del Thanatos, descritto da Freud, e permette a milioni di persone, proprio come lei, testimone di genocidio o di stragi, di lottare perché ciò non avvenga più e di continuare a confidare nel bene dell’umano e dell’uomo. Anche il credere nella bontà di un Dio supremo, guidato dal principio del Bene, non fa che conferire coraggio agli scoraggiati e forza ai vinti.

Si parla di:
Categorie
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Candelori C., (2013). Il primo colloquio. Bologna, il Mulino.
  • Freud S., (1920). Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri.
  • Murad N., (2017). L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’ISIS. Mondadori.
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Kintsugi: l'antica arte giapponese come metafora di resilienza - Psicologia
Kintsugi: l’arte di riparare le ferite

Resilienza e kintsugi: con l'antica arte giapponese si ripara un oggetto rotto, riconoscendone il valore. Allo stesso modo possiamo curare le nostre ferite

ARTICOLI CORRELATI
Come rafforzare la resilienza dei bambini?

Quali sono le strategie più efficaci per aiutare i bambini a rafforzare la loro resilienza? Cosa possono fare i genitori per supportarli?

Il benessere al centro della psicologia positiva

Esploriamo i fondamenti della Psicologia Positiva le sue applicazioni per promuovere il benessere, l'ottimismo e la crescita personale

WordPress Ads
cancel