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Intervista ad Anna Porta, psicoterapeuta sistemico-relazionale che lavora presso l’Hospice della LILT di Biella

La dott.ssa Porta racconta come in Hospice il compito sia quello di accompagnare le persone nel cambiamento e aiutare ad affrontare gli irrisolti

Di Edoardo Perini

Pubblicato il 17 Giu. 2020

Lavorando in Hospice lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe

 

Anna Porta è psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia sistemico-relazionale presso l’EIST di Milano. Dal 2005 lavora presso l’Hospice della LILT di Biella e dal 2008 è parte del Gruppo “Geode”, gruppo di ricerca in cure palliative. Dal 2014 al 2019 ha fatto parte di gruppi di ricerca monoprofessionali per la SICP (Società Italiana di Cure Palliative), finalizzati alla individuazione degli interventi di supporto alle équipe in cure palliative e alla ricerca delle buone pratiche psicologiche in cure palliative. Dal 2019 è coordinatrice del gruppo di lavoro sulle cure palliative presso l’Ordine Psicologi del Piemonte in collaborazione e la SICP Piemonte.

Edoardo Perini (E): Anna, lavori in HOSPICE da 15 anni, abbinando alla clinica anche la ricerca, che svolgi in collaborazione con altri colleghi sistemici, che, come te, si sono formati all’EIST, di Milano.

Anna Porta (A): E’ dal 2008 che io e Federica Azzetta ci occupiamo di ricerca sulla psicologia nelle cure palliative. Questa attività ha avuto origine dall’iniziativa di Federica di connettere i colleghi che lavoravano nel settore, dando vita al gruppo “Geode”. La figura dello psicologo delle cure palliative non era ben delineata, per questo ci interessammo ad approfondire il suo operato in un contesto multidisciplinare dove il sistema è la base di partenza. Un sistema che incontra altri sistemi, ed essendo noi sistemiche non potevamo che rimanere affascinate.

E: Ci puoi descrivere cos’è un Hospice e quali sono le mansioni e le specificità degli psicologi che lavorano in questa realtà?

A: L’Hospice è una struttura residenziale per malati terminali. Nasce in Inghilterra ed ha una storia abbastanza antica ma anche profondamente recente: inizialmente indirizzato alle patologie oncologiche, l’Hospice è andato progressivamente comprendendo un’altra patologia che all’epoca portava a terminalità, ovvero l’AIDS, per poi successivamente aprirsi alla cronicità complessa, nella quale rientrano malattie cardio-vascolari, malattie nefrologiche, le demenze, ecc.. Dunque lo spettro si sta ampliando.

L’équipe di cure palliative ha trovato una sua precisa definizione e composizione nella Legge 38 del 2010: essa comprende il medico, l’infermiere, l’operatore socio-sanitario e lo psicologo. Possono poi essere presenti anche un fisioterapista o altre figure a seconda delle necessità della singola situazione, in quanto l’obiettivo delle cure palliative è andare incontro al paziente e alle sue esigenze per migliorarne la qualità di vita.

Lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe (mantenendo con essa uno strettissimo coordinamento). Ciò perché la Legge 38 stabilisce che al centro dell’intervento ci sia non solo il paziente ma anche la famiglia.

E: Veniamo ora alle domande più specifiche che riguardano questo periodo, nel quale la pandemia del coronavirus coinvolge tutte le realtà. Quale eco ritieni che stia avendo il coronavirus presso la struttura nella quale lavori?

A: Vi sono stati sicuramente dei cambiamenti significativi, anche se l’Hospice non è dedicato ai pazienti affetti da coronavirus, in quanto le strutture preposte al trattamento di questa patologia hanno caratteristiche specifiche e richiedono presidi sanitari che l’Hospice non può offrire.

Per entrare presso la nostra struttura in questo momento, gli ospiti devono aver prima fatto il tampone, tuttavia sappiamo dagli organi di stampa che questo strumento non possiede una validità del 100%; ciò comporta che i nostri ospiti possano vivere il timore di contrarre il coronavirus, oltre alla patologia dalla quale sono già affetti. È risaputo che gli individui con una precedente patologia sono più a rischio di altri nel caso contraggano il virus, quindi è comprensibile che gli ospiti possano preoccuparsi: pur essendo in una fase terminale, essi sperano di potersi godere appieno i giorni della propria vita fino alla fine.

Va detto poi che ci sono alcuni pazienti che non desiderano ricevere informazioni relative al proprio stato di salute e delegano ad altri la gestione di queste informazioni; per questi pazienti la consapevolezza dei rischi connessi al coronavirus è diventata un’ulteriore fonte di angoscia e preoccupazione, la quale coinvolge naturalmente anche i familiari. A proposito di quest’ultimi, l’Hospice è da sempre una struttura aperta, senza orari o vincoli specifici, nella quale i parenti possono accedere liberamente per poter accompagnare i loro cari nel percorso di terminalità. Naturalmente, in presenza del coronavirus, per tutelare i malati, i familiari e gli stessi operatori, abbiamo dovuto adeguarci alle vigenti norme di sicurezza, cambiando il nostro modus operandi: ciò nonostante, abbiamo mantenuto la possibilità dell’accesso di un familiare al giorno per ogni ospite, permettendo di restare accanto al proprio caro per tutto il tempo desiderato, in modo da potergli stare vicino nei suoi ultimi momenti di vita. Sentiamo di tante storie di malati di coronavirus che muoiono in solitudine e l’assenza di contatto è straziante, sia per chi viene a mancare, che non può salutare i propri cari, sia per i familiari, che in questo modo non possono essere accompagnati in un percorso di elaborazione del tempo del lutto nella sua fase anticipatoria. Ciò a livello prognostico non è positivo.

E: Un primo elemento che emerge dalle tue riflessioni riguarda l’importanza per l’Hospice di mantenere una propria flessibilità anche in una situazione come questa. Ora vorrei chiederti come stanno vivendo questa situazione gli operatori, i medici e gli infermieri che collaborano con te. Come stanno affrontando il paradosso di essere curanti ma allo stesso tempo anche potenziali veicoli del virus?

A: Con consapevolezza: gli operatori non soltanto possono portare il virus, ma possono anche prenderlo. Il senso di responsabilità e il grande spirito di gruppo dimostrato dai miei colleghi dell’Hospice della LILT di Biella, hanno permesso di non cambiare la qualità del servizio, anche se non è semplice: noi abbiamo solo delle protezioni base previste dalle linee guida, con tutti i rischi annessi e connessi.

Anche la mancanza di contatto fisico può tramutarsi in un problema. Quando la parola viene meno, la comunicazione con i familiari passa attraverso una carezza, una mano appoggiata sulla spalla: la pandemia fa venire a mancare questa comunicazione naturale, spontanea e fondamentale, tanto che a volte ci si trova a doversi frenare per non ritrovarsi in un abbraccio.

Un elogio va ai nostri infermieri, che in alcuni casi non frequentano neanche i familiari per ridurre i rischi di contagio. Può essere un’esperienza complicata e la paura è comune a tutti in questo periodo, nonostante il desiderio di mantenere un servizio di alta qualità. Come sempre, sono molto importanti i momenti di équipe nei quali si può parlare delle proprie paure: in questi frangenti si comprende appieno il senso della presenza dello psicologo all’interno della squadra. La morte è un’esperienza difficile e a volte è importante rielaborare i vissuti insieme a qualcuno per trovare “la via giusta”.

E: Veniamo ora alla parte relativa alla clinica psicologica. Come ti stai occupando dei pazienti terminali e dei loro familiari in questa situazione? E come stanno reagendo i pazienti e le loro famiglie al coronavirus?

A: Io non ho cambiato più di tanto il mio modo di lavorare, a parte il fatto che uso la mascherina. Non ho infatti alterato la mia presenza in struttura, in accordo con il presidente della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Biella, l’ente che si occupa dell’Hospice di Biella.

Ciò che faccio è valutare insieme all’equipe, al paziente e ai familiari i bisogni rilevati. Facendo un esempio, stamattina quando sono arrivata in struttura, la dottoressa mi ha riferito di una paziente che voleva parlarmi perché aveva chiesto di tornare a casa, anche se era molto titubante ed ambivalente: abbiamo lavorato insieme sul significato di quanto mi raccontava rispetto al suo desiderio di tornare a casa. Mi ha descritto, associati alla casa nella quale voleva tornare, bellissimi ricordi della sua giovinezza, momenti molto vitali ma anche ricordi del marito con cui ha vissuto per molti anni e che è venuto a mancare. Abbiamo parlato di quanto difficile fosse fare i conti con l’assenza del marito, perché stare in Hospice le permetteva di non prenderne contatto con la quotidianità e di quanto invece l’ipotesi di tornare a casa muovesse in lei tutto quel dolore con cui non aveva ancora fatto i conti; abbiamo quindi ragionato insieme e le ho restituito dei significati relativi proprio al tema delle cure palliative e alla terminalità della vita.

Noi psicologi e psicoterapeuti spesso abbiamo a che fare con situazioni stagnanti, dove riuscire a smuovere dei cambiamenti può essere complicato; in una situazione di terminalità i cambiamenti sono invece inevitabili, quindi il compito è quello di accompagnare le persone nel cambiamento, evitando che si creino delle empasse, e aiutando le persone ad affrontare degli irrisolti.

E: Ciò che dici coglie secondo me un punto molto significativo: la realtà totalizzante del coronavirus sembra entrare relativamente nelle storie di vita dei pazienti che attraversano un momento così cruciale come quello di cui ci parli. La loro storia, che affrontano in modo così vitale, supera le difficoltà contingenti con cui tutti noi viviamo l’attuale quotidianità.

A: Certo. In queste situazioni la malattia è venuta prima ed è quella che porta alla morte, mentre per quanto riguarda il coronavirus potrebbe essere qualcosa in più che si va a declinare all’interno della storia di ognuno, assumendo forme differenti e significati differenti, dipendenti dalla propria storia di vita.

E: Passerei all’ultima domanda: rispetto alla tua esperienza professionale con il tema della morte, cosa ti sentiresti di suggerire agli operatori, penso ad esempio a coloro che lavorano attualmente nei reparti di pneumologia? Che suggerimenti daresti a chi si trova a fare i conti con la morte in questo periodo?

A: Mi sentirei superba a dare suggerimenti a loro, tuttavia è vero che coloro che lavorano in reparti in cui si fanno terapie attive spesso non hanno a che fare con la cura palliativa: il coronavirus, così come tutte le altre malattie che possono portare alla morte, suscita negli operatori un grande senso di impotenza rispetto alla malattia. Io sono una fervente sostenitrice del fatto che il modello formativo delle cure palliative debba diventare paradigmatico in tutti i reparti che hanno in cura dei pazienti, non necessariamente terminali. In particolare per l’operatore avere una competenza dal punto di vista della comunicazione, punto cardine della legge 219/17, e in particolar maniera della “comunicazione delle cattive notizie” è protettivo: la comunicazione rende l’operatore più “forte” e una formazione nell’ambito delle cure palliative aumenta la consapevolezza del clinico circa il fatto che la persona che si ha di fronte può morire, e che questo non è indice di incompetenza, bensì del normale fluire della vita. In diversi studi studi specifici a riguardo, è percezione diffusa tra i tecnici, emerge che il tasso di burnout tra gli operatori delle cure palliative è sensibilmente inferiore rispetto a quello degli operatori che lavorano in altri reparti. Riflettendo sulle differenze che ci sono con le altre équipe che operano in situazioni pur sempre complicate, due sono le differenze che emergono: una formazione specifica degli operatori sulle tematiche delle cure palliative e la presenza di uno psicologo integrato nell’équipe e che ne conosce bene le dinamiche.

Un imperdonabile vulnus delle università è la mancanza di una formazione specifica rispetto alla comunicazione e alle tematiche specifiche delle cure palliative. La nostra società, la SICP, in collaborazione con la FCP (Federazione Cure Palliative) sta portando avanti una battaglia importante legata anche alla Legge 38 e alle sue evoluzioni, per fare in modo che esistano all’interno delle università dei moduli formativi sulle cure palliative, nello specifico in tutte le facoltà che formano alle professioni di aiuto, quindi psicologia, medicina, scienze infermieristiche etc…. la legge Gelli ha dato un ulteriore impulso positivo in questo senso.

 

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