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Tra ottimismo e pessimismo in pandemia

L’uomo fallisce facilmente nella stima di probabilità e non è abile a percepire il rischio per quello che realmente è; ciò si nota ora nell'emergenza Covid

Di Chiara Del Giudice

Pubblicato il 01 Giu. 2020

Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria mentre un esempio di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi. Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza Covid.

 

Riprendere la propria vita quotidiana in periodo di pandemia induce le persone a porsi diversi quesiti, primo tra tutti “Che rischio ho di essere contagiato?”

A questo interrogativo, ognuno cerca di rispondere affidandosi a diverse fonti, alcune delle quali esterne ed oggettive, altre personali e talvolta fallaci.

Le risposte che ci diamo finiscono inevitabilmente per collocarsi in un continuum che va da un estremo all’altro, tra un ottimismo irrealistico (“è impossibile che io mi ammali”) ad un pessimismo difensivo (“se esco, è molto facile che contragga il virus”). Così, molti apparentemente spavaldi sembrano non temere affatto il contagio, mentre altri eccessivamente spaventati non approfittano di piccole libertà anche quando queste sono concesse. Ma nessuna delle due alternative sembra vincente.

L’ottimismo irrealistico, infatti, è “un errore di giudizio che produce una sottostima del rischio che si corre personalmente rispetto ad una generica persona media” (Weinstein, 1980). E’ facile immaginare quanto siano pericolosi gli effetti che ne possono conseguire: infatti, la tendenza a pensare di essere immuni ad eventi dannosi produce un aumento dell’assunzione di rischio e così della vulnerabilità dell’individuo (Perloff, 1987). Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria. In effetti, non sembra essere molto diverso chi non indossa la cintura di sicurezza perchè pensa di saper guidare bene o da chi fuma smisuratamente perchè finora non ha mai avuto problemi ai polmoni. Detto ciò, un ottimismo fondato su basi di realismo produrrà sicuramente effetti più positivi come la promozione di autoefficacia, salute fisica e benessere (Segerstrom, 2001) e renderà anche meno vulnerabili a possibili rischi sottostimati.

L’estremo opposto all’ottimismo irrealistico è il pessimismo difensivo (Norem, 2001). Questo consiste in una strategia cognitiva attraverso cui l’individuo si prospetta possibili esiti negativi ed in virtù di questi si prepara ad agire preventivamente. In questo senso, il pessimismo assume un valore più adattivo limitando l’esposizione ai pericoli e favorendo la regolazione di stati affettivi come l’ansia. Tuttavia, essere preparati sempre al peggio potrebbe far sovrastimare il rischio, impedire di guardare alla realtà con obiettività e neutralizzare la possibilità di vivere serenamente laddove non ci sia pericolo imminente. In questo caso, un esempio calzante di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi anche quando i supermercati non minacciano di chiudere.

Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza sanitaria. L’ideale sarebbe, infatti, riuscire a compiere una valutazione oggettiva dei rischi e sulla base di questa regolare al meglio il proprio comportamento.

Tuttavia, gli studi dicono che l’uomo fallisce facilmente nella stima delle probabilità e non è abile a percepire il rischio per quello che realmente è. Questa potrebbe sembrare una contraddizione in un’epoca in cui il calcolo delle probabilità diventa sempre più esatto, ma bisogna fare i conti con alcune trappole della mente in cui l’uomo cade inevitabilmente.

Come è possibile? Immaginate che questo riceva durante una giornata una quantità di informazioni smisurata (anche incoerenti tra loro) riguardo il Covid-19 e la sua possibilità di contagio. Ognuna di queste viene vagliata, modificata ed inserita in un’idea generale che sia il più possibile coerente. In questo processo, si forma una propria chiave di lettura dell’evento. Questa determina la selezione e la modifica delle informazioni in entrata, facilita il persistere di convinzioni personali anche senza fondamento empirico (“persistenza della credenza”) e la ricerca di prove stentate a supporto della propria ipotesi (bias di conferma), provoca il fenomeno dell’overconfidence (tendenza ad essere più sicuri che corretti nel sovrastimare l’esattezza delle convinzioni personali) causando così ripetuti errori nella valutazione.

Inoltre, l’individuo si affida anche alle euristiche, scorciatoie di pensiero che favoriscono l’emissione di giudizi rapidi ed efficienti. Queste sono guide intuitive che, se da un lato facilitano il lavoro della nostra mente occupata, dall’altro non sempre sono esatte. In particolare, nel caso della valutazione del rischio, l’euristica della disponibilità sembra essere particolarmente coinvolta. Essa consiste in una stima delle probabilità che un determinato evento futuro ha di accadere sulla base della disponibilità in memoria di eventi attinenti. Dunque, un errore a cui l’euristica della disponibilità potrebbe condurci è quello di presupporre una scarsa probabilità di contagio solo perché non si conosce nessun soggetto che ha contratto il virus.

Ad influenzare la percezione del rischio, sono anche altri fattori come la familiarità con il pericolo, l’accettabilità del rischio, il grado di incertezza che questo implica, la percezione di controllo sull’evento, la gravità delle conseguenze, le possibilità di rimedio, ecc. (Slovic, 1987). Questi processi cognitivi sono accompagnati anche da componenti emotive, non meno importanti ed altrettanto influenti. E’ quindi solo considerando la totalità dei costrutti coinvolti che si può comprendere l’origine della discrepanza tra la valutazione oggettiva del rischio e la percezione soggettiva (Slovic, 2001).

Guardando a questo errore nel funzionamento dell’uomo, viene da chiedersi come abbia fatto a sopravvivere ai tanti ed imminenti pericoli che l’era primitiva comportava se oggi non è in grado di compiere una valutazione oggettiva del rischio, nonostante la presenza dei dati statistici.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Norem, J. K. (2001). Defensive pessimism, optimism, and pessimism. In E. C. Chang (Ed.), Optimism & pessimism: Implications for theory, research, and practice (p. 77–100).
  • Perloff, L. S. (1987). Social comparison and illusions of invulnerability to negative life events. In Coping with negative life events (pp. 217-242). Springer, Boston, MA.
  • Segerstrom, S. C. (2001). Optimism and attentional bias for negative and positive stimuli. Personality and Social Psychology Bulletin, 27(10), 1334-1343.
  • Slovic, P. (1987) Perception of risk. Science, 236, 280-285.
  • Slovic, P. (2001). The Perception of Risk. London, UK: Earthscan Publications Ltd.
  • Weinstein, N.D. (1980). Unrealistic optimism about future life events. Journal of Personality and Social Psychology, 39, 806-820.
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