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Cosa può cambiare nella vita del medico e di ogni operatore sanitario in una situazione di pandemia come quella attuale per COVID-19?

Quali sono i cambiamenti a cui stanno andando incontro i medici e il personale sanitario in genere in seguito alla pandemia da Covid-19?

Di Paolo Pellegrino

Pubblicato il 07 Mag. 2020

Il Dr. Paolo Pellegrino, medico specializzato in anestesia e rianimazione, psicoterapeuta e docente di psicologia, in questo video risponde alle domande del giornalista Romano Tripodi nel corso dell’intervista realizzata dall’Associazione Medicina e Frontiere, fondata dal prof. Michele Guarino. Durante l’intervista, il dott. Pellegrino, spiega come la pandemia stia avendo degli effetti psicologici non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su medici e operatori sanitari in generale, implicando alcuni cambiamenti (Ndr).

 

 Certamente la situazione che stiamo vivendo da quasi due mesi, ormai lo dicono tutti, sta inevitabilmente cambiando molti aspetti della nostra vita, della nostra esistenza. Ogni cambiamento significativo porta con sé cambiamenti nel modo di vedere e pensare noi stessi, di vedere il mondo e gli altri, cambiamenti nel nostro modo di sentire e di vivere la realtà, cambiamenti nei nostri comportamenti personali e sociali. E giustamente può valer la pena chiedersi: ci sono e quali possono essere questi cambiamenti a cui può andare incontro e probabilmente a cui sta andando incontro il medico e il personale sanitario in genere?

Mi azzardo a fare qualche riflessione in questo senso dato che nel mio percorso professionale ho conosciuto e vissuto gli aspetti impegnativi e drammatici di una terapia intensiva. Successivamente, dopo la specializzazione in psicoterapia, ho iniziato ad occuparmi, ormai da anni, di indagare, studiare e valutare gli effetti e le reazioni psicologiche di fronte a situazioni difficili o problematiche che la persona umana si può trovare a vivere.

E quindi cosa sta mutando? In primo luogo direi l’immagine di sé, a cui inevitabilmente e necessariamente fa riscontro un cambiamento nella percezione dell’altro e nel vissuto relazionale con l’altro. Questi mutamenti io direi che possono riguardare tre aspetti: la propria salute, la propria bontà, il proprio potere.

Riguardo alla propria salute, sottolineerei che il prendersi cura di persone malate o bisognose può significare postulare la propria salute o la propria sufficienza. Io posso curare perché sono sano. Proprio perché sono sano e ho le sufficienti difese dalle malattie, in particolare della malattia che sto curando, e so come affrontarla, mi percepisco e costruisco la mia capacità e possibilità di curare l’altro, il malato.

In questa linea l’assistere una persona bisognosa può offuscare la consapevolezza del proprio bisogno o del rischio a cui si va incontro. Forse molti nostri colleghi, all’inizio di questa drammatica pandemia, non hanno avuto modo di realizzare il proprio bisogno di autoprotezione. E il curare la salute degli altri, in questo caso, ha comportato la compromissione della propria salute (e in ogni caso rimane sempre il rischio di poterla compromettere). Ecco allora che in questa situazione la malattia dell’altro non postula più la mia salute, ma piuttosto la inficia, la mette a rischio: sottolinea quanto anche io, medico, infermiere, psicologo,… non sono immune dalla malattia, ma posso essere vulnerabile, fragile e debole.

Riguardo al secondo aspetto, la bontà, direi che l’essere e sentirsi benefattore o salvatore può contribuire a garantire una buona immagine di sé, come una persona buona, che sa essere accogliente, comprensivo, sa abbracciare e sostenere. In una situazione di pandemia come l’attuale, il malato, che è fonte di possibile contagio e quindi di malattia, diventa un nemico, una minaccia, diventa l’untore da cui bisogna tenersi lontano. In questo caso la mia bontà, la mia comprensione e accoglienza possono sbiadire; invece di sentirmi buono e accogliente mi posso sentire teso, ostile, oppure freddo, distante, o persino cinico: il paziente è guardato con sospetto, bisogna mantenere le distanze da lui! E potrei arrivare anche a provare sentimenti di rabbia verso di lui perché mi fa sentire cattivo, perché in qualche modo sta mettendo in crisi la mia bontà, l’immagine di me come buono e accogliente. In altre parole, la difficoltà o l’impossibilità di aiutare (perché mi devo tenere a debita distanza, perché non posso o non riesco ad avere tutte quelle accortezze e delicatezze e affettuosità che magari sono solito avere verso un paziente) facilita l’insorgenza del dubbio sulla mia bontà ed io posso arrivare addirittura a percepirmi come cinico o persino malvagio.

L’ultimo aspetto, il proprio potere. In generale il medico, o chiunque svolge una professione di care-giving, si può proporre come padre onnipotente, che è in grado di risolvere più o meno tutto e quindi in grado di avere un certo potere sulla malattia e sullo stato psicofisico del malato. Ma l’incontro con una patologia per la quale non è facile avere una terapia adeguata, con una malattia che pertanto non è facilmente risolvibile, attacca l’immagine del potente salvatore, generando nel professionista sentimenti d’impotenza e di depressione: la scoperta della propria impotenza può far vivere come insopportabile o persecutoria la malattia del paziente!

In sintesi mi sentirei di dire che questa pandemia sta avendo degli effetti non solo clinici ma anche psicologici, e non solo su chi è stato colpito dal virus, ma anche su chi si prende cura di chi ne è affetto. Da una parte, quindi, ritengo che tutto ciò possa aiutare noi medici, e tutti gli operatori sanitari, a un’utile e forse opportuno ridimensionamento della visione idealizzata della nostra professione. Dall’altra mi sembra importante essere consapevoli del fatto che ci possono essere dei cambiamenti nella percezione dell’immagine di sé, dell’altro, della propria professione e del proprio ruolo.

Pertanto un’adeguata riflessione e consapevolezza sui cambiamenti che questa pandemia sta generando, penso possa aiutarci certamente a ridimensionare la tendenza a una visione idealizzata di sé, ma al contempo può metterci in guardia, proteggerci e preservarci da sensazioni di profonda frustrazione che potrebbero aprire le porte a fenomeni più seri e drammatici quali quelli del burnout.

 

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE:

 

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