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Non di solo pane vive l’uomo: una riflessione amara sulle conseguenze emotive della quarantena

Le libertà fondamentali garantite dalla costituzione sono state sospese a causa del coronavirus e questa quarantena ha avuto importanti ripercussioni

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 07 Mag. 2020

Il presente contributo è stato scritto prima che iniziasse la Fase 2 dell’emergenza

Mia figlia abita a Baggio. Da un mese non posso vederla. La legge è inflessibile. I virologi, che ogni giorno ci arringano dai media reali e virtuali non hanno dubbi: in questo periodo di diffusione del coronavirus ogni contatto umano è pericoloso.

 

Non voglio certo fare polemiche. Ho qualche dubbio che un tipico virus respiratorio possa essere controllato con le classiche misura della quarantena e della ricerca e dell’isolamento dei contatti. Non sono comunque un igienista e mi rimetto come ogni cittadino all’indicazione degli esperti. Del resto, come diceva Socrate, è nostro dovere obbedire sempre alle leggi (Platone, Critone).

Nel disperato tentativo di rallentare la marcia del virus le autorità hanno adottato misure di profilassi senza precedenti nella storia recente del nostro paese. Le libertà fondamentali garantite dalla costituzione sono state rapidamente sospese: libertà di movimento, libertà religiosa, libertà di manifestazione, libertà di riunione e di svolgere attività politica. Le elezioni sono rinviate sine die.

Questi provvedimenti davvero draconiani sono stati salutati con uno straordinario consenso, anzi sono stati in qualche modo invocati dai media e da vastissimi strati dell’opinione pubblica. Le trasgressioni sono relativamente infrequenti. Non si è manifestata alcuna forma di opposizione organizzata. Anzi in taluni casi le forze dell’ordine sono dovute intervenire per impedire improvvisati pogrom di cittadini ipoteticamente infetti da parte della maggioranza benpensante. Dobbiamo concludere che le attuali restrizioni della libertà personale rappresentano ed in qualche modo esprimono sentimenti ampiamente diffusi nella nostra società.

La formulazione delle misure restrittive viene presentata ai cittadini come espressione di asettici dati scientifici. In realtà le diverse strategie adottate nei vari paesi dell’unione europea dimostrano che la selezione delle misure di profilassi implica delle scelte. La società, la politica sono state chiamate a stabilire delle priorità, a identificare ciò che è veramente vitale per l’uomo contemporaneo. Questa gerarchia, squisitamente etica e politica, ha governato i tempi dei divieti e presto governerà le priorità nella progressiva liberalizzazione di attività e stili di vita, che seguirà inevitabilmente all’emergenza.

L’epidemia da coronavirus rappresenta quindi un test proiettivo molto potente. Ci informa sulla contemporaneità più che ogni inchiesta di popolazione o studio sociologico.

Al centro troviamo, anzitutto, la vita fisica, e non poteva che essere così. Le attività sanitarie sono state autorizzate tout court. Forze dell’ordine, protezione civile ed esercito svolgono quasi esclusivamente la funzione di garantire il rispetto delle misure profilattiche. La lotta contro l’epidemia non può fare a meno di loro. Viene poi evidentemente il settore alimentare. Il cibo è necessario alla sopravvivenza.

Ma oltre il corpo? La cultura, la religione, la politica? Soprattutto quale spazio dare alle forze motivazionali che legano gli umani gli uni agli altri?

Il governo, ma direi gli italiani, non hanno avuto dubbi. Le emozioni, gli affetti non hanno una realtà materiale. Anzi, nella prospettiva di un rigido riduzionismo materialista, non esistono affatto. Con coerenza il governo ha interrotto senza la minima esitazione qualsiasi visita agli ospiti degli istituti penitenziari. Ne è scaturita una serie di rivolte per le quali è costata la vita a 13 detenuti. Mentre è stata rispettata la famiglia nucleare, le coppie sposate o conviventi, i genitori con i loro bambini o ragazzi, le interazioni intergenerazionali sono state cancellate con un rigo di penna. Le visite ai figli adulti o ai nonni sono state messe al bando. All’amore tra l’uomo e la donna non è stata riconosciuta alcuna rilevanza sociale.

Un paradigma fortemente biologico governa poi la vita dei malati negli ospedali. La inevitabile paura di noi operatori, così come l’epistemologia che domina la cultura medica contemporanea, ha dettato indicazioni precise: nessun contatto umano.

Le interazioni con i malati sono ridotte al minimo, a quel minimo reso necessario dalla cura del corpo. Volti irriconoscibili avvolti da tute e mascherine fanno capolino brevemente oltre porte per il resto sempre chiuse. La scienza virologica, ci viene spiegato senza cessa dai media, non consente di accomiatarsi da chi ci lascia per sempre: madre padre, marito, moglie, figlio e figlia. Si muore soli. Non ci sono eccezioni: E i forni attendono i cadaveri senza quell’ultimo saluto che le civiltà umane hanno imparato a riconoscere anche ai peggiori nemici.

Confesso che sono rimasto sgomento ed ho qualche difficoltà a riconoscermi in una comunità nazionale così indifferente ai legami del sangue e del cuore. Ma non si tratta di romanticismo od idiosincrasia. Come psichiatri, e come psicoterapeuti, soprattutto come uomini, sappiamo bene che l’amore è necessario alla vita. Tanto quanto la farina che va a ruba nei supermercati.

Negli anni ‘30 nei reparti di pediatria era uso allontanare qualsiasi familiare dal bambino. Presenze troppo emotive rallentano il lavoro dei clinici e certo comportano potenziali rischi infettivologici.

Le conseguenze furono gravi. Presto i bambini si rattristavano, perdevano interessi e vitalità, peggioravano e talvolta morivano. René Spitz (1945) fu in grado interpretare la sindrome dell’ospedalismo come espressione della deprivazione dalla figura materna. Lo studio sperimentale ed etologico del legame madre-bambino ricevette poi un impulso straordinario degli studi di John Bowlby.

Lo psicologo britannico dimostrò che i legami parentali e di coppia hanno una specifica base nei comportamenti geneticamente determinati e sono un prerequisito per la sopravvivenza di tutti i mammiferi.

Del resto i nostri vecchi sapevano bene che di cuore, di crepacuore, si muore. E la moderna epidemiologia ci ha fornito precise conferme empiriche: i lutti, le separazioni, sono seguiti da un significativo incremento di decessi. L’isolamento sociale comporta un incremento della morbilità e della letalità di svariate malattie.

L’uomo ha bisogno di amore. L’uomo ha bisogno di amicizia. La salute psichica e fisica dipendono da una persistente rete di contatti umani e sociali. Quali danni sta producendo l’isolamento sociale che stiamo perseguendo con tanta pervicacia?

Le cronache dell’epidemia ci parlano ogni giorno di coniugi, fratelli e figli che muoiono a breve distanza da un congiunto. Banali coincidenze statistiche?

Temo proprio che la paura che ci attanaglia in questa fase così difficile ci stia portando fuoristrada. Forse scopriremo presto che alla paura abbiamo sacrificato ciò ci cui abbiamo più bisogno.

 

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Paolo Azzone
Paolo Azzone

Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Rosengren A., Orth-Gomér K., Wedel H., Wilhelmsen L. (1993) Stressful life events, social support, and mortality in men born in 1933. British Medical Journal, 307:1102-1105.
  • Spitz R.A. (1945). Hospitalism—An Inquiry Into the Genesis of Psychiatric Conditions in Early Childhood. Psychoanalytic Study of the Child, 1, 53-74.
  • Bowlby J. (1969) Attachment and Loss. Vol. I: Attachment. Basic Book, New York. Tr. It. (1999) Attaccamento e perdita: L’attaccamento alla madre. II ed. Bollati Boringhieri editore, Torino.
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