Per orientarci nelle interazioni sociali con gli altri individui, comprendere il loro stato d’animo, così come i loro comportamenti, è necessario basarsi su degli indizi indiretti, dal momento che ci è preclusa la possibilità di avere accesso alla fonte diretta: la loro mente.
Generalmente, è possibile contare su degli indizi contestuali, ovvero l’interpretazione della situazione in cui l’azione si svolge, per inferire con discreta verosimiglianza cosa l’altra persona possa provare e dedurre o predire il suo comportamento; un altro metodo di indagine che l’essere umano ha perfezionato nel corso dell’evoluzione, è la capacità di interpretare gli stati emotivi a partire dalle espressioni del volto della controparte, operazione facilitata dalla relativa regolarità inter individuale e cross-culturale delle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, sorpresa e disgusto), di intuibile valenza adattiva, e di alcune emozioni dette secondarie (divertimento, disprezzo, contentezza, imbarazzo, eccitazione, colpa, orgoglio, sollievo, soddisfazione, piacere sensoriale, vergogna), come formalizzato nella teoria Neuroculturale delle emozioni (Ekman, 1971).
Tuttavia, alcune ricerche nell’ambito della cognizione sociale, hanno evidenziato come non solo indizi esterni, come quelli contestuali o delle espressioni altrui, ma anche indizi interni, come lo stato emotivo della stessa persona che si trova a giudicare la situazione, vengono presi in considerazione in maniera più o meno esplicita nell’attribuzione di senso e nel guidare le predizioni degli individui (Silani et al., 2013; Steinbeis & Singer, 2014), fenomeno che è stato denominato Egocentrismo Emotivo.
Quando veniva chiesto di esprimere giudizi emotivi circa loro stessi ed un altro individuo, in situazioni congruenti o incongruenti, ad esempio subendo entrambi una stimolazione tattile piacevole o dove uno ricevesse una stimolazione piacevole e l’altro una stimolazione fastidiosa, gli individui dimostravano un bias costante verso il proprio stato emotivo, dimostrando un’inevitabile tendenza a proiettare la propria emozione sull’altro, rendendo meno accurati i loro giudizi.
I risultati di questi studi che, va sottolineato, precludevano la possibilità di vedere in prima persona la reazione dell’altro alla stimolazione subita e si basavano soltanto sulla descrizione contestuale, sono stati interpretati come una difficoltà nel discriminare l’articolazione sé/altro in termini di rappresentazione degli stati emotivi (Hoffman et al., 2016; Silani et al., 2013; Tomova et al., 2014).
Altri studi, che includevano invece la possibilità di assistere alle espressioni emotive della controparte per formulare il giudizio, hanno riscontrato come risultasse più facile riconoscere correttamente le emozioni altrui quando queste fossero congruenti con quella sperimentata contestualmente dal soggetto giudicante (Qiao-Tasserit et al., 2017; Schmid & Schmidmast, 2010): in questo caso, i risultati sono stati interpretati come evidenze del fatto che gli stati emotivi esperiti dal soggetto attivassero le rappresentazioni mnestiche corrispondenti, fungendo di fatto da facilitatori nel riconoscimento e nell’elaborazione cognitiva di informazioni congruenti con esse (Forgas, 2017). Tuttavia, una spiegazione alternativa potrebbe essere nuovamente quella di un bias di attribuzione dei propri stati mentali agli altri, ovvero come riflesso dell’Egocentrismo Emotivo: per verificare questa eventualità, Trilla e colleghi (2020) hanno condotto una ricerca sperimentale su 50 soggetti, sottoponendoli ad un task di percezione emotiva dopo aver indotto differenti stati emozionali.
I soggetti sono stati esposti dapprima ad una combinazione di ricordi autobiografici rievocati da loro stessi e di clip audiovisive create dagli sperimentatori, con l’obiettivo di elicitare in loro una determinata emozione (felicità, tristezza o neutra). In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di indicare se le immagini che venivano loro mostrate raffigurassero espressioni di felicità o di tristezza: i volti presentati si configuravano in realtà come figure ambigue, create cioè ad hoc dagli sperimentatori mescolando i connotati di volti felici o tristi tratti dal Database FACES (Ebner et al., 2010). Ad ogni trial successivo il volto mostrato presentava il 5% in più dell’emozione contraria a quella appena identificata dal soggetto, decrescendo su di una scala immaginaria nel continuum tra felicità e tristezza: se ad esempio il volto veniva correttamente identificato come tristezza, quella successiva avrebbe mostrato il 5% in più di felicità, “diluendo” la tristezza ulteriormente fino ad un punto (reversal point) in cui il partecipante smetteva di percepire la tristezza iniziando a percepire felicità. Dopo aver raggiunto per otto volte il reversal point la scala terminava.
Da ultimo, i partecipanti hanno compilato dei questionari volti a raccogliere informazioni demografiche così come indici disposizionali di empatia, misurati attraverso due scale dell’Interpersonal Reactivity Index (empathic concern e prospective taking) ed eventuali tratti caratteristici dello spettro autistico, che sono stati associati nella letteratura scientifica ad una difettualità nel riconoscimento delle emozioni e caratterizzati da un maggiore egocentrismo nei compiti di mentalizzazione cognitiva.
I risultati hanno confermato l’esistenza del bias di Egocentrismo Emotivo, ovvero che la percezione delle emozioni venisse effettivamente influenzata dallo stato emotivo dei partecipanti e che l’emozione provata dai soggetti fosse un predittore significativo dell’emozione percepita nei volti che venivano loro mostrati. Inoltre, è stato riscontrato come una maggiore tendenza nel prospective taking, misurata con il questionario sull’empatia, correlasse con una minore influenza del bias di Egocentrismo Emotivo, limitando la misura in cui l’emozione provata dal soggetto influenzasse il suo giudizio circa gli stati emotivi altrui e di fatto rimarcando come esso sia legato alle abilità di cognizione sociale. Una recente metanalisi (Israelashvili et al., 2019) sembra supportare questi dati riscontrando un’associazione positiva tra la disposizione individuale al prospective taking e una maggiore accuratezza nel riconoscimento delle emozioni, interpretata come una maggiore attenzione focalizzata sull’”altro” durante il processo di inferenza circa gli stati mentali, che minimizza l’interferenza del proprio stato emotivo in questo processo. Da ultimo si è esclusa un’associazione tra l’Egocentrismo Emotivo e i tratti dello spettro autistico, che sembrano incapaci di contrastare il bias di egocentrismo, così come con l’indice di empathic concern, che sembra supportare studi precedenti che associano questo tratto a bias di attribuzione altercentrici, ovvero di natura speculare a quelli egocentrici (Hoffmann et al. 2016).
Studi futuri dovrebbero mirare ad estendere i risultati ottenuti, ad esempio adottando un paradigma più ecologico che non limiti a due sole emozioni le possibilità di scelta dei partecipanti, così come sarebbe auspicabile prevedere un gruppo di controllo che esprima giudizi di natura non emotiva pur essendo stato sottoposto all’induzione emotiva preliminare.